Nel giorno in cui l’istituto epidemiologico Robert Koch registra in Germania 1.226 nuovi casi di covid-19, il picco più alto dall’inizio di maggio, nel liceo Albert Einstein di Neukölln, a Berlino, la campanella delle 9.05 suona il primo intervallo. Centinaia di alunni escono dalle aule per raggiungere il cortile. La mattina del 12 agosto, il terzo giorno di scuola dopo le vacanze estive, ci sono trenta gradi. I corridoi del liceo hanno molte vetrate, ma pochissime finestre. I ragazzi e le ragazze indossano maglietta e pantaloncini, gonne e sandali, e portano le mascherine. Con il sudore che gli cola lungo il collo, percorrono i corridoi gomito a gomito, come fossero all’ingresso di un concerto. Un insegnante agita il braccio gridando: “Mantenete le distanze!”. Dopo decine di maniglie afferrate e centinaia di superfici toccate, finalmente sono tutti fuori e possono togliere le mascherine. Alcuni si abbracciano, altri si danno il cinque, dividono il panino o si passano la bottiglietta d’acqua. Una coppia si tiene per mano. Molti sembrano felici. Per mesi si sono visti solo attraverso uno schermo. La lunga pausa è finita, la scuola ricomincia, con compiti, doppi turni e aule piene. In Germania le lezioni non si svolgevano regolarmente dal 17 marzo. Ora si riparte.

Il primo land a riaprire le scuole è stato il Meclemburgo-Pomerania Anteriore, il 3 agosto, seguito da Amburgo. Poi le vacanze sono finite anche a Berlino, nel Brandeburgo, a Brema, nella Renania-Palatinato, nello Schleswig-Holstein, nel Nord Reno-Westfalia, nel Saarland e nell’Assia. A settembre si ripartirà anche in Baviera e nel Baden-Württemberg. Ma proprio ora che le scuole riaprono, in tutto il paese i contagi tornano a salire. La Zeit ha seguito il liceo Albert Einstein nella sua prima settimana, ha partecipato alle lezioni, ha osservato le ricreazioni e ha parlato con insegnanti, alunni e genitori. La scuola ai tempi della pandemia. Si può fare?

L’Albert Einstein si trova a Britz, nel quartiere di Neukölln, nella zona meridionale di Berlino. Britz non corrisponde all’immagine che si ha di Neukölln. È diversa dalla Sonnenallee, dove si alternano supermercati turchi e bar arabi. Britz è diversa, molte case hanno anche un piccolo giardino. Vicino al liceo ci sono un discount di mobili e il parco del quartiere, lo Schlosspark Britz, dove si possono fare belle passeggiate.

L’Albert Einstein ha 1.070 alunni. È un edificio degli anni cinquanta: due piani in cemento e mattoncini rossi, pavimento in pvc. Nella caffetteria si trova la cioccolata calda a un euro, la campanella gracchia come un vecchio telefono e dietro la palestra c’è l’angolo segreto dei fumatori. Per quasi cinque mesi l’edificio è stato praticamente abbandonato. Ora deve tornare a vivere, o almeno questo è il piano: il cosiddetto Piano generale di igiene per le scuole di Berlino.

Glasgow, Regno Unito, 12 agosto 2020 (Jeff J. Mitchell, Getty Images)

Nella sua prima versione, all’inizio di agosto, non conteneva più di cinque pagine: spiegava per esempio che bisogna mantenere la distanza di un metro e mezzo, che in caso di sintomi riconducibili a un disturbo respiratorio bisogna restare a casa e che non ci si può stringere la mano o abbracciare. Maniglie, manici e banchi devono essere disinfettati più di una volta al giorno e bisogna aprire le finestre almeno a ogni pausa. La regola più importante era stata annunciata già alla fine di giugno da Sandra Scheeres, senatrice di Berlino responsabile per l’istruzione: le mascherine vanno indossate “dove i gruppi si mescolano”. Questo implica, secondo Scheeres, l’obbligo di mascherine nei bagni e nei corridoi, ma non in classe e in cortile. Mascherina se serve, un po’ di gel igienizzante, un po’ di distanziamento: nelle scuole tutto dovrebbe funzionare più o meno come prima e si dovrebbe evitare una seconda ondata di contagi. Questa è la speranza.

Il preside

Wolfgang Gerhardt è nell’atrio della sua scuola, indossa una mascherina di stoffa e saluta ogni alunno che gli passa vicino. Accanto a lui un nastro bianco e rosso delimita le aree vietate, come sul luogo di un incidente. “Vale per i posti in cui ci si può sedere”, spiega, “come per tutti gli spazi al chiuso in cui ci si può riunire in gruppi numerosi”. Alla porta d’ingresso c’è un erogatore di gel disinfettante. Ce ne sono in tutti i bagni, e tra una settimana ne saranno aggiunti altri nei corridoi.

Gerhardt dirige l’Albert Einstein da sette anni. Ha 58 anni, è vedovo con quattro figli. Ama i Pink Floyd e i Beatles. È nato a Berlino, ha studiato chitarra, musica e storia con indirizzo per la didattica. Ha insegnato in una scuola di Genova, è stato dirigente scolastico ad Amburgo e a Bilbao. Poi ha voluto fare una nuova esperienza, forse alla ricerca di sfide più grandi, e nel 2013 è arrivato a Neukölln.

Bangkok, Thailandia, 10 agosto 2020 (Lauren DeCicca, Getty Images)

La Zeit ha chiesto a molte scuole il permesso di visitarle nella prima settimana di riapertura dopo il lockdown. Eccetto Gerhardt, tutti i dirigenti contattati hanno rifiutato o non hanno risposto. È un momento “delicato e non opportuno” per un articolo, hanno detto, “ci aspettano giorni duri, in salita”. Nell’ultima ispezione scolastica il liceo di Gerhardt ha ottenuto una buona valutazione. Gli ispettori si sono complimentati per “l’atmosfera accogliente e rispettosa”. Forse per questo Gerhardt ci ha lasciati entrare, dice di non avere niente da nascondere.

Ogni scuola berlinese ha dovuto integrare il piano generale di igiene con un proprio piano. All’Einstein, per esempio, la durata delle lezioni è passata da 45 a 30 minuti, così gli alunni trascorrono meno tempo in classe e le aule si possono arieggiare più spesso. Camminando per il corridoio, Gerhardt indica una porta su cui è scritto: “Solo entrata”. È il problema dei sensi unici, ci spiega. Dopo la chiusura del 17 marzo, Gerhardt ha fatto portare via dalle aule la metà dei banchi, per favorire la didattica in piccoli gruppi. Insieme ai docenti ha elaborato un sistema di indicazioni che permette di muoversi nella scuola seguendo un unico senso di marcia. È un sistema usato anche in molti negozi ed edifici pubblici. L’obiettivo è evitare ingorghi nei punti di snodo, che rischiano di favorire la trasmissione del virus. “Ma nella nostra scuola non funziona”, dice Ger­hardt. “Non quando ci siamo tutti”. Troppi spazi, corridoi troppo lunghi. Nei primi due giorni di scuola, con questo sistema, le classi sono arrivate addirittura a scontrarsi. “Quindi lasciamo stare i sensi unici”, dice Gerhardt. Il bidello rimuoverà i cartelli “Solo entrata” e “Solo uscita”.

Il preside racconta come ha vissuto gli ultimi mesi. Se qualcosa gli sta particolarmente a cuore, si ferma e punta le mani sui fianchi. Lo fa anche ora, quando ammette che durante la chiusura molti alunni sono rimasti indietro, soprattutto i più deboli. In quest’istituto ci sono ragazzi che vivono in sei in un bilocale, con un unico computer per tutta la famiglia. È rischioso, spiega Gerhardt. E non parla dei voti. Molti studi documentano che la chiusura delle scuole non ha fatto bene a bambini e ragazzi. La clinica universitaria di Lipsia ha intervistato più di novecento bambini e bambine, e soprattutto quelli provenienti da famiglie socialmente svantaggiate hanno dichiarato di soffrire l’isolamento. In alcune zone della Germania sono aumentati i casi di violenza domestica: a Berlino si parla del 30 per cento in più. Una ricerca della clinica universitaria di Amburgo-Eppendorf ha osservato una crescita di problemi come l’iperattività e i disturbi comportamentali. Per i più giovani, a quanto pare, i pericoli rappresentati dal virus non stanno nella gola.

Fécamp, Francia, 25 maggio 2020 (Jean Gaumy, Magnum/Contrasto)

L’insegnante

Alla quinta ora la 8b ha storia. Tema del giorno: l’inizio di una nuova era. È una classe di 32 alunni, che siedono gomito a gomito in banchi da due. Le tende spesse davanti alle finestre aperte tengono fuori il sole, ma anche l’ossigeno: l’odore è quello che si può immaginare sprigioni una trentina di tredici-quattordicenni che sta da quattro ore a scuola. “Nell’epoca moderna sono successe molte cose”, dice Özer Pekel, l’insegnante. “Forse capita anche a voi a casa: quando mettete in dubbio le regole stabilite dai vostri genitori, parte una discussione. A volte si litiga proprio”. È più o meno quello che è successo intorno al quattrocento, spiega Pekel, un’epoca in cui molte cose sono state messe in discussione. Un po’ come oggi.

Quest’anno Pekel vuole arrivare all’imperatore Guglielmo I. L’anno scorso ha affrontato il medioevo, la società contadina, la nobiltà, le corporazioni. A causa del covid-19 Pekel ha dovuto tagliare un po’ il programma. I roghi delle streghe, per esempio, li ha saltati. “In epoca moderna si sono recuperate idee dell’antichità che erano state dimenticate. Per esempio i modelli astronomici”, dice Pekel. Un alunno alza la mano. “Sì, Altan?”. E Altan: “All’epoca bruciavano anche le streghe”. “Esatto”, dice Pekel, “ci torneremo brevemente”.

Pekel insegna storia, filosofia, politica ed etica. Ha 46 anni, porta gli occhiali e una camicia attillata. È nato a Berlino ed è stato uno dei coordinatori del “Club di dibattito” della scuola. Dice frasi del tipo: “Lo scorso anno siamo stati campioni di dibattito qui a Berlino. Abbiamo battuto tutte le scuole di Zehlendorf, quelle dei figli di papà, con i genitori che vogliono vedersi al primo posto nelle statistiche sull’istruzione”. Pekel è il tipo d’insegnante che ognuno di noi avrebbe voluto avere.

Dice anche che la prima settimana di chiusura della scuola, dopo il 17 marzo, è stata “fantastica: tanto Netflix”. Anche la seconda settimana è andata bene, ma dalla terza era nervoso. Non succedeva niente, tutti erano in attesa. Allora Pekel ha organizzato delle catene di telefonate, si è procurato gli indirizzi email delle famiglie e degli alunni. Poi è passato alle videochiamate. All’inizio di aprile ha tenuto la sua prima lezione online. “Avevo davanti 32 caselle nere, tutti tenevano la videocamera spenta”, racconta Pekel. “Non sapevo se qualcuno mi stesse effettivamente ascoltando”. Una didattica senza aule? “Nessuno vuole che si torni a questo”, dice. Di alcuni alunni non ha avuto notizie per un pezzo. “L’idea di base di certi ragazzi è che la scuola fa schifo. A marzo qualcuno di loro ha pensato: fantastico, delle mega vacanze estive”.

Nel periodo della didattica a distanza a Berlino i voti degli alunni non sono potuti peggiorare di molto: il senato del land aveva deciso che bastava che i ragazzi intervenissero ogni tanto. Soprattutto gli studenti più deboli, dice Pekel, hanno riportato delle lacune che sarà difficile colmare. “Se sono solo i roghi delle streghe, passi. Ma in matematica? È complicato”.

Pekel distribuisce dei fogli con un compito: “Spiega il significato dei termini rinascimento, umanesimo, eliocentrismo e rivoluzione”. È un lavoro di gruppo. Gli alunni si avvicinano tra loro. “Chi vuole può indossare la mascherina”, dice Pekel. Ma nessuno lo fa, se non è obbligatorio. Trentadue ragazzi e ragazze chinano le teste sui fogli.

Berlino, Germania, 13 agosto 2020 (Lena Mucha, The New Yo​rk Times/Contrasto)

Il bidello

Un’ora dopo, intorno alle 11.25, quando gli alunni cambiano aula per la sesta ora, Thorsten Schmee spegne la sua sigaretta e dice: “Andiamo, forza”. Schmee prende il suo secchio, un flacone di spray disinfettante e due pezze, una blu e una verde. “La verde è per i sanitari, la blu per tutto il resto”, dice. Entra in ascensore, spruzza lo spray su entrambe le pezze e con quella blu preme il pulsante del secondo piano: se tocca tutto con la pezza risparmia secondi preziosi. Schmee è addetto alle pulizie dell’Albert Einstein. Il suo compito è sanificare secondo il piano d’igiene. Forse in questo momento il suo è il lavoro più importante di tutta la scuola. Il problema è che non ha tempo per farlo bene.
Schmee deve disinfettare tutto quello che gli studenti potrebbero toccare. Dalle 8 alle 13 fa cinque volte il giro della scuola, lava gabinetti e lavandini, passa la pezza su corrimano e ringhiere, pulisce le maniglie. Per ogni giro ha 35 minuti, il tempo in cui gli alunni sono nelle loro aule. Schmee apre con una spinta la porta del bagno dei maschi, sotto l’orinatoio ci sono pozze di urina. “Certi si comportano come maiali”, dice Schmee. “Ora tocca prendere uno straccio e pulire”. Una volta finito, gli restano solo quindici minuti per un intero piano e per tutte le aule.

Schmee, 53 anni, ha i baffi e parla in dialetto berlinese. Ha studiato da attrezzista meccanico, ma da dieci anni lavora per l’impresa di pulizie che serve la scuola. Si sveglia alle 3 del mattino per fare le pulizie in un complesso di uffici, poi dalle 8 alle 13 fa il turno a scuola. Prende 10,80 euro all’ora, più un supplemento come caposquadra. Certo potrebbe guadagnare meglio, “ma queste sono le tariffe”.

Ogni giorno Schmee disinfetta centinaia di possibili fonti d’infezione. Dice che il suo corpo è talmente impregnato di disinfettante che qualunque cosa tocchi uccide subito i batteri. Secondo lui i giovani non prendono sul serio il virus. Basta dare un’occhiata in metro, per strada. A scuola non rispettano l’obbligo di tenere la mascherina e quando glielo fa notare, loro rispondono: “Oh, mi ero dimenticato, scusa”. “E poi la notte vanno a fare festa nei parchi”. Schmee dice che l’evoluzione della pandemia dipende dal comportamento delle persone. E lui la vede nera. Ancora qualche minuto e i ragazzi e le ragazze escono di nuovo per l’intervallo di cinque minuti. Schmee si dirige verso il cortile e dice: “Ci fumiamo una sigaretta, e poi si riparte”.

Weaverville, Stati Uniti, 17 agosto 2020 (Kent Nishimura, Los Angeles Times/Getty Images)

Le studenti

Probabilmente il problema più grande, dice Emily Hampe, è la mentalità. Molti suoi compagni sono tornati dalle vacanze in Italia, Croazia o Spagna. Adesso stanno nel cortile insieme agli altri ed Emily dubita che abbiano fatto il tampone. In quest’estate di pandemia si è festeggiato parecchio. Non nei locali, che erano chiusi, ma nei parchi e nei boschi, con rave e musica techno fino al mattino. “Molti ragazzi della nostra età si comportano come se il virus non esistesse”, dice.

Emily Hampe ha 16 anni e il prossimo anno avrà l’esame. Le sue materie preferite sono tedesco e politica, ha un’ottima media e l’anno scorso ha partecipato alle manifestazioni dei Fridays for future. Per l’intervista con la Zeit ha portato con sé una compagna di classe, Lea Vamos. Finita la scuola, entrambe vogliono vedere il mondo: Vamos vuole fare un anno di volontariato all’estero in un’associazione che si occupa di salvare i cani. Hampe vuole studiare psicologia.

Temono che i loro piani non possano realizzarsi. Hanno la sensazione che il covid-19 stia mettendo a rischio il loro futuro. Secondo loro, il preside e i professori si danno parecchio da fare. Anche se, quando loro non guardano, molti alunni infrangono le regole. “Nessuno può farci niente, né la politica, né gli insegnanti, non è una cosa che si può controllare”, dice Vamos.

Il padre

Dei tre figli di Axel Liebscher, 53 anni, due frequentano l’Albert Einstein e durante il lockdown sono rimasti a casa. Liebscher crede che sia giusto riaprire le scuole, dopo una chiusura che è stata “sicuramente necessaria”. Lavora all’Ufficio federale per la sicurezza nella gestione dei rifiuti nucleari. I suoi figli hanno ognuno il proprio computer portatile. Il loro appartamento nel quartiere di Tiergarten non è troppo piccolo, ma comunque gli ultimi mesi non sono stati facili. “Sono mancate le strutture”. Liebscher è rappresentante dei genitori, ha parlato con molti di loro. “È un bene che tutto riprenda il suo corso normale”, dice. C’è solo da sperare che le cose restino così.

In Italia
Sintomi e tracciamento

◆ In Italia il 1 settembre sono ripresi i corsi di recupero, mentre l’inizio delle lezioni in aula è fissato per il 14 settembre. Il decreto rilancio ha stanziato 1,6 miliardi di euro, disponibili per lavori di edilizia, acquisto di banchi monoposto, strumenti tecnologici, sostegno alle scuole paritarie, assunzione e formazione del personale.

Crescono, però, le polemiche per le modalità e i protocolli da seguire. Tra le principali regole da rispettare c’è l’obbligo della mascherina in alcune situazioni, il distanziamento di almeno un metro tra gli studenti, percorsi diversi all’interno degli edifici, uscite e ingressi organizzati in modo da evitare assembramenti, sanificazione e aerazione degli ambienti.

I bambini e le bambine fino ai sei anni possono non indossare la mascherina. Le famiglie devono comunicare subito se i componenti del nucleo familiare hanno avuto contatti con persone positive al covid-19 e devono tenere i figli a casa in caso di temperatura oltre i 37,5 gradi o di altri sintomi influenzali. Se studenti o personale scolastico presentano i sintomi a scuola, sono separati dagli altri e fatti rientrare il prima possibile a casa. In caso di contagio, si tracciano i loro contatti.

Ogni scuola deve inoltre essere pronta a predisporre il piano per la didattica digitale integrata (Ddi) e attivarlo se i contagi nell’istituto dovessero aumentare in modo da non poterne più controllare la diffusione e garantire le lezioni in presenza. Internazionale


Il piano b

Sono bastati tre giorni perché una scuola a Berlino chiudesse di nuovo. Un insegnante del quartiere di Treptow-Köpe­nick sospettava di essere positivo. Il risultato del tampone è stato negativo e la scuola ha riaperto, ma questo caso dimostra quanto sia delicata la situazione: se anche una sola persona tra centinaia di alunni e docenti manifesta sintomi, le cose si complicano. Per questo c’è un piano b, che a Berlino si chiama Quadro d’azione ed è lungo 56 pagine. Entra in vigore, si legge, se il numero dei contagi “torna a crescere in modo considerevole”. Bisogna leggerlo con molta attenzione per cogliere le sottigliezze del burocratese. Per esempio: “In una prospettiva sistemica si presuppone che nello scenario alternativo sia prevista una ‘didattica dei tre luoghi’ e che in virtù della grande importanza del cosiddetto luogo terzo (…) gli effetti di tale scenario sulle fasi della didattica in presenza e sulle fasi dell’apprendimento da casa siano non solo visibili, ma possano essere opportunamente sfruttati”. Tutto chiaro.

In particolare il piano b stabilisce che, in caso di aumento dei positivi nelle scuole, la didattica possa essere divisa in due momenti, con metà degli alunni che continua in presenza e l’altra che segue da casa, così da ridurre il numero di persone negli edifici scolastici. Ogni settimana i due gruppi dovrebbero alternarsi e i docenti farebbero la stessa lezione due volte, seguendo gli alunni con un tutoraggio online. Questo però solo in casi estremi. Il 25 agosto, più di quaranta scuole a Berlino registravano contagi: secondo il ministero della salute, il distretto e le dirigenze scolastiche, non è ancora un quadro così grave da far scattare il piano b.

Società
L’incertezza delle famiglie

“La riapertura delle scuole sarà accolta con sollievo da molti genitori esausti che, da quando è cominciata la pandemia, devono conciliare il lavoro da casa con la cura e l’istruzione dei figli. Ma per alcune famiglie non sarà un ritorno alla normalità: come dimostra l’esempio della Scozia, dove le scuole hanno riaperto il 17 agosto, ci saranno inevitabilmente delle chiusure (i singoli istituti dove saranno registrati dei contagi) e quindi sarà nuovamente necessario prendersi cura dei bambini a casa”, scrive Sarah Smith, docente di economia all’università di Bristol, su The Conversation.

“Non sappiamo bene neanche cosa ne sarà di quei servizi, come l’anticipo o il doposcuola, su cui molti genitori contano per poter gestire i figli e gli impegni di lavoro. E se i bambini non staranno a scuola o non potranno essere affidati alle cure di altri, l’esperienza del _lockdown _ci ha mostrato che saranno le donne ad assumersi la maggior parte di questo impegno, più degli uomini”.

Già prima della pandemia era stato calcolato che ogni giorno le donne dedicavano in media due ore in più degli uomini alla cura dei figli. Questo divario non si è ridotto nel periodo d’isolamento, durante il quale entrambi i genitori hanno dovuto gestire un carico di impegni maggiore: da un sondaggio realizzato nel Regno Unito a maggio in collaborazione con l’istituto Ipsos Mori è emerso che in media ogni famiglia durante la settimana ha dovuto dedicare l’equivalente di una settimana di lavoro alla cura e all’istruzione dei bambini. Tutto questo, conclude Smith, avrà un effetto profondo sul lavoro delle donne, in tutti i settori, dal commercio alla ricerca scientifica.

Secondo un sondaggio sul lavoro e la famiglia ai tempi del covid-19 realizzato negli Stati Uniti, riporta Forbes, solo l’8 per cento delle donne intervistate ha risposto che il compagno o il marito si era occupato di più dei figli. La stessa ricerca indica che il 73 per cento dei lavoratori con figli ha intenzione di fare scelte professionali importanti, come cambiare impiego, orari di lavoro o licenziarsi. ◆


Sulle riaperture delle scuole si è dibattuto a lungo. A Berlino i rappresentanti regionali dei genitori hanno chiesto di estendere l’obbligo di mascherina, mentre quelli degli studenti hanno addirittura minacciato scioperi chiedendo un piano di igiene più rigido. L’Unione dei lavoratori dell’istruzione e delle scienze, il sindacato degli insegnanti, ha dichiarato che la riapertura delle scuole in tutto il paese rappresentava un grande pericolo. Ma i ministri dell’istruzione dei singoli land si sono pronunciati a favore del ritorno alla normalità, ricevendo il sostegno dell’ordine dei medici. Altri mesi a casa significherebbero una perdita troppo grande per bambini e ragazzi.

Dalla metà di marzo, quando sono state chiuse le scuole in tutto il paese, il governo e le istituzioni avrebbero avuto il tempo di elaborare piani che coniugassero la ripartenza delle lezioni in classe con una reale protezione dal contagio. Per esempio, con lavori di ristrutturazione degli edifici scolastici, con l’acquisizione di nuovi spazi e lo sviluppo di forme di didattica alternative. In sostanza elaborando una strategia che rispondesse effettivamente agli standard igienici richiesti. La strategia invece sembra essere quella del “non succederà niente”. E se qualcosa succederà, non sarà così grave. Magari si sgonfia da sé.

In Israele le scuole avevano riaperto già alla fine di maggio, quando la situazione era analoga a quella dell’estate tedesca: il numero dei contagi era relativamente basso e si faceva lezione con le finestre aperte, mantenendo la distanza e, in alcuni casi, con l’obbligo di indossare la mascherina. Ma solo un mese dopo la riapertura il numero dei contagi nel paese è tornato a crescere rapidamente e oggi la situazione è preoccupante: il ritorno a scuola in Israele ha segnato l’inizio di una seconda ondata che ha colpito il paese molto più duramente della prima. Ora le scuole sono chiuse per l’estate, e il ministero della salute sta valutando se posticipare l’inizio del nuovo anno scola­stico.

Fine della scuola

A mezzogiorno, quando la campanella suona la fine della sesta ora, le porte delle aule si aprono per un’ultima volta e i ragazzi escono. Corrono per i corridoi, dove la gran parte delle finestre non può essere aperta. Una volta in cortile si tolgono le mascherine e formano una lunga fila per uscire dal cancello. L’atmosfera è rilassata, questo giorno di scuola è finito, è estate.

Qualche giorno dopo la nostra settimana alla scuola, l’istituto epidemiologico Robert Koch ha registrato 2.034 nuovi contagi in Germania, il picco più alto dalla fine di aprile. ◆ ct

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Questo articolo è uscito sul numero 1374 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati