Quando Liu Lipeng mi ha contattato per la prima volta, nel luglio 2020, vivevo ancora in Cina. All’inizio volevo scrivere un racconto di finzione, ma non avevo il coraggio, perché avrebbe potuto farmi finire in carcere.

Ho lasciato la Cina nel 2021 e per un po’ di tempo ho riflettuto su cosa significa scrivere senza censura. Un anno dopo ne ho parlato con un caro amico: gli ho riportato questa storia, e lui ha insistito perché io la scrivessi. Non si tratta solo di censura, mi ha detto, ma di uno sguardo su come la Cina è diventata il paese che è oggi. Spero di aiutare chi legge a capire qualcosa in più della vita quotidiana in Cina, delle lotte e delle ribellioni che l’hanno attraversata.

Liu Lipeng

La libertà è arancione, si ripete tra sé Fascista Ordinario, con un sorriso amaro.

È il 2013. Per quattro mesi consecutivi, Liu Lipeng trascura volontariamente i suoi compiti. Ogni ora il sistema gli invia un’enorme quantità di post, ma lui non cancella quasi mai neanche una parola. Accumulati tre o quattromila post, clicca e l’intero blocco viene pubblicato. Nel gergo dei censori, questo è un “permesso totale con un clic” (一键全通), perché così tutti i post appaiono sulle pagine del social network Weibo per essere letti da milioni di persone, condivisi e discussi.

Liu si collega alla pagina di gestione di Weibo, dove sono segnalate molte parole. L’arancione indica quelle “sensibili” più comuni, che richiedono una revisione attenta, come “libertà”, “democrazia” e i tre caratteri del nome Xi Jinping. Anche se sono parole che compaiono regolarmente su giornali e televisione, non significa che i cittadini comuni possano usarle liberamente.

Tre mesi prima, alcune persone erano scese in strada brandendo cartelli con slogan su democrazia e libertà. La polizia le aveva arrestate subito. In Cina, nessuno si sorprende di eventi simili.

Il rosso indica le parole ad alto rischio che non possono essere pubblicate e devono essere cancellate: “Falungong”, il movimento spirituale messo al bando; “64”, un numero riferito al 4 giugno, data del massacro di Tiananmen del 1989; i nomi di Liu Xiaobo e del Dalai Lama; “gelsomino”, perché dopo la rivoluzione tunisina di due anni prima alcune piccole manifestazioni, note come la “rivoluzione dei gelsomini” cinese, hanno fatto sì che al governo non piacesse proprio il nome di questa pianta, fiore nazionale delle Filippine.

Dopo tre anni da censore, Liu Lipeng odia il suo lavoro. Detesta il soffitto bianco dell’ufficio, la moquette grigia e l’ambiente che somiglia più a una fabbrica. Detesta anche i circa duecento colleghi seduti nei loro cubicoli, ognuno chino su mouse e tastiera, intenti a cancellare o nascondere contenuti. Di tanto in tanto, qualcuno trova prove di un reato.

Un pomeriggio la monotonia dell’ufficio viene interrotta da Chen Min, che nel cubicolo accanto si alza di scatto, agitando le braccia euforico. Ha scoperto l’account Weibo di Wang Dan. Tutti sanno che Wang Dan, leader studentesco del 1989, esiliato politico, è uno dei nemici più pericolosi del governo. Trovarlo è un risultato importante, e la notizia è subito segnalata all’ufficio di Weibo a Pechino. Potrebbe arrivare al Dipartimento di pubblica sicurezza.

Il mese successivo, un alto dirigente arriva appositamente da Pechino per elogiare Chen Min per aver scoperto informazioni sul “nemico”. Ne loda “l’acume” e “l’alto livello di consapevolezza” e gli dà un bonus di quattrocento yuan. Tutti i colleghi applaudono e gridano di ammirazione. Tutti tranne Liu Lipeng. Seduto in mezzo alla folla, fissa il volto di Chen Min e si chiede: ne vale davvero la pena?

Per quattro mesi Liu Lipeng vuole afferrarlo per il collo e domandargli: questo lavoro, ne vale la pena? Non è solo Chen Min. Tutti i censori che seguono le regole alla lettera. Seduti nei loro cubicoli a cancellare freneticamente i post, pensano che quello che fanno sia molto importante. Liu Lipeng vorrebbe mettersi in mezzo alla stanza e gridare: perché siete così eccitati? È solo un mestiere da duemila yuan al mese. Ne vale la pena? Ne vale davvero la pena?

No, non ne vale la pena, è un lavoro inutile e privo di soddisfazioni. Ed è estenuante. Il turno diurno dura undici ore e quello notturno è ancora più lungo: tredici. Nelle pause, la maggior parte dei censori si allontana di nascosto per fumare e chiacchierare sulle scale. Liu Lipeng non fuma e non ha nulla di cui spettegolare con gli altri. Annoiato, si collega a un servizio vpn, un sistema che permette di aggirare il grande firewall cinese, e usa Google Earth per vagare nelle strade di città sconosciute, fantasticando sulle persone che ci abitano e sulle loro vite.

Si collega spesso alla pagina di Weibo, non come censore ma come utente regolare. Su Weibo, il suo nome è Fascista Ordinario (普通法西斯). È un nome satirico, ma Liu Lipeng non è sicuro su chi sia il bersaglio della satira. Quasi nessuno tra i censori usa Weibo, e Liu Lipeng non ha mai ammesso di farlo con i suoi colleghi. Nessuno pensa che Liu abbia tanto da dire su quella piattaforma né che pubblichi contenuti considerati “malsani” e “inappropriati”, per non parlare di quelli “illegali” o “reazionari”. Lui, però, non si mette mai nei guai.

Liu Lipeng deve controllare tutti i post pubblicati tra il decimo e il quattordicesimo minuto di ogni ora, esaminando ogni contenuto caricato dagli utenti comuni. Alcuni post di Fascista Ordinario sono pubblicati proprio in quei quattro minuti, altri no. Non è una scelta deliberata, ma Liu è certo che, anche se i suoi colleghi controllassero i post che pubblica nelle loro finestre di tempo, non troverebbero nulla di sospetto. Conosce tutte le parole soggette a censura e sa come evitarle. Al momento, i post su Weibo sono limitati a 140 caratteri, una restrizione che cambierà solo più avanti, e Liu usa ogni stratagemma per ridicolizzare il Partito comunista e deridere il governo. Inserisce anche parole sensibili, ma i censori le ignorano perché sono troppo occupati a cercare quelle evidenziate in arancione o in rosso.

Angelo Monne

Intorno all’aprile 2014, il governo cinese comincia a epurare gli utenti influenti di Weibo, i cosiddetti account Grande V. Un giornalista del Quotidiano dell’esercito popolare di liberazione (解放军报) è così infervorato da pubblicare un post in cui definisce tutti i Grandi V “parassiti” da trattare con severità. Pochi minuti dopo, Fascista Ordinario pubblica un commento volgarissimo che suggerisce sostanzialmente al giornalista di avere rapporti sessuali con sua madre. Quel post scatena ancora più commenti e condivisioni. Molti trovano gratificante l’insulto, ma nessuno sa che l’autore è in realtà un censore. Nessuno sa neanche che nel 2013 questo tipo di insulti osceni è considerato sicuro e legale. In altre parole, il governo cinese non vuole che la gente discuta di libertà e democrazia, ma è più che disposto a tollerare oscenità.

Fascista Ordinario ha il compito di sorvegliare più di trecento utenti di Weibo, per lo più Grandi V, la maggior parte dei quali critica il partito. Secondo la visione ufficiale, sono “fattori d’instabilità”, dunque soggetti pericolosi. Tra loro ci sono giornalisti, professori, avvocati e perfino qualche star del grande e piccolo schermo: persone abbastanza coraggiose da criticare il sistema politico. Anche se la maggior parte dei loro post è moderata, magari paragona il governo a un marito violento o a un arrogante teppista, pochi si rendono conto che stanno vivendo il massimo della libertà di parola nella Cina comunista, un’età dell’oro.

In cinese esiste un’espressione che descrive la capacità di ottenere ciò che si vuole per vie traverse: “Puntare il dito contro il gelso per colpire la robinia” (指桑罵槐). Ma per quanto cauta o indiretta possa essere qualsiasi forma di critica, il partito comunista la detesta comunque. Molti contenuti vengono cancellati e gli account nella lista di controllo di Fascista Ordinario scompaiono spesso senza una ragione apparente. Le persone dietro questi account non possono più pubblicare contenuti e alcune sono arrestate.

Liu Lipeng apprezza e simpatizza con loro. Approfitta del suo ruolo per applicare, di nascosto, qualche trucco che lui chiama “lavoro anti-censura” (做一點), cioè riattiva gli account congelati e recupera post cancellati o nascosti. A volte si sente in colpa per aver violato l’etica professionale, ma conclude in fretta che è come “due negativi che fanno un positivo in matematica. Il suo è un lavoro immorale, quindi violare l’immoralità è morale”.

Anni dopo, Jenny Ho ricorderà ancora quando Liu Lipeng l’ha aiutata a ripristinare il suo account congelato. Originaria di Hong Kong, nel 2013 pubblica molti post sulle proteste nella sua città. È bandita e per settimane non può pubblicare nulla. È allora che nasce il “partito della reincarnazione” (轉世黨) di Weibo: quando un account è congelato e non c’è modo di recuperarlo, l’unica opzione è crearne uno nuovo, una vera e propria “reincarnazione”, appunto. Proprio mentre Jenny si stava preparando a reincarnarsi, Liu Lipeng le invia un’email per avvisarla che ha sbloccato di nascosto il suo account. “Non lo conoscevo, ma mi ha aiutato molto”, racconterà Jenny. “Mi chiedo spesso che tipo di persona sia. Perché rischia in questo modo?”.

Dal punto di vista di Liu Lipeng, non c’è alcun pericolo: “Se fossi scoperto, potrei ricevere un richiamo o perdere qualche punto nella valutazione del mio rendimento. Il peggior risultato possibile sarebbe stato il licenziamento, ma non è un problema, perché avevo già deciso di dimettermi”.

A questo punto Liu Lipeng ha appena compiuto trent’anni. Ha un viso infantile, anche se si vedono i primi capelli bianchi. È anche irrealisticamente ottimista. La sua violazione dell’etica sul posto di lavoro è molto più pericolosa di quanto immagini. Ancora più rischioso è che colleziona file sulla censura di Weibo. I documenti più significativi sono i cosiddetti file di passaggio di consegne (交班案) dei censori, che riportano gli ordini dei superiori in occasione di nuovi incidenti, l’inserimento di nomi o parole sensibili nella lista nera, e le istruzioni su come impiegare in modo più efficiente le quattro armi letali che hanno a disposizione: “cancellare, nascondere, bloccare e rendere privato”. Liu Lipeng non sa bene perché conserva quei file, se non per la convinzione che siano importanti: “Fanno parte della storia contemporanea”.

Contrariamente a quanto molti immaginano, i file dei censori non sono controllati né ben organizzati. Sono pieni di errori di battitura e frasi sgrammaticate. Alcuni sono molto severi: “Se scoperto, licenziare immediatamente”. “Cancella il porno, non conservarlo. Se succede di nuovo, i trasgressori saranno pesantemente multati”. Altri sono più schietti e sembrano il rimprovero di un genitore a un figlio disubbidiente. Un fascicolo datato 6 maggio 2013, per esempio, recita: “Se non riguarda politica e pornografia, non trattarlo con superficialità. Segui semplicemente la procedura”.

Liu Lipeng ha appena presentato la sua domanda di dimissioni quando vede quel file. Si sente sollevato. “Finalmente”, pensa, “posso lasciare questo posto di merda”.

Cinque giorni dopo, mentre Liu Lipeng sta completando le pratiche per le dimissioni, accede alla pagina di gestione di Weibo. Si accorge che uno degli account Grandi V che segue, quello dello scrittore Murong Xuecun, è stato cancellato.

Io

Murong Xuecun sono io.

È il 2013, sono un autore di best seller e un utente verificato di Weibo con una piccola V blu dopo il mio nome, è per questo che i Grandi V sono conosciuti con questo nome.

In poco più di due anni ho pubblicato più di 1.800 post su Weibo. Molti di questi criticano o deridono il Partito comunista. Ottengono molto successo, con centinaia di commenti e condivisioni. Ricevo spesso elogi per il mio coraggio, ma a ben vedere le mie critiche indirette e le mie prese in giro non sono veri atti di coraggio. Tutto ciò che dico è tollerato. Tutto ciò che pubblico è permesso. In questo non sono diverso da molti intellettuali, che evitano accuratamente di affrontare l’elefante nella stanza e non chiedono mai apertamente la fine del dominio del Partito comunista. Naturalmente, se lo facessi, il mio account sarebbe immediatamente cancellato. E probabilmente sparirei.

A maggio 2013 ho quasi quattro milioni di follower su Weibo. I loro account non sono gestiti da Liu Lipeng. Weibo assegna un censore personale, noto come “guardiano di Weibo”. Il mio è una donna che si chiama Jia Jia. Appena scrivo qualcosa d’inappropriato, mi telefona: “Signor Mu, quel suo post non va bene. L’ho cancellato io”. A volte mi anticipa i nomi di persone o eventi che non devo citare, così posso aggirare la zona proibita. “Non abbiamo bisogno di entrare in conflitto diretto con loro, giusto?”.

Dice “noi”, non “lei”. Quando affronta certi argomenti, lo fa con tono pacato, come se stesse dando un consiglio, come una sorella o un’amica intima. Non ho mai incontrato Jia Jia, ma mi sento in dovere di dire che apprezzo molto il suo modo di lavorare. Sì, è una censora, ma fa il suo compito con gentilezza, attenzione e una certa umanità. In Cina, censori come lei sono rari e preziosi.

Non so perché il mio account sia stato cancellato, e nessuno me lo spiega. Nemmeno Jia Jia.

Xi Jinping è appena salito al potere e non ha ancora rivelato le sue vere intenzioni. Molti ripongono ancora grandi speranze in lui, convinti che guiderà la Cina verso la democrazia. Ma presto un documento interno, intitolato “Le sette cose di cui non si può parlare” (七不讲), spezza quelle illusioni. Il testo rivela con chiarezza le ambizioni di Xi. Ordina agli insegnanti di non affrontare in aula sette temi considerati sensibili: i valori universali, la libertà di stampa, la società civile, i diritti civili, gli errori storici del Partito comunista, la borghesia privilegiata e l’indipendenza della magistratura.

Quando il documento viene diffuso ho una giornata piena. Tengo una conferenza in una biblioteca, poi corro a un incontro. In macchina, durante il tragitto, scrivo un breve commento su Weibo in cui suggerisco che le sette cose di cui non si può parlare si riducono in fondo a una sola: la cultura.

L’incontro si tiene in un ristorante elegante del centro di Pechino. Siamo una decina di persone: professori, avvocati, giornalisti e attivisti per i diritti umani. Beviamo qualche bottiglia di vino, mangiamo piatti costosi e discutiamo del futuro del paese. In questo momento, molti sono convinti che il dominio del Partito comunista non durerà ancora a lungo. La Cina avrà un futuro luminoso. “Il cielo si schiarirà”, mi dice un professore. “Lo vedremo di sicuro”.

Nessuno dei presenti immagina che, nel giro di dieci anni, metà di loro finirà in prigione. Alcuni, come me, saranno in esilio. Chi resterà a Pechino sarà stato messo a tacere e non dirà più una parola. L’ottimismo che condividiamo in questo raduno di alto profilo sembrerà illusorio e lontano, come un sogno fugace.

Mentre torno a casa dal ristorante, ricevo un messaggio da un amico a cui Weibo ha chiuso l’account il giorno prima. Come molti utenti della piattaforma, considero la cancellazione degli account una questione seria. Così scrivo su Weibo una domanda dal tono deciso: “Chi vi ha dato il diritto di privare arbitrariamente i cittadini della loro libertà di parola?”.

L’Amministrazione cinese per il ciberspazio è l’agenzia principale della censura. Il nuovo capo, Lu Wei, soprannominato “lo zar di internet”, avvia una purga della libertà di espressione online. Nei giorni successivi, diversi account sono cancellati e molte persone vengono arrestate per quel che hanno pubblicato.

Ma queste sono solo supposizioni. In Cina non serve una buona ragione per bloccare l’account di qualcuno, basta invocare una vaga “normativa pertinente” che nessuno sa spiegare con chiarezza. Un’agenzia governativa può semplicemente ordinare di far sparire una persona dalla vita pubblica.

La punizione è immediata. Dopo neanche venti minuti dalla pubblicazione del post, il mio account viene cancellato.

Molte persone pensano che il trattamento che ho subìto sia ingiusto. Accendono candele virtuali per me e organizzano “cerimonie commemorative”. Alcuni arrivano perfino ad annunciare che smetteranno di usare Weibo in segno di protesta. In poche ore, cominciano a circolare molte citazioni dei miei scritti “prima della morte” e il mio nome scala le classifiche nei motori di ricerca.

La mia guardiana di Weibo, Jia Jia, la censora gentile, mi telefona e, anche se dispiaciuta, mi consiglia di stare un po’ più attento. “Non è necessario entrare in conflitto diretto con loro, non crede?”.

Forse questa volta non dice più “noi”, perché la situazione è cambiata. Si rifiuta di dirmi quale agenzia abbia emesso l’ordine, parlando solo di “livelli superiori”. Ma i livelli superiori potrebbero essere una qualunque tra queste agenzie: l’Amministrazione cinese per il ciberspazio, il Gruppo centrale per la propaganda, l’Ufficio di pubblica sicurezza o il segretario privato di un alto funzionario. Quegli ordini non vengono mai messi in discussione.

Spero che, vista la nostra vicinanza, Jia Jia mi dia qualche dettaglio, ma lei risponde: “Mi dispiace, signor Mu, non posso davvero rivelarlo. Sa che firmiamo accordi di riservatezza. La prego di avere un po’ di empatia. Anch’io ho una vita, sa?”.

È la mia ultima conversazione telefonica con Jia Jia. Poi creo diversi nuovi account, ma vengono tutti cancellati. Immagino che Jia Jia lo sappia, ma non mi contatta.

Il giorno dopo, verso il tramonto, il mio amico Yu Dayou mi chiama per dirmi che ha ricevuto un’email da uno sconosciuto. Me la gira subito. Contiene solo una riga: “Da inoltrare a Murong Xuecun”. Allegati ci sono due screenshot della pagina di gestione di Weibo, con informazioni dettagliate sul mio account: orario di registrazione, indirizzo ip, numero di cellulare, motivi per cui hanno cancellato i post e bloccato l’account, e infine la risposta alla domanda con cui avevo tormentato Jia Jia: quale agenzia e chi ha ordinato la cancellazione del mio account.

Liu Lipeng

È l’ultimo giorno di Liu Lipeng a Weibo. Il passaggio di consegne è completato e i suoi effetti personali sono impacchettati. Tra qualche ora potrà lasciare per sempre quel posto putrido.

Liu Lipeng non mi conosce e non ha letto i miei libri. Ha letto alcuni miei post facendo il censore, ma non l’hanno impressionato: “È solo un altro intellettuale in un’epoca piena d’intellettuali, forse uno relativamente importante”. Vede il grande supporto al mio account e poi si mette a guardare la pagina di gestione di Weibo. All’inizio non ci pensa molto, poi gli viene un’idea. Forse può fare qualcosa.

Liu Lipeng parla raramente del suo lavoro con gli altri, perché i censori operano in regime di quasi segretezza. Lui lo definisce “un lavoro vergognoso e sporco”. Per molto tempo, nemmeno le persone più vicine sanno cosa faccia davvero per vivere. “Lavori con i computer, vero? Quindi sai ripararli?”, gli ha chiesto una volta un parente.

Liu Lipeng sa riparare i computer e se la cava anche con l’informatica, è un bravo hacker. Sa cancellare le sue tracce online. Ha pensato di salvare l’account Weibo di Murong Xuecun, ma l’ordine di eliminarlo è arrivato da un livello molto alto, quindi non è possibile riattivarlo senza che nessuno se ne accorga.

Liu Lipeng ha firmato lo stesso accordo di riservatezza di Jia Jia e degli altri censori, ma è deciso a violarlo. Quando nessuno lo guarda, copia di nascosto due screenshot sulla sua chiavetta usb. Sa bene quanto valgano quelle immagini, ma non può inviarle direttamente: deve prima trovare un “hub di transito”.

Liu Lipeng nota Yu Dayou tra i follower di Murong Xuecun. Yu è un uomo d’affari non particolarmente in vista, e le sue parole e azioni restano sempre nei limiti consentiti. Liu pensa che Yu possa passare inosservato. Controlla i registri delle comunicazioni di Murong e scopre che Yu e Murong sono in contatto. È perfetto, si dice Liu.

Arriva il momento di andare. Liu Lipeng prende le sue poche cose, esce da quel grigio grattacielo e cammina per qualche centinaio di metri lungo l’antico grande canale che collega Pechino a Hangzhou, mentre riflette su cosa fare. Essere scoperto significherebbe sicuramente l’arresto, forse una condanna a qualche anno di carcere. Quanto? Due anni? Tre anni? Al massimo tre, non di più.

Entra in un internet point, trova un posto appartato e apre un nuovo account di posta elettronica per l’utente “Senza nome”. Gli piace quel nome.

Angelo Monne

Invia le due immagini a Yu Dayou, aggiungendo una sola frase. Dopo aver mandato l’email, resta seduto davanti al computer in silenzio per qualche istante, mentre ripensa ai tre anni passati come censore. Pensa alla sua famiglia e ad Alice. Tra pochi giorni sposerà Alice, una ragazza molto semplice, completamente indifferente alla politica. Probabilmente non capirà il significato di ciò che ha appena fatto. Meglio non dirglielo, per non farla preoccupare.

Dopo quaranta minuti, Yu Dayou risponde: “L’amico chiede: si può rendere pubblico?”.

Liu Lipeng ci ha già pensato. Non appena “l’amico” pubblicherà le due immagini, Weibo cercherà sicuramente di risalire alla fonte della fuga di notizie. Potrebbero perfino denunciarlo alla polizia. Tentenna. Sa che almeno tre, quattrocento persone hanno accesso a quella pagina, quindi non è detto che sospettino di lui.

“Va bene”, risponde Liu. “In ogni caso, è improbabile che mi trovino”.

Esce dall’account di posta elettronica e cancella la cronologia di navigazione. Controlla ancora una volta, assicurandosi di non aver lasciato tracce, poi si alza con sicurezza. Intorno a lui molti giovani sono immersi nei videogiochi, nessuno lo nota. Liu Lipeng esce silenziosamente dall’internet point. Presto farà buio. Cammina veloce, cercando di confondersi tra la gente a passeggio.

Io

Gli screenshot che Senza nome mi ha inviato contengono molti nomi: i censori di Weibo Sun Yacheng, Jia Fan e Lei Xiaolei, alcuni funzionari e un certo Qian Feng, l’uomo che ha cancellato il mio account. C’è anche il vecchio signor Chen, caporedattore di Weibo. Una volta eravamo amici. Nei giorni successivi non ci scambiamo nemmeno un saluto. Ai suoi occhi, ormai sono un “soggetto sensibile”, un agente patogeno da cui stare lontano. Capisco la sua posizione e mi scuso per i problemi che gli ho causato.

Il “Ministro Peng” citato negli screenshot è il vero protagonista di questa storia: Peng Bo. Appena promosso al rango di viceministro, è entrato nella cerchia ristretta della nomenklatura cinese, quella classe privilegiata al di sopra della legge. Nei suoi interventi pubblici proclama di voler “ripulire a fondo il ciberspazio”, cioè eliminare ogni voce sgradita al partito. È per questo che ordina la cancellazione di tutti i miei account.

Peng Bo ha una testa lucida e stempiata, una bocca larga, un’aria solenne e saggia. Ci metto un po’ a scoprirne l’identità, poi scrivo un pezzo altisonante in cui lo definisco “un uomo di potere che si nasconde dietro lo scudo dell’oscurità”. Scrivo: “Credo che non potrai nasconderti per sempre, perché la luce di un nuovo giorno illuminerà anche il luogo in cui ti nascondi. Caro censore senza nome, quando quel momento arriverà, tutto il mondo saprà chi sei”.

Due mesi dopo non riesco più a trattenermi: uso un nuovo account per pubblicare su Weibo un messaggio minaccioso rivolto a Peng Bo. Scrivo che, se il mio account sarà bloccato di nuovo, userò tutte le mie risorse per indagare sulle sue malefatte e renderle pubbliche. “Il giorno in cui questo account sarà cancellato sarà anche il giorno in cui tu finirai in prigione. Non dire che non eri stato avvisato”.

Non sono minacce lanciate nel vuoto. Prima della promozione, Peng Bo è stato giornalista, redattore ed editore. Abbiamo molti amici e conoscenti in comune e, anche se ripete sempre la parola “integrità”, in molti sospettano che sia corrotto e dissoluto. Il buon senso suggerisce che un alto funzionario con tanto potere difficilmente possa essere onesto come dice.

Forse è per questo che Peng Bo prende sul serio la mia minaccia. Un mese dopo, il mio nuovo account Weibo viene cancellato. È passata la mezzanotte quando ricevo una telefonata dal caporedattore di Weibo, il mio ex amico, il vecchio signor Chen degli screenshot. È molto agitato e mi dice che l’ordine di eliminare il mio account proviene da un’altra organizzazione.

“Peng Bo ha cominciato da giornalista. È come noi, siamo tutti uguali”, dice il vecchio signor Chen. “E poi, l’ultima volta, quando ha cancellato il tuo account, non è stata una sua decisione. Ha solo eseguito degli ordini. Quindi non metterti contro di lui, ok?”. Poi mi propone un incontro con Peng Bo: “Solo noi tre. Andiamo a bere qualcosa e ne parliamo, ok?”.

Nelle due ore successive ricevo sei telefonate simili da parte del vecchio signor Chen, tutte su incarico di Peng Bo. Anche un altro amico comune mi chiama per dirmi, più o meno: “Non metterti contro di lui. Non ti conviene”. Non rispondo a nessuno. Mi metto a scrivere un annuncio pubblico: offro una ricompensa di duecentomila yuan a chiunque mi fornisca prove della corruzione di Peng Bo. Poi mi chiama Yu Dayou: “Se continui così, Peng Bo diventerà molto pericoloso. E se non riuscirai a batterlo, a rimetterci sarà chi ti ha dato la soffiata. L’ha fatto in buona fede, non puoi coinvolgerlo”.

Io e il mio censore

Liu Lipeng non sa nulla di tutto questo. Non è al corrente della mia guerra con Peng Bo. Nell’estate del 2013 sposa Alice e organizza il ricevimento in un ristorante elegante di Tianjin. Ci sono molti invitati: parenti, amici, conoscenti. Liu Lipeng beve parecchio. A volte ripensa al suo vecchio lavoro da censore, che ancora oggi gli provoca nausea.

Dopo il matrimonio, un parente gli procura un impiego temporaneo in un’azienda statale. “Non era un mestiere né bello né brutto, solo nella media”, racconterà. Alice è incinta del loro primo figlio. Per uno stipendio migliore, Liu Lipeng cambia lavoro e passa a Leshi internet information and technology, una piattaforma di streaming simile a Netflix, dove fa il responsabile del controllo qualità. Non ha a che fare con la censura, ma è fianco a fianco con i censori. Ogni giorno vede gli ordini mandati dal Gruppo per la propaganda del comitato centrale del Partito comunista cinese, dall’Amministrazione del ciberspazio della Cina e dall’Amministrazione statale per la radio, il cinema e la televisione. Alcuni sono incredibili. Il presentatore di un varietà televisivo dice di essere “morto dal ridere”. La parola “morto” deve essere messa tra virgolette, altrimenti si viola il regolamento. Come se il pubblico non fosse abbastanza intelligente da capire un’espressione così semplice.

“Per ragioni che non posso rivelare”, mi dirà Liu Lipeng con un sorriso, “comincio a raccogliere quegli ordini”. Apre sei account vpn all’estero e copia meticolosamente pagina dopo pagina tutte le direttive di censura, poi le carica su dei server cloud fuori dal grande firewall cinese. In quattro anni accumula più di un milione di caratteri cinesi di documenti ufficiali. È convinto che quel materiale abbia un valore straordinario e si promette che un giorno lo renderà pubblico: “Così tutti potranno vedere come funziona davvero questo sistema corrotto. Sarà come smascherare una gigantesca truffa”.

Sa bene che è un’attività pericolosa, e proprio per questo non dice nulla ad Alice: se lo sapesse, si spaventerebbe moltissimo. Più la raccolta cresce, più aumenta la sua ansia. Non si fa illusioni: quello che sta facendo basta per una condanna ad almeno tre anni. Cinque o sei anni sono più probabili, otto o dieci non sono da escludere. Suo figlio ha appena cominciato a camminare, sua figlia è appena nata. Se la polizia lo arrestasse, la sua famiglia andrebbe in pezzi.

Intanto io sono sparito dalla vita pubblica cinese: i miei libri non possono più essere venduti, i miei saggi non possono essere pubblicati. Vivo isolato in un piccolo appartamento a Pechino, a soli centocinquanta chilometri da Liu Lipeng, che abita a Tianjin. Ho problemi di soldi e penso spesso a Senza nome. Che tipo di persona è? Perché correre un rischio così grande per fornirmi informazioni tanto delicate? A volte mi chiedo se non sia stata Jia Jia, la mia censora dalla voce pacata, a passarmi quei dati. Yu Dayou e io siamo d’accordo: chiunque sia, è una persona straordinaria. “Se un giorno si scoprirà chi è stato”, dice Yu, “gli offrirò una cena come si deve”. Anche io vorrei dire, con tutto il rispetto: “Grazie. Grazie per tutto quello che hai fatto quando eri senza nome”.

In quell’epoca senza nome, la carriera politica di Peng Bo procede senza intoppi. È sempre in televisione e sui giornali. Presiede riunioni e pubblica discorsi in cui invita tutti a “studiare bene, diffondere bene e applicare bene lo spirito degli importanti discorsi del segretario generale Xi Jinping” e a “responsabilizzare l’opinione pubblica sulla denuncia dei comportamenti sospetti e la rimozione attiva dei contenuti dannosi online”. Il suo potere cresce: oltre a controllare internet, è anche responsabile della “prevenzione e gestione dei culti”. In altre parole, la repressione delle comunità religiose, con conseguenze spesso segnate da lacrime e sangue. Alcuni miei amici credenti vengono picchiati e arrestati, forse proprio in base a un ordine firmato da Peng Bo, e finiscono in uno stato di profonda disperazione.

Nel 2018, Peng Bo diventa professore di giornalismo all’università di Pechino, l’ateneo più importante della Cina. In aula dice agli studenti: “Non sono un funzionario, sono solo un soldato semplice in prima linea”.

Il tempo passa e non so nemmeno io come riesco a sopravvivere. Anche Liu Lipeng ha la stessa sensazione. Gli sembra di vivere in un sogno, con gli anni che scorrono veloci.

Angelo Monne

Alla fine del 2019 e all’inizio del 2020, comincia a diffondersi il covid-19. Prima a Wuhan, poi nel resto del mondo. Nel giro di pochi mesi, milioni di persone perdono la vita. In Cina, Xi Jinping impone politiche sanitarie dure e spietate che trasformano il paese in una prigione a cielo aperto. Alla minima segnalazione, intere metropoli vengono sigillate. Nessuno può uscire di casa senza permesso, nemmeno per comprare da mangiare. Lo stesso vale per chi ha bisogno urgente di cure mediche o per le donne incinte prossime al parto.

Liu Lipeng decide di lasciare la Cina: non ce la fa più a vivere da prigioniero. Ma è ancora più preoccupato per i documenti sulla censura che ha accumulato. Il governo comincia a usare codici qr per controllare la vita dei cittadini. Codici di tracciamento, codici di accesso, codici sanitari: sono tutte manette virtuali. Ovunque si vada, bisogna scansionare un codice e comunicare al governo i propri spostamenti. Basta un piccolo errore e si rischia una perquisizione o addirittura l’arresto. “Se controllano il mio telefono, sono finito”, pensa Liu. “Devo andarmene subito”.

Ma i voli sono pochissimi. L’aeroporto di Tianjin è chiuso. Liu porta Alice e i due figli a Pechino e riesce a prendere uno degli ultimi aerei per Los Angeles. Solo dopo il decollo si rilassa, anche se si chiede se potrà mai tornare in Cina. Più tardi mi dirà: “È stato come scappare da una casa in fiamme”.

Più o meno nello stesso periodo compro un biglietto del treno e riesco a entrare di nascosto a Wuhan, che è ancora in lockdown. Ci resto per un mese, intervistando chi vive lì, poi mi rifugio in un hotel tra le montagne del sudovest, dove passo diversi mesi a scrivere Deadly quiet city: true stories from Wuhan. Quando il libro sta per uscire, prendo solo una valigia, come se dovessi fare un viaggio breve. Mentre lascio la Cina, tremo dalla paura. Finché non supero i controlli di sicurezza, non so se il governo mi lascerà partire: sono ormai un “soggetto sensibile”. Solo quando l’aereo decolla, proprio come Liu un anno prima, mi rendo conto che forse non potrò tornare mai più.

Nel frattempo, Peng Bo viene sospeso e messo sotto inchiesta. La sua carriera governativa è finita. Secondo i resoconti ufficiali, questo “soldato semplice in prima linea” ha preso tangenti per un totale di 54 milioni e 640mila yuan (più di sei milioni e mezzo di euro). In Cina tutti sanno che la corruzione non è il suo unico crimine, e forse neanche il più grave. Gli alti funzionari come Peng Bo hanno l’immunità per reati come corruzione e concussione: sono puniti solo se hanno appoggiato la fazione sbagliata o se non sono stati politici leali. Nonostante le continue dichiarazioni di fedeltà, sembra che Xi Jinping non abbia mai considerato Peng leale abbastanza.

Intanto Liu Lipeng si gode la vita negli Stati Uniti. Il giorno in cui arrivano a Los Angeles, lui e la sua famiglia mangiano da In-n-out Burger. Gli piace così tanto che decide di farne una tradizione: ogni anno, nello stesso giorno, torna lì per comprare qualche hamburger, una grande porzione di patatine e delle bibite. Ogni volta, alza i bicchieri con la famiglia per brindare alla loro vita libera.

“Sono qui da anni ormai, ma ancora mi stupisco di quanto sia azzurro il cielo. Ho vissuto in Cina a lungo, ma un cielo così non l’ho mai visto”.

Un giorno, Liu mi manda un messaggio diretto su Twitter. È fin troppo educato. Scrive: “Signor Murong, mi perdoni se la disturbo”, e poi chiede se mi ricordo l’email inviata tramite Yu Dayou con due screenshot allegati. Come per telepatia, vedo subito quelle immagini davanti agli occhi. Il cuore mi batte forte. Gli rispondo: “Sì, me lo ricordo. Mi sono sempre chiesto chi avesse mandato quell’email. Le sono profondamente grato”.

Facciamo una lunga telefonata, come amici che si ritrovano dopo tanto tempo. Ci raccontiamo tutto quello che abbiamo fatto da quando abbiamo lasciato la Cina. “Voglio chiarire che, anche se ero un censore su Weibo, non sono una cattiva persona”, mi dice. Gli rispondo: “Parlerò in tua difesa”.

Molti giornali parlano di Liu Lipeng. Viene elogiato come se fosse l’agente segreto nelle Vite degli altri o un rifugiato nordcoreano. Accetta con entusiasmo un lavoro al China Digital Times, dove si occupa dell’editing dei documenti sulla censura che ha raccolto nel tempo. Vengono resi disponibili a chiunque voglia capire quanto fosse spietato il sistema. “Ero un censore, ma ora mi occupo di lotta alla censura”, mi dice Liu Lipeng. “È davvero come un sogno”.

Il mio libro sul lockdown di Wuhan è stato pubblicato in Australia, negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Liu e io ci promettiamo d’incontrarci, un giorno, in Australia o negli Stati Uniti. Brinderemo alla libertà e a tutto quello che ha fatto nel periodo senza nome.

Nel mio paese, carceri di massima sicurezza rinchiudono molti miei amici: avvocati, giornalisti e preti soffrono senza vedere la fine. Ora anche Peng Bo si è unito a loro. Il 23 dicembre 2021 fa la sua ultima apparizione pubblica in tv, durante il processo. Indossa un completo blu alla Mao e occhiali con spesse montature nere, e resta impassibile al banco degli imputati. I resoconti ufficiali dicono che ha commesso numerosi crimini, tra cui “tradimento di ideali e convinzioni”, “slealtà verso il partito”, “pratiche superstiziose”, “violazioni del divieto di frequentare circoli privati”, oltre ad aver accettato tangenti per una somma che include l’infausto numero “64”. Viene condannato a quattordici anni di carcere. Dichiara di accettare la sentenza e di non voler presentare appello.

Sa perfettamente che se facesse ricorso non cambierebbe nulla. Per il regime che ha servito, la legge non conta. È la parola del leader a decidere il destino di una persona, proprio come otto anni prima è bastato un suo ordine per cancellare tutti i miei account sui social media.

La televisione di stato dedica solo un paio di minuti al processo. Molti primi piani mostrano l’ex alto funzionario, ex professore ed ex “soldato semplice in prima linea”. Oggi è un uomo di 64 anni, incorniciato tra due agenti di polizia altissimi che lo fanno apparire fragile, invecchiato. I pochi capelli che gli restano sono completamente bianchi. ◆ svb

Murong Xuecun è lo pseudonimo dello scrittore cinese Hao Qun. Ha lasciato la Cina e oggi vive a Melbourne, in Australia. Il suo ultimo libro è Deadly quiet city: stories from Wuhan, covid ground zero (Hardie Grant Books 2022). Questo articolo è uscito sul giornale online Made in China Journal con il titolo “Me and my censor”.

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Questo articolo è uscito sul numero 1619 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati