Francesca Albanese non riesce nemmeno a pagarsi un caffè nella città in cui è nata. Ogni volta che entra in un bar, qualcuno si affretta a saldare il conto per lei. Trent’anni fa, alla fine del liceo, non vedeva l’ora di andarsene. Oggi gli automobilisti si fermano per stringerle la mano. Su un cavalcavia, uno striscione dice: “Grazie, Francesca!”.
Albanese è diventata un’eroina locale dopo che la Casa Bianca l’ha definita una nemica, a causa del lavoro che ha svolto negli ultimi tre anni come relatrice speciale delle Nazioni Unite per i Territori palestinesi occupati. In questo ruolo ha promosso strategie tanto ambiziose sul piano legale quanto rischiose su quello politico. Ha documentato violazioni dei diritti umani, come i suoi predecessori. Ha fatto infuriare alcuni suoi alleati, condannando le violenze di Hamas del 7 ottobre 2023, e ha poi scatenato una bufera intervenendo sui social media per contestare una dichiarazione del presidente francese che definiva gli attacchi “antisemiti”. Ma la cosa forse più esplosiva è stata denunciare le aziende, tra cui alcune delle più grandi degli Stati Uniti, che consentono e traggono vantaggio dagli abusi dei diritti umani in Palestina e probabilmente continueranno a farlo a prescindere dal cessate il fuoco.
A luglio il segretario di stato statunitense Marco Rubio ha annunciato che le sono state imposte delle sanzioni: Albanese è stata inclusa nella lista degli specially designated nationals, uno status di solito riservato a trafficanti d’armi e di droga, terroristi e oligarchi che li finanziano. Chi compare nell’elenco non può viaggiare negli Stati Uniti, perde l’accesso a qualunque bene nel paese, non può trattare con aziende statunitensi né usare il dollaro, rendendo di fatto impossibile la maggior parte delle transazioni finanziarie internazionali.
Alti e bassi
Sotto la presidenza Trump le sanzioni sono diventate uno strumento per colpire chi difende i diritti dei palestinesi, comprese tre importanti organizzazioni palestinesi punite per aver “collaborato direttamente con la Corte penale internazionale con l’obiettivo di indagare, arrestare o processare cittadini israeliani”. Gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni al procuratore capo della Corte penale internazionale (Cpi), Karim Khan, oltre che a quattro giudici e viceprocuratori. Già nel suo primo mandato Trump aveva fatto lo stesso con alcuni funzionari della Cpi, all’epoca impegnata a indagare sulle attività statunitensi in Afghanistan. Nel secondo, sembra puntare a smantellare del tutto le istituzioni della giustizia internazionale.
L’idea che alcuni crimini siano così orrendi da richiedere l’intervento della comunità internazionale risale ai processi di Norimberga, dopo la seconda guerra mondiale. In tempi recenti questo progetto vecchio di ottant’anni ha vissuto un susseguirsi di alti e bassi. L’invasione russa dell’Ucraina è stata la prima vera guerra d’aggressione in Europa dalla sconfitta di Hitler. Nel giro di pochi mesi sono emerse prove di atrocità di massa nelle periferie di Kiev, occupate per un mese, e nella città assediata di Mariupol, dove Mosca sembrava usare la fame come arma di guerra. Questo avveniva proprio lì dove, meno di un secolo prima, si erano consumati alcuni dei crimini processati a Norimberga.
Nel 2022 il mondo occidentale era unito nell’indignazione. Sembrava che finalmente ci fossero la volontà politica, le risorse e le prove per sfruttare tutto il potenziale delle istituzioni e delle leggi create nei decenni successivi a Norimberga. Poi, passati appena diciannove mesi dall’invasione russa dell’Ucraina, Hamas ha attaccato Israele e Israele ha risposto con una forza che presto ha cominciato ad apparire estrema, poi eccessiva, poi indiscriminata, poi un possibile crimine di guerra e alla fine il crimine supremo: il genocidio. Ma mentre cresceva il consenso tra attivisti per i diritti umani e studiosi di genocidio, nella politica accadeva il contrario. A differenza dei crimini di guerra del presidente russo Vladimir Putin, quelli del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sono stati compiuti con il sostegno delle principali potenze occidentali.
La coscienza del mondo
Il diritto internazionale è nato come un progetto occidentale – anzi, come sostiene il giurista Lawrence Douglas nel suo prossimo libro, ha contribuito al progetto imperialista dell’occidente. Le sue priorità hanno ricalcato quelle delle potenze occidentali. Alcuni leader occidentali hanno accolto con favore il mandato di arresto emesso dalla Cpi contro Putin nel marzo 2023, ma sono rimasti sconvolti da quello contro Netanyahu spiccato un anno e mezzo dopo (la corte ne ha emesso uno anche per il comandante di Hamas Muhammad Deif, ma Israele l’ha ucciso).
E così, le potenze occidentali, che non avevano mai sostenuto pienamente la loro invenzione, si sono rese disponibili a dare per morta la giustizia internazionale.
La giustizia internazionale contiene una promessa, che per me non è affatto astratta. È qualcosa di personale, e credo lo sia per molti dissidenti nel mondo. Come giornalista d’opposizione in Russia, e poi nell’esilio forzato, coltivo l’idea che un giorno Putin sarà processato per i suoi crimini. Ho deciso di continuare a lavorare finché non potrò raccontare quel processo. La giustizia internazionale è una religione laica dei nostri tempi: chi tra noi non crede in Dio può comunque credere nel giudizio superiore emesso all’Aja.
Va detto che gli Stati Uniti hanno sempre evitato di esporsi rispetto al diritto internazionale umanitario: hanno contribuito a ideare i processi di Norimberga, discusso i casi e presieduto le corti. Giudici statunitensi siedono nella Corte internazionale di giustizia (Cig), organo delle Nazioni Unite. Ma Washington non ha mai sottoscritto il trattato istitutivo della Cpi. Per gran parte degli ultimi 80 anni gli Stati Uniti si sono riservati il ruolo di coscienza del mondo, distribuendo punizioni senza consultarsi con nessuno né rendere conto di niente. La posizione dell’amministrazione Trump però è diversa: non pretende di avere una coscienza e cerca di punire qualunque paese o persona che aspiri ad averne una.
La promessa di Norimberga è che il mondo nel suo insieme manterrà una bussola morale anche quando alcuni paesi perdono la loro. Che i crimini saranno puniti anche se i colpevoli hanno agito secondo le norme e le leggi della loro società, anche se stavano solo eseguendo gli ordini. Ma che ne è di quella promessa quando il paese più potente del mondo non solo ricalibra la sua bussola morale, ma la distrugge?
“Qualcuno dice che il bicchiere è vuoto per nove decimi”, ha osservato Douglas, il cui saggio The criminal state: war, atrocity, and the dream of international justice (Lo stato criminale: guerra, atrocità e il sogno della giustizia internazionale) uscirà in primavera. “Io preferisco dire che è pieno per un decimo”. Francesca Albanese, da parte sua, crede che non stiamo assistendo alla morte della giustizia internazionale, ma a un nuovo inizio.
Il lavoro di relatrice speciale, quello di Albanese, non è retribuito. Molti di questi incarichi sono affidati a uomini vicini alla pensione. Albanese è molto più giovane dei suoi sette predecessori diretti ed è la prima donna a ricoprire il ruolo per i Territori palestinesi. Suo marito, Massimiliano Calì, è un economista della Banca mondiale. Entrambi fanno parte della tribù dei lavoratori del settore umanitario internazionale: tenaci, coraggiosi, sempre in movimento. Negli ultimi anni hanno vissuto in Tunisia (quest’estate erano in Italia, a casa della madre di Albanese, che soffre di Alzheimer). Hanno abitato anche a Washington, dove Albanese ha insegnato alla Georgetown university e dove è nata la loro prima figlia. Per quasi tre anni, a partire dal 2010, hanno vissuto in Cisgiordania. Quello che Albanese ha visto lì l’ha sconvolta, in parte, ammette, perché i coloni israeliani “mi somigliano. Mi dispiace, ho anch’io i miei pregiudizi. Non riuscivo a capire come persone con un’istruzione occidentale potessero essere così crudeli nei confronti di altri esseri umani. Così violente e senza scrupoli”. All’epoca si chiedeva: “Perché i coloni non vengono portati in tribunale? Quindici anni fa nessuno ci pensava”.
Aver vissuto e lavorato in Cisgiordania è un altro aspetto che la distingue da molti dei suoi predecessori. Ha raccontato che erano trascorsi diciassette anni dall’ultima volta in cui Israele aveva autorizzato un relatore speciale a entrare nei Territori occupati. Albanese è stata di gran lunga la relatrice speciale che più si è esposta pubblicamente. Dopo la nomina è approdata sui social media – prima aveva sempre evitato Twitter – nel tentativo di dare visibilità ai risultati dei suoi lavori e alle difficoltà dei palestinesi. Per quanto riguarda le sue attività di ricerca, oltre a documentare quello che succede sotto l’occupazione, ha compiuto un passo ulteriore scrivendo di quello che succede e perché, delle strutture di potere che hanno reso possibili le violazioni dei diritti umani e, in alcuni casi, ne hanno tratto profitto.
Nel giugno 2023 aveva pubblicato un rapporto su quello che ha chiamato “continuum carcerario” a cui sono sottoposti i palestinesi nei Territori occupati: non solo prigionia e detenzione, ma anche restrizioni alla libertà di movimento e sorveglianza digitale. Le limitazioni e il controllo, sosteneva, “potrebbero costituire crimini internazionali perseguibili in base allo statuto di Roma”, il documento fondativo della Cpi. Il rapporto successivo si è concentrato sui diritti dei bambini palestinesi e concludeva che Israele potrebbe essere colpevole di violare la Convenzione sui diritti dell’infanzia e gli obblighi giuridici di una potenza occupante.
Poi sono arrivati gli attacchi di Hamas del 7 ottobre e l’offensiva israeliana su Gaza. Nel marzo 2024 – con più di 30mila palestinesi uccisi, il 70 per cento delle abitazioni distrutte e l’80 per cento della popolazione sfollata con la forza – Albanese ha scritto che “ci sono fondati motivi per ritenere che sia stata raggiunta la soglia che indica che Israele stia commettendo un genocidio”. Il suo rapporto successivo ha offerto altri elementi su quello che ha indicato come l’intento genocidario di Israele.
Tentativo fallito
Oltre al Tribunale militare internazionale di Norimberga, i tribunali militari statunitensi condussero altri dodici processi, tre dei quali riguardavano il ruolo dei grandi industriali nell’alimentare la guerra e nel trarre profitto dal saccheggio e dal lavoro forzato. Tutti gli imputati sostennero, in sostanza, di essersi limitati a gestire un’impresa. Quasi la metà fu assolta; le condanne più severe furono presto commutate. Alla fine del film _Vincitori e vinti _del 1961, un giovane avvocato tedesco, interpretato da Maximilian Schell, informa il saggio giudice statunitense (Spencer Tracy) che il processo ai dirigenti della I.G. Farben, la cui controllata produceva il gas Zyklon B, si è concluso. “La maggior parte è stata assolta”, dice. “Gli altri hanno avuto pene lievi”. Ovvero, il tentativo di chiamare la società tedesca – non solo i generali – a rispondere delle sue responsabilità è naufragato.
Eppure quei processi introdussero una nuova idea di responsabilità. In un processo attualmente in corso in Svezia, i dirigenti di un’azienda petrolifera sono accusati di complicità in crimini di guerra in Sudan. L’azienda di materiali da costruzione Lafarge, che nel 2022 si è dichiarata colpevole di aver fornito sostegno al gruppo Stato islamico, affronta altre accuse in Francia per presunta complicità in crimini contro l’umanità in Siria. Se uno dei due procedimenti si concluderà con pene detentive, sarebbe la prima volta dai tempi di Norimberga che dirigenti del settore industriale sono considerati penalmente responsabili di crimini di guerra da cui hanno tratto profitto.
Nell’autunno 2024 Albanese aveva annunciato che il suo rapporto successivo si sarebbe concentrato sul ruolo delle aziende nel genocidio a Gaza. Erano arrivate molte segnalazioni di avvocati e organizzazioni per i diritti umani. Era più materiale di quanto ne avesse mai avuto a disposizione. Alla fine ha indagato su 48 aziende, molte delle quali statunitensi, tra cui la Alphabet, la Microsoft e Airbnb, ma la lista includeva anche la Volvo, la Hyundai e la Bp. Dice di aver contattato tutte le aziende coinvolte e di aver ricevuto risposta solo da diciotto.
Ha anche avuto una risposta dal governo degli Stati Uniti. Ad aprile la missione statunitense all’Onu ha diffuso una dichiarazione in cui denunciava Albanese come “l’ennesimo esempio del motivo per cui il presidente Trump ha ordinato agli Stati Uniti di interrompere ogni partecipazione” al consiglio per i diritti umani dell’Onu. “Le azioni della signora Albanese dimostrano inoltre che le Nazioni Unite tollerano l’odio antisemita, i pregiudizi contro Israele e la legittimazione del terrorismo”.
A maggio, Leo Terrell, nominato da Trump capo del gruppo di lavoro del dipartimento di giustizia contro l’antisemitismo, ha inviato ad Albanese una lettera ordinandole di interrompere la sua “allarmante campagna di lettere indirizzate a istituzioni che sostengono o investono nello stato di Israele”. La lettera l’accusava anche di ricevere denaro da gruppi a sostegno di Hamas, di antisemitismo e di “diffamare” le aziende su cui stava indagando.
La prima accusa riguardava i fondi che Albanese aveva ricevuto per un viaggio in Nuova Zelanda e in Australia nel 2023. Un comitato delle Nazioni Unite ha indagato e non ha riscontrato irregolarità, pur ricordandole la necessità di evitare conflitti d’interesse reali o percepiti. Le accuse di antisemitismo risalgono invece al 2014, quando Albanese, allora cooperante umanitaria e non ancora funzionaria dell’Onu, scrisse una lettera aperta alla Bbc criticando la copertura dell’emittente sulla guerra israeliana a Gaza di quell’anno. Nel testo parlava dell’“avidità di Israele” e una settimana dopo aveva scritto un’altra lettera in cui faceva riferimento a una “lobby ebraica”.
Da allora si è scusata ripetutamente, spiegando – anche a me, più di una volta – che all’epoca non si era resa conto di usare stereotipi antisemiti. Undici anni dopo dice di essere molto più consapevole dell’eco che possono avere le sue parole, un aspetto del processo di apprendimento che, a suo dire, è una costante del suo lavoro. Tra le altre cose ha letto molto sulla storia ebraica e israeliana.
Albanese ha saputo della lettera del dipartimento di giustizia quando è stata pubblicata su X. “È lì che ho cominciato ad andare fuori di testa, a spaventarmi”, mi ha detto. Seduta su una panchina del parco pubblico della sua città, all’ombra di un castello normanno che domina una vasta valle, sembrava piccola e vulnerabile come qualsiasi essere umano. Eppure il governo degli Stati Uniti l’ha accusata di intimidire le più grandi corporation del mondo. “Puoi immaginarmi a terrorizzare Google o Microsoft?”.
Alcuni dei suoi contatti statunitensi hanno cominciato a tagliare i ponti con lei, dicendo che gliel’avevano consigliato i loro avvocati. I suoi numeri di telefono sono stati diffusi online. Ha ricevuto minacce sempre più frequenti e dettagliate in modo inquietante.
Il 2 luglio Albanese ha pubblicato il suo rapporto intitolato “Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio”. Ha citato aziende come la Lockheed Martin e la Caterpillar, che hanno fornito attrezzature per la distruzione di Gaza, e Amazon, la Alphabet, la Microsoft e la Palantir che hanno contribuito con tecnologie e software avanzati usati da Israele nella sua guerra. Ha denunciato anche il Massachusetts institute of technology per avere condotto ricerche per il ministero della difesa israeliano.
Non arrendersi mai
Una settimana dopo l’amministrazione Trump ha annunciato le sanzioni contro di lei. Albanese non potrà più partecipare all’assemblea generale delle Nazioni Unite né a nessun altro incontro nella sede di New York. Lei e il marito potrebbero perdere l’appartamento a Washington, l’unica proprietà che abbiano mai comprato. Albanese potrebbe anche perdere l’accesso a servizi forniti da aziende statunitensi: social media, email, piattaforme come Zoom o altri strumenti di videoconferenza e perfino il sistema operativo del suo computer. Se dovesse succedere, mi ha detto, farà arrivare comunque il suo messaggio attraverso contatti fidati che possono pubblicare sui social media. Si ripete che in passato le persone lottavano contro l’oppressione senza la tecnologia. “I partigiani italiani andarono ad aiutare i loro compagni spagnoli nella battaglia contro Franco e comunicavano. Trovavano un modo”, ha detto.
Probabilmente fa parte del lavoro di Albanese non arrendersi mai, agire sempre come se la giustizia fosse possibile. Ma quei partigiani italiani e i loro compagni spagnoli furono sconfitti. E non si può combattere un genocidio attraverso gli amici sui social media. In realtà non è nemmeno chiaro se si possa davvero combattere un genocidio.
Il diritto internazionale fa due distinzioni fondamentali tra il genocidio e la categoria più ampia dei crimini contro l’umanità. Una differenza riguarda l’intento: i crimini contro l’umanità hanno a che fare con il disprezzo per la vita umana, mentre il genocidio è un crimine di odio contro un gruppo specifico. L’altra differenza riguarda il modo in cui il mondo è obbligato a rispondere: in base al diritto esistente gli altri paesi non hanno l’obbligo di impedire i crimini contro l’umanità, ma la convenzione sul genocidio impone agli stati di prevenirlo. La convenzione riconosce che il genocidio è un processo. Non si verifica nel momento in cui un gruppo è stato sterminato; si sviluppa nel tempo, e il diritto internazionale impone che sia fermato.
Unire i puntini
Ma come si ferma un genocidio? L’anno scorso un gruppo composto da palestinesi e palestinesi statunitensi ha sostenuto in un tribunale federale in California che la convenzione sul genocidio obbligherebbe gli Stati Uniti a sospendere gli aiuti a Israele. Nella sua sentenza, il giudice Jeffrey S. White ha invitato le autorità statunitensi a “esaminare le conseguenze del loro incrollabile sostegno all’assedio militare contro i palestinesi a Gaza”, ma ha riconosciuto di non poter ordinare nulla al governo.
Sempre all’inizio del 2024, la Corte internazionale di giustizia ha avviato le udienze del caso presentato dal Sudafrica, che accusa Israele di commettere un genocidio a Gaza. Passeranno anni prima di una sentenza definitiva, ma lo scorso gennaio la Cig ha ordinato a Israele di adottare misure per ridurre al minimo le vittime civili. Le prove disponibili indicano che Israele ha fatto il contrario.
Eppure, la sentenza finale della Cig è tutt’altro che scontata. “È così difficile provare un genocidio”, ha detto Douglas. “Serve qualcosa come il protocollo di Wannsee”, il documento in cui i leader nazisti esposero il loro piano per uccidere undici milioni di ebrei europei. Poi ha aggiunto: “A mio avviso, i crimini contro l’umanità sono già abbastanza gravi”. Il giurista ritiene infatti che, nel caso delle azioni di Israele a Gaza, una condanna per crimini contro l’umanità sarebbe più appropriata di quella per genocidio. Ma se questa fosse la conclusione della corte, ha osservato, “il titolo sarebbe: ‘Israele assolto dall’accusa di genocidio’”.
La promessa della giustizia internazionale si ridurrà a cavilli legali mentre gli Stati Uniti sabotano anche questo tentativo? Solo se glielo permetteremo, ha detto Albanese. “Dobbiamo trovare un modo per isolare questa amministrazione e smettere di affidarle il potere di dettare le regole d’ingaggio sul piano internazionale”. Un passo, secondo lei, potrebbe essere spostare l’Onu fuori da New York.
La sua conoscenza dei sistemi giuridici è in parte plasmata dall’essere cresciuta in Italia all’apice del potere e della violenza della mafia. Quando lei aveva 14 anni la mafia uccise, in due attentati separati, i due giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che avevano svelato il funzionamento della mafia e fino a che punto i suoi meccanismi fossero “interiorizzati nelle vene dello stato”, ha detto Albanese. Prima di allora, “c’era perfino chi negava l’esistenza della mafia”, ha aggiunto. Ma dopo gli omicidi gli italiani si unirono per chiedere un cambiamento.
Lo scontro tra Albanese e la Casa Bianca di Trump non è semplicemente quello tra una persona che critica Israele e un’amministrazione statunitense che lo sostiene senza riserve: è il conflitto tra chi conosce a fondo il funzionamento di uno stato mafioso e un’amministrazione che sta costruendo uno stato mafioso. È logico, quindi, che questa Casa Bianca stia punendo Albanese per aver messo in luce il punto d’incontro tra genocidio e profitto. Eppure Albanese crede di vedere l’ascesa di una nuova forma di solidarietà e di una nuova consapevolezza, nelle piazze e nei tribunali. A gennaio i rappresentanti di otto paesi si sono riuniti all’Aja, dove hanno sede la Cpi e la Cig, per dichiarare la loro intenzione di chiedere conto a Israele delle sue azioni. A luglio si è tenuto in Colombia il primo incontro del Gruppo dell’Aja. Altrettanto importanti, secondo Albanese, sono i giovani che protestano in tutto il mondo. “Le persone stanno unendo i puntini tra quello che fanno le multinazionali in Congo e in Palestina”.
“Bisognerebbe smettere di chiedere se credi nel diritto internazionale”, ha continuato, proponendo una visione più pragmatica: “Il diritto internazionale non è Dio. Il diritto internazionale è uno strumento, un mezzo”. Secondo lei un consenso globale in evoluzione può usare questi strumenti come non è mai accaduto prima, nei tribunali grandi e piccoli.
Molti israeliani viaggiano spesso e un numero significativo di loro possiede un doppio passaporto. Albanese immagina, per esempio, che questi cittadini sospettati di crimini di guerra siano giudicati nei paesi di cui hanno la seconda cittadinanza. A luglio due israeliani che partecipavano a un festival musicale in Belgio sono stati brevemente fermati e interrogati riguardo a un loro possibile coinvolgimento in crimini di guerra commessi a Gaza. Sono stati poi rilasciati e il caso è stato trasmesso alla Cpi.
Sono passati ottant’anni dall’inizio dei processi di Norimberga. Quest’anno la Cig ne ha compiuti altrettanti. Sono seguite varie sentenze, più di una decina di tribunali internazionali e molti trattati. Eppure, la più grande promessa della giustizia internazionale – non solo punire i criminali, ma anche prevenire i crimini – rimane un’aspirazione. Albanese pensa che le cose stiano per cambiare: “Quando gli standard esistono e non sono applicati, allora è il momento di portare la questione in tribunale”.
Sarà comunque troppo tardi per molti palestinesi di Gaza. C’è voluta la distruzione dell’ebraismo europeo perché il mondo riconoscesse il crimine di genocidio e promettesse di non farlo mai più succedere. Il genocidio di Gaza potrebbe essere terminato. La morte e la devastazione che ha portato spingeranno il mondo a mantenere la sua promessa? ◆ svb
M. Gessen scrive libri e collabora con il New York Times. È una persona di identità non binaria russo-statunitense. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è L’uomo senza volto. L’improbabile ascesa di Vladimir Putin (Sellerio 2022).
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Questo articolo è uscito sul numero 1639 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati