A luglio del 2020 Joseph Giaime, un professore di fisica alla Louisiana state university e al California institute of technology (Caltech), mi ha illustrato uno degli esperimenti scientifici più complessi del mondo. Lo ha fatto attraverso Zoom con il suo iPad. Mi ha mostrato una sala di controllo di Ligo, un progetto per il rilevamento delle onde gravitazionali basato sulla collaborazione tra fisici, con sede in Louisiana e nello stato di Washington. Nel 2015 Ligo è stato il primo osservatorio a rilevare direttamente le onde gravitazionali create dalla collisione di due buchi neri a 1,3 miliardi di anni luce di distanza.

Circa trenta monitor di grandi dimensioni mostravano vari aspetti dello stato di Ligo. Il sistema monitora in tempo reale decine di migliaia di canali dati. Gli schermi video mostravano la dispersione della luce e i grafici dei dati segnalavano le vibrazioni degli strumenti dovute all’attività sismica e al movimento umano.  

Ero interessato al progetto, su cui lavorano insieme centinaia di specialisti di diversi campi scientifici per cercare di rispondere a una domanda apparentemente semplice: cosa significa veramente sapere qualcosa? Quanto bene possiamo comprendere il mondo quando gran parte della nostra conoscenza si basa su prove e argomentazioni fornite da altri? 

La domanda non è importante solo per gli scienziati. Diversi altri campi stanno diventando sempre più complessi, e abbiamo accesso a molte più informazioni che in passato. Allo stesso tempo, però, la crescente polarizzazione politica e la disinformazione rendono difficile sapere di chi o di cosa fidarsi. I progressi della medicina, il discorso politico, i metodi manageriali e buona parte della vita quotidiana dipendono dal modo in cui valutiamo la conoscenza e ne facciamo uso.

La capacità dell’individuo di accumulare conoscenza è sovrastimata mentre il ruolo della società nel produrla è sottovalutato. Possiamo sapere che il gasolio danneggia i motori a gas e che le piante producono sostanze organiche con la fotosintesi, ma abbiamo problemi a spiegare cosa sono il diesel e la fotosintesi o, peggio ancora, a dimostrare che la fotosintesi avvenga realmente. La conoscenza, come ho capito durante la ricerca per scrivere quest’articolo, dipende tanto dalla fiducia e dalle relazioni quanto dai manuali e dall’osservazione. 

Trentacinque anni fa il filosofo John Hardwig pubblicò un saggio breve su quella che chiamava “dipendenza epistemica”, vale a dire il fatto che facciamo affidamento sulla conoscenza altrui. Il documento – diffuso in alcuni circoli accademici, ma sconosciuto altrove – ha acquisito rilevanza quando la società e la conoscenza sono diventate più complesse.

Una definizione comune di conoscenza è “credenza vera giustificata” (justified true belief in inglese), cioè fatti che si possono supportare con dati e logica. Come individui, tuttavia, raramente abbiamo il tempo o le capacità per giustificare le nostre convinzioni. Quindi cosa intendiamo davvero quando affermiamo di sapere qualcosa? Hardwig ha posto un dilemma: o gran parte della nostra conoscenza può essere detenuta solo da una struttura collettiva, non da un individuo, oppure gli individui possono “sapere” solo cose che non comprendono veramente (e ha scelto la seconda opzione). 

L’illustrazione di due buchi neri (Science Photo Library/Alamy)

Potrebbe sembrare una questione filosofica astratta. A conti fatti, qualunque cosa significhi “conoscenza”, è chiaro che per arrivarci dobbiamo affidarci ad altre persone. “Se la domanda fondamentale è ‘Chi possiede la conoscenza?’, il problema mi lascia indifferente”, afferma Steven Sloman, scienziato cognitivo alla Brown university e autore con Philip Fernbach del saggio _L’illusione della conoscenza _(Raffaello Cortina 2018). 

“Tuttavia”, prosegue, “se le domande sono ‘Come giustifichiamo l’affermazione di sapere le cose?’ e ‘Di chi dovremmo fidarci?’”, allora la questione è dirimente. La ritrattazione, lo scorso giugno, di due articoli sul covid-19 apparsi sulle riviste The Lancet e New England Journal of Medicine, dopo che i ricercatori avevano riposto un’eccessiva fiducia in un collaboratore disonesto, è un esempio di ciò che accade quando la dipendenza epistemica è gestita male. E l’aumento della disinformazione su questioni come i vaccini, il cambiamento climatico e il covid-19 è un attacco diretto alla dipendenza epistemica, senza la quale né la scienza né la società nel suo insieme possono funzionare.

Il caso Ligo

Per comprendere meglio la dipendenza epistemica, ho esaminato la storia di Ligo. Volevo capire come i fisici che lavorano al progetto “sanno” che quei due buchi neri si sono scontrati a diverse galassie di distanza, e cosa significa per quello che ognuno di noi pensa di sapere.  Come racconta Giaime, Ligo è collegato agli studi di Albert Einstein. Un secolo fa, lo scienziato teorizzò che la gravità fosse una deformazione del continuum spaziotemporale e sostenne che le masse in movimento emettono onde alla velocità della luce. Ma per decenni le speranze di rilevare quelle onde sono state minime, perché le onde stesse sono troppo piccole per essere misurate. Ligo usa l’interferometria laser, basata su un progetto pubblicato nel 1972 da Rainer Weiss, fisico del Massachusetts institute of technology (Mit). Un interferometro, visto dall’alto, somiglia a una grande L. Un laser iniettato al gomito della L è diviso in due, si riflette su uno specchio all’estremità di ciascun braccio e si ricombina in modo tale che i picchi e le valli delle onde luminose si annullino a vicenda. 

Weiss sapeva che il passaggio di un’onda gravitazionale avrebbe dilatato lo spazio nella direzione di un braccio, contraendolo nella direzione dell’altro. Di conseguenza le distanze percorse dai raggi laser subiscono un cambiamento e le onde non si annullano a vicenda. Il rilevatore di luce vedrebbe quindi un chiaro schema d’onda. Dopo decenni e più di un miliardo di dollari spesi, questo è quello che Ligo (cioè laser interferometer gravitational-wave observatory) ha rilevato ufficialmente una decina di volte dal 2015. 

La sensibilità dello strumento è difficile da capire. Ogni braccio è lungo quattro chilometri. Su questa distanza, Ligo è in grado di rilevare cambiamenti anche di un decimillesimo del diametro di un protone. “Più si conoscono la fisica e l’ingegneria”, mi ha detto Giaime, “più la cosa sembra folle”. Le differenze sono più piccole del movimento casuale, quindi si usano diversi trucchi per ridurre il rumore. 

La luce viaggia lungo il tunnel attraverso il vuoto. Il laser è potente, quindi il raggio contiene molti fotoni, che riescono ad annullare qualsiasi rumore. Gli specchi pendono da fili di vetro per smorzare passivamente le vibrazioni. E ogni sospensione dello specchio è montata su un impianto che attenua attivamente le vibrazioni utilizzando il feedback dei sismometri e dei sensori di movimento, usati come strane cuffie che assorbono il rumore. Il sistema tiene conto anche dell’interferenza misurata dai campi magnetici, dalle condizioni meteorologiche, dalla rete elettrica e perfino dai raggi cosmici.

Tuttavia, mentre con un solo rilevatore si può essere abbastanza sicuri che un segnale provenga dallo spazio, se due rilevatori ricevono lo stesso segnale quasi contemporaneamente la sicurezza aumenta in modo esponenziale. È possibile anche cominciare a localizzare la fonte nel cielo. Ecco perché ci sono due stazioni Ligo, una in Louisiana e l’altra a Washington, e anche altri osservatori di onde gravitazionali: Virgo in Italia e Geo600 in Germania. Un altro è in fase di costruzione in Giappone.  

Come è facilmente intuibile, Ligo richiede un’ampia squadra di specialisti di vari settori. Nella scienza, come nell’industria, la divisione del lavoro è diventata sempre più sofisticata. Un libro del 1786 sulla fisica sperimentale copriva astronomia, geologia, zoologia, medicina e botanica. Allora era possibile padroneggiare tutte queste discipline. Oggi ogni campo di studio ha creato diversi sottocampi. La competenza enciclopedica è diventata insostenibile.  

Per raggiungere un risultato al di fuori di un campo ristretto, gli scienziati devono condividere le loro competenze. Le collaborazioni sono diventate più comuni anche perché le nuove tecnologie, come internet, hanno reso più facile comunicare. Il numero medio di autori di un articolo scientifico è passato dai 3,2 del 1990 ai 5,6 del 2010. Un documento scritto nel 2015 sulla massa del bosone di Higgs vantava più di cinquemila autori. Anche gli autori solitari non lavorano in totale autonomia. Spesso, secondo Sloman, citano lavori altrui che non hanno nemmeno letto, “confidando nel fatto che gli abstract siano riassunti fedeli di ciò che c’è negli studi”.

 Il documento che annuncia il primo rilevamento di onde gravitazionali del progetto Ligo, pubblicato nel 2016, ha avuto più di mille autori. Tutti hanno compreso appieno ogni aspetto di quello che hanno scritto? “Per la maggior parte di loro penso proprio di sì”, dice David Reitze, fisico del Caltech e direttore esecutivo di Ligo. Ma la questione è un’altra: come facciamo a sapere se questo rilevatore complesso, con centinaia di migliaia di componenti elettronici e canali dati, si sta comportando correttamente e sta effettivamente misurando ciò che si pensa stia misurando? Centinaia di persone sono impegnate a cercare di rispondere a questa domanda, afferma Reitze.

Ho chiesto a Reitze se avrebbe avuto problemi a spiegare alcuni aspetti del documento del 2016. “Ci sono certamente parti di quel lavoro delle quali non ho conoscenza dettagliata”, per esempio i calcoli della squadra che confronta i dati a sua disposizione con le previsioni teoriche e definisce accuratamente le masse e le velocità dei buchi neri.  

Giaime, responsabile delle attività di Ligo in Louisiana, ipotizza che meno della metà degli autori del documento abbia messo piede in uno dei siti dell’osservatorio. Il loro ruolo non lo richiedeva. Per giustificare i risultati dell’osservatorio, ha spiegato, una persona dovrebbe comprendere aspetti di fisica, astronomia, elettronica e ingegneria meccanica. “Ma esiste davvero qualcuno che sappia tutte queste cose?”. 

La comprensione contagiosa

Un episodio in particolare sottolinea l’interdipendenza degli scienziati di Ligo. Nei primi otto anni di attività l’osservatorio non ha rilevato onde gravitazionali, e dal 2010 al 2015 è stato chiuso per aggiornamenti. Solo due giorni dopo essere stato riavviato, ha ricevuto un segnale “così chiaro che doveva essere per forza un dono del cielo o qualcosa di sospetto”, racconta Peter Saulson, fisico della Syracuse university, che ha guidato la Ligo scientific collaboration, il gruppo internazionale di scienziati che dal 2003 al 2007 hanno usato Ligo e Geo600 per la ricerca.

È possibile che qualcuno avesse inviato un segnale falso? Dopo un’indagine, si è concluso che nessuno conosceva l’intero sistema abbastanza bene da capirlo. A quel punto tutti hanno concordato che il segnale doveva essere reale: due buchi neri in collisione. 

Spesso sopravvalutiamo la nostra capacità di spiegare le cose, un fenomeno chiamato illusione della profondità esplicativa. In una serie di studi, le persone hanno valutato la loro comprensione di oggetti e fenomeni naturali, come le cerniere lampo e gli arcobaleni, e poi hanno cercato di spiegarli. Le valutazioni sono state riviste al ribasso una volta che i partecipanti si sono resi conto della propria ignoranza (per una semplice dimostrazione di questa dinamica basta chiedere a qualcuno di disegnare una bicicletta: spesso il risultato non somiglia affatto alla realtà).  Ho chiesto a Reitze se lui stesso fosse stato vittima dell’illusione della conoscenza. “È risaputo che Ligo si basa su migliaia di sensori e centinaia di circuiti di feedback interagenti che tengono conto del rumore ambientale. Pensavo di capirli abbastanza bene, finché non mi sono trovato a doverli spiegare durante una riunione. In effetti, ho avuto qualche difficoltà”, ha risposto.

L’illusione può essere alimentata da quella che Sloman, scienziato cognitivo, chiama “comprensione contagiosa”. In alcuni studi che ha condotto, i volontari hanno prima dovuto leggere un articolo su un fenomeno naturale inventato, come le rocce incandescenti. Poi a una parte di loro è stato detto che il fenomeno era ben compreso dagli esperti, ad altri che era misterioso e ad altri ancora che era stato capito, ma non reso noto. Quindi a tutti è stato chiesto di valutare il proprio livello di comprensione. Quelli del primo gruppo si sono attribuiti i voti più alti, come se il fatto che il fenomeno era stato capito lo rendesse più comprensibile anche per loro.  

Considerare la conoscenza degli altri come se fosse la propria non è così sciocco come sembra. Nel 1987 lo psicologo Daniel Wegner si occupò di un aspetto della cognizione collettiva che chiamava memoria transattiva. In pratica significa che tutti sappiamo delle cose e sappiamo anche che tipo di conoscenze hanno gli altri. In uno studio, delle coppie di soggetti avevano il compito di ricordare una serie d’informazioni, come “il Kaypro II è un personal computer”. Si è scoperto che le persone trattenevano più informazioni su un argomento quando pensavano che il loro partner non fosse un esperto in materia. Senza dirlo esplicitamente, si dividevano i compiti, agendo ciascuno come la memoria esterna dell’altro.

Le modalità della collaborazione scientifica sono cambiate, come stanno cambiando i premi scientifici

Altri ricercatori che studiano la memoria transattiva hanno chiesto a gruppi di tre persone di assemblare una radio. Alcuni si sono organizzati come una squadra, mentre altri si sono mossi individualmente. Quelli che hanno agito come un gruppo hanno dimostrato una migliore memoria transattiva, inclusi maggior specializzazione, coordinamento e fiducia. E hanno commesso meno della metà degli errori durante l’assemblaggio. Si sono organizzati come gruppo, il normale modo di operare degli esseri umani, e la dipendenza epistemica ha determinato il loro successo. Dalla capacità di vedere la propria conoscenza come dipendente da quella degli altri derivano varie lezioni. Forse la più semplice è rendersi conto che, su qualsiasi argomento, quasi certamente capiamo meno di quanto pensiamo di capire. Quindi è giusto fare più domande, anche se sembrano stupide.

Riconoscere la nostra dipendenza epistemica potrebbe perfino rendere il dibattito pubblico più produttivo. In un articolo del 2013, Sloman ha studiato il ruolo che l’illusione della profondità esplicativa gioca nella polarizzazione politica. Ad alcuni cittadini statunitensi è stato chiesto di valutare la loro comprensione e il loro sostegno alle politiche relative all’assistenza sanitaria, alla tassazione e ad altre questioni urgenti. Poi di spiegare queste politiche. Più l’esercizio riduceva la loro convinzione di capire, meno estrema diventava la loro posizione. Non si può avere una posizione ferma su un terreno instabile. Nessuno capisce l’Obamacare, ha detto Sloman, nemmeno Obama: “È troppo lungo. È troppo complicato. Lo riassumono con un paio di slogan che spiegano solo una minima parte”.

Sulle spalle degli altri

Un’altra lezione viene dallo studio originale di Hardwig sulla dipendenza epistemica. L’idea, apparentemente ovvia, secondo cui la razionalità presuppone il ragionare da soli con la propria testa è figlia di “un ideale romantico completamente irrealistico”. Secondo il filosofo, se avessimo seguito quest’ideale avremmo solo convinzioni relativamente rozze e disinformate, frutto del nostro lavoro solitario. Invece di pensare da soli, suggerisce, sarebbe meglio fidarsi degli esperti, anche più di quanto già si fa.

Ho chiesto a Sloman se fosse d’accordo. “Sì!”, ha risposto. “Florida. Devo aggiungere altro?”(al momento della nostra conversazione in Florida i casi di covid-19 stavano crescendo a dismisura perché le persone trascuravano i consigli degli esperti sulle misure protettive). In realtà la razionalità richiede un equilibrio tra ricevere consigli e pensare in autonomia. 

Per testare la veridicità di un fatto, è necessario controllare cosa ne pensano gli esperti in materia. Gabriela González, una scienziata della Louisiana, ex responsabile della Ligo scientific collaboration, ha affermato che, da malata di diabete, non proverebbe mai a “ottenere i dati di una sperimentazione clinica e ad analizzarli da sola”.  Piuttosto s’informa sulle opinioni più diffuse tra i medici leggendo le notizie sulle potenziali terapie.  

Si può anche chiedere a un esperto indipendente di esaminare le affermazioni di un altro esperto. Nella scienza questo è il processo di peer review, revisione tra pari.  All’interno di Ligo, i comitati esaminano ogni fase di un esperimento. Possono chiedere a esperti indipendenti di scavare nel codice che altri hanno scritto o semplicemente fare domande specifiche. I ricercatori che analizzano i dati combinati usano più algoritmi in parallelo, ciascuno scritto da persone diverse. Ed eseguono, inoltre, frequenti test dell’hardware e del software.

Da sapere
Collaborazioni scientifiche
Distribuzione delle collaborazioni internazionali dell’Italia, per paese, dicembre 2019-novembre 2020, percentual (fonte: Nature Index)

Il peso della fiducia

Un altro sistema, che usiamo istintivamente nella vita di tutti i giorni, è vedere come le persone rispondono alle domande sulla loro esperienza. In un saggio del 2001 intitolato Experts: which ones should you trust? (Esperti: di quali dovresti fidarti?), Alvin Goldman, un filosofo della Rutgers university, ha suggerito di usare la cosiddetta superiorità dialettica. Nell’articolo si sostiene che in un dibattito tra due esperti, il soggetto che mostra “rapidità e fluidità comparative” ed è in grado di confutare le dichiarazioni dell’altro potrebbe essere considerato quello che ha una conoscenza approfondita della questione. Tuttavia, non è detto che sia così. Avere tutte le risposte a volte è un brutto segno. Sloman è dell’idea che bisognerebbe chiedersi se queste persone sono abbastanza umili e in grado di ammettere di non sapere determinate cose.

L’articolo di Goldman propone altri quattro indizi per valutare l’affidabilità di un esperto: l’approvazione di altri esperti; le credenziali o la reputazione; la prova di possibili pregiudizi o conflitti d’interessi;  la comprovata esperienza.  Anche se sembrano valutazioni ad hominem piuttosto che basate su prove, dice Sloman, la cosa non è necessariamente negativa: “Mi sembra molto più facile valutare la credibilità di qualcuno che rendersi conto di tutta la conoscenza che quell’individuo possiede. Sono ordini di grandezza più abbordabili”. 

A conti fatti, contano sia le prove sia la fiducia. Harry Collins, un sociologo dell’università di Cardiff che segue da anni la comunità di ricercatori esperti di onde gravitazionali, sottolinea come le interazioni faccia a faccia modellino ciò che crediamo sia vero. A questo proposito, ricorda il caso di uno scienziato russo che aveva visitato Glasgow per lavorare con un gruppo di ricercatori che non riusciva a riprodurre i suoi risultati. Anche se durante la visita gli esperimenti non sono riusciti, gli scienziati scozzesi non hanno più dubitato di lui, a causa del suo comportamento in laboratorio. “Non usciva mai a pranzo”, ha scritto Collins. “Preferiva mangiare un panino in laboratorio”. I colleghi hanno pensato che uno scienziato così dedito al lavoro non avrebbe mai truccato un esperimento, quindi hanno continuato a provare e alla fine hanno ottenuto i risultati desiderati. 

La dipendenza epistemica evidenzia anche l’importanza della condivisione del lavoro in corso. Prima degli interferometri, quando i fisici costruivano rilevatori di onde gravitazionali usando barre di alluminio vibranti, proteggevano i loro dati grezzi e condividevano solo elenchi dei rilevamenti che pensavano di aver fatto. Poi hanno cominciato a fidarsi l’uno dell’altro e a collaborare più strettamente. 

Capire e spiegare

Se i fisici di Ligo e altri rilevatori si fossero attenuti ai vecchi metodi, dice Giaime, “avremmo rischiato di mandare all’aria la scoperta del secolo”: una collisione tra stelle di neutroni nel 2017 che, a differenza della collisione dei buchi neri del 2015, è stata studiata anche mediante radiotelescopi, raggi gamma, raggi X e luce visibile. Questo è stato possibile solo perché Ligo e Virgo hanno condiviso i dati, consentendo di individuare rapidamente dove si sarebbe verificata la collisione. Senza questa cooperazione, ha spiegato Giaime, “non avremmo conosciuto la posizione della coppia di stelle di neutroni abbastanza accuratamente da puntare in tempo i telescopi nella direzione giusta”.

 Naturalmente, anche la dipendenza epistemica ha i suoi svantaggi. Per esempio i costi del turnover nelle organizzazioni. Se una persona che è parte fondamentale del progetto se ne va, si perdono pezzi di conoscenza e capacità collettive che non si possono ricostruire in autonomia. Le modalità della collaborazione scientifica sono cambiate, come stanno cambiando i premi scientifici. “Il premio Nobel è un anacronismo di un’età passata, quando gli studi venivano fatti da un singolo individuo o da un piccolo numero di persone”, spiega Weiss, che nel 2017 ha ricevuto il Nobel per la fisica insieme a Kip Thorne e Barry Barish per un lavoro sulle onde gravitazionali . “Mi sono sentito a disagio nel riceverlo e sono stato in grado di giustificarlo solo dicendo che rappresentavo anche gli altri”.  

Alla fine della visita dell’ufficio di Giaime ci siamo fermati davanti a una targa appesa al muro. Nel 2016 il Premio speciale per l’innovazione in fisica fondamentale è stato assegnato alla Ligo scientific collaboration. Un milione di dollari è andato a Weiss, Thorne e a un altro fondatore, Ronald Drever, e due milioni sono stati divisi equamente tra mille altre persone. “Per la scienza è una nuova era”, ha detto Giaime. “Oggi i grandi gruppi di studiosi possono ottenere premi insieme”.

I premi, dunque, si stanno adeguando al modo in cui la scienza opera. I ricercatori hanno sempre avuto rapporti di dipendenza l’uno dall’altro, ma negli ultimi anni la specializzazione e la collaborazione sono diventate più profonde, integrando reti globali di esperti. Il progetto Ligo coinvolge centinaia di persone, molte delle quali non si sono mai incontrate. Usano strumenti e conoscenze fornite da migliaia di altri individui, che a loro volta fanno affidamento sugli strumenti e sulla conoscenza di milioni di altre persone. Una simile organizzazione non nasce per caso: richiede avanzati sistemi tecnici e sociali, in grado di lavorare a stretto contatto. La fiducia porta a nuove scoperte, e queste a loro volta alimentano la fiducia. Lo stesso vale per la società in generale. Se mettiamo in discussione questo circolo virtuoso di fiducia e scoperte, la nostra capacità di conoscenza viene meno. 

Forse c’è anche una lezione più ampia, perfino filosofica, che possiamo trarre: le persone sanno molto meno di quanto pensano di sapere, e allo stesso tempo molto di più. La conoscenza non può essere spezzettata tra le persone. Forse non siamo in grado di spiegare la fotosintesi, ma siamo parte integrante di un ecosistema epistemico che può non solo spiegarla, ma anche usarla a beneficio di tutti. ◆ _rp _

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Questo articolo è uscito sul numero 1406 di Internazionale, a pagina 64. Compra questo numero | Abbonati