Nella redazione di Radio Dabanga, ad Amsterdam, cinque giornalisti olandesi-sudanesi lavorano al notiziario usando computer non proprio nuovissimi. L’emittente diffonde notizie sul Sudan, dove da più di due anni infuria una guerra civile tra l’esercito governativo e i paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf). Le Nazioni Unite stimano che i morti siano già 150mila, causati dai combattimenti ma anche dall’emergenza alimentare. Quattro milioni di sudanesi sono fuggiti nei paesi vicini, altri dieci milioni sono sfollati all’interno del paese.
“Oggi parliamo delle violenze a sfondo etnico contro gli scienziati”, dice Ibrahim Jadelkarim, 65 anni, il presentatore del programma quotidiano Sudan Today. “Abbiamo il contributo di una donna che vive in un campo profughi in Sud Sudan”. La donna spiega che sono scoppiati dei disordini nel campo perché le famiglie devono sopravvivere per quaranta giorni con solo un sacco di farina, 60 millilitri di olio e due tazzine di sale.
Jadelkarim ha studiato comunicazione e teatro in Sudan, e nel 1997 è fuggito nei Paesi Bassi. Vive all’Aja ma, racconta, “la mia compagna abita ad Amsterdam, così non devo fare avanti e indietro tutti i giorni”. Alle quattro in punto prende dalla scrivania dei fogli scritti in arabo, va nello studio, preme la luce rossa con scritto “On air”, indossa gli occhiali e comincia a registrare. Tre ore dopo il programma si può ascoltare in onde corte a seimila chilometri di distanza. Milioni di sudanesi negli angoli più remoti del paese si riuniscono intorno alle radioline crepitanti. Anche nei campi profughi sovraffollati in Sud Sudan, Egitto, Etiopia e Ciad risuona ogni giorno il motivetto allegro di Radio Dabanga. Dove si combatte? C’è da mangiare nei campi profughi? L’epidemia di colera continua? Cosa fa la comunità internazionale di fronte alla carestia, agli stupri sistematici e alla violenza genocida? Anche se spesso le notizie lette da Jadelkarim sono terribili, lui ha una risata contagiosa che riempie la redazione. “Ridere è la mia strategia di sopravvivenza”, dice. “Altri cadono nell’apatia o si mettono a bere. Io non me lo posso permettere: il Sudan ha bisogno di noi”.
In onde corte
Senza Radio Dabanga molti sudanesi non avrebbero una fonte di notizie indipendente. “Trasmettiamo in onde corte”, racconta il direttore Kamal Elsadig, 65 anni, che ha fondato Dabanga nel 2008 con l’aiuto dell’ong olandese Free press unlimited. “Le frequenze fm non funzionano e i giornali non si stampano più”.
Oggi nell’80 per cento del territorio sudanese non c’è la connessione a internet. Si può accedere alla rete solo attraverso i satelliti Starlink di Elon Musk, ed è molto costoso. “In tv non ci sono più notiziari indipendenti, solo canali di propaganda”, spiega Elsadig. “Ma Dabanga ha un canale satellitare che trasmette notizie ventiquattr’ore su ventiquattro. Così raggiungiamo un pubblico vasto, soprattutto nelle aree urbane”.
La guerra in Sudan è un “conflitto dimenticato”, i mezzi d’informazione e i politici occidentali non ne parlano molto, in parte perché i loro paesi hanno pochi interessi in Sudan: non vendono armi alle fazioni in lotta e non hanno legami stretti con il paese, neanche economici. Un altro motivo è che la guerra è poco visibile. I giornalisti sudanesi sono stati arrestati o sono scappati, le redazioni sono state distrutte dalle bombe. Per i giornalisti stranieri è quasi impossibile inviare resoconti dal Sudan. Anche Gaza è irraggiungibile per i reporter stranieri e molti giornalisti palestinesi sono stati uccisi, ma ogni giorno vengono pubblicate le immagini dei raid e di bambini affamati. “Invece la guerra in Sudan si combatte nel buio più totale”, afferma Elsadig.
Dabanga cerca di colmare questo vuoto. “Ci concentriamo sulle testimonianze dei civili”, spiega Elsadig. “Abbiamo un’ampia rete di persone a cui possiamo telefonare per verificare le notizie. E loro ci chiamano se ci sono sviluppi. In base a quanto ci dicono cerchiamo di fornire il quadro più chiaro possibile di quello che succede”.
I telefoni in redazione, però, suonano sempre meno. “Nelle zone controllate dalle forze governative sono state bloccate le chiamate WhatsApp”, spiega Jadelkarim. “In quelle dove comandano le Rsf non c’è proprio campo. I nostri contatti registrano vocali su WhatsApp. Poi, una volta alla settimana, vanno in un posto dove ci si può collegare a Starlink e li mandano tutti insieme. Così risparmiano”.
A volte è difficile non cedere al cinismo, dice Elsadig. “Mentre i giornalisti muoiono di fame, le fazioni in lotta spendono una fortuna per produrre e diffondere notizie false. Forse la principale vittima di questa guerra è proprio la verità”.
Le trasmissioni di Dabanga a volte possono segnare la differenza tra la vita e la morte. “Per esempio, spesso parliamo della situazione di sicurezza lungo le strade. In base a quelle informazioni, le persone possono decidere qual è il percorso migliore per loro”, spiega il direttore. “In molte zone siamo l’unico collegamento con il mondo esterno. Siamo una voce affidabile, la gente ha fiducia in noi”.
Resistere ai tagli
Ma per quanto tempo ancora? Dabanga riceveva la metà dei fondi dall’agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale (Usaid), a cui Trump ha tolto gran parte dei finanziamenti appena è entrato in carica. A causa dei tagli la radio ha dovuto interrompere la collaborazione con alcuni freelance e una parte della redazione lavora da casa per risparmiare sui trasporti. Uno dei dipendenti che ha perso il posto è Mohammed Abdulrahman, 69 anni, seduto a una scrivania vicino alla finestra. “In realtà ero già in pensione, ma continuavo a lavorare come freelance”, spiega. “Per me questo lavoro è importantissimo e continuo a venire qui. Ora sono un volontario”.
Abdulrahman ha cominciato a lavorare nel 1980 come radiocronista per la Sudanese News Agency (Suna), l’agenzia stampa di stato sudanese. Dopo il golpe del 1989 Omar al Bashir limitò la libertà d’espressione e fece rinchiudere in prigione i giornalisti critici. Abdulrahman fuggì nei Paesi Bassi. Da allora ha lavorato come ricercatore all’Istituto internazionale di storia sociale e poi a Radio Netherlands Worldwide (Rnw), il servizio internazionale della radio pubblica olandese.
Quando Rnw ha chiuso nel 2015, è approdato a Radio Dabanga. Nel 2018 ha seguito le proteste dei giovani sudanesi contro Al Bashir. L’anno dopo, quando il dittatore è stato destituito, Abdulrahman è tornato in patria: “Mi avevano chiesto di diventare il direttore della Suna. Nel paese c’era un’energia incredibile. Tutti pensavamo che finalmente sarebbe arrivata la democrazia. Sognavamo in grande”. Ha cercato di modernizzare il lavoro della redazione. “I 140 dipendenti non avevano fatto altro che diffondere propaganda per trent’anni. Dovevano imparare che non erano costretti ad accettare la versione ufficiale”.
Ma l’euforia è durata poco. Nel 2021 il governo di transizione è stato deposto dall’esercito. “Mi hanno ordinato di dimettermi per fare spazio a uno dei loro”, dice Abdulrahman. “La libertà di stampa era di nuovo un ricordo, così sono tornato nei Paesi Bassi a Radio Dabanga”.
Anche se al momento in Sudan c’è la peggiore crisi umanitaria del mondo, le notizie dal paese raggiungono di rado le prime pagine. “Tra l’altro è una guerra complessa”, sospira Jadelkarim. “Entrambe le fazioni commettono crimini orribili contro i civili. Per capirla, bisogna conoscere la storia”.
◆ “I sudanesi non possono concedersi il lusso di disprezzare Elon Musk”, scrive Yassmin Abdel-Magied su New Lines sottolineando l’importanza dei servizi Starlink nel paese africano devastato dalla guerra. “Starlink è stato lanciato nel 2019 dall’azienda privata di Musk, la SpaceX, per fornire una connessione a banda larga in tutto il mondo attraverso una costellazione di satelliti in orbita terrestre bassa. Gli utenti si connettono con una piccola parabola satellitare fornita dall’azienda e un router wi-fi, ideali per posti geograficamente isolati o con infrastrutture scarse, come il Sudan”. Nel paese i blocchi della rete internet sono cominciati subito dopo lo scoppio della guerra civile nell’aprile 2023: i combattenti hanno distrutto gli apparati di telecomunicazioni e intere regioni sono rimaste isolate per mesi. Oltre a non ricevere più notizie, la popolazione ha visto fermarsi i servizi di mobile banking, indispensabili per pagare e per ricevere denaro dai familiari all’estero in un momento di scarsità di contanti. Ormai le organizzazioni umanitarie e le reti di attivisti locali possono collegarsi a internet solo usando Starlink, nonostante i problemi etici. Per esempio, nelle aree controllate dalle Forze di supporto rapido i dispositivi Starlink sono controllati dai miliziani, che riscuotono delle imposte sul loro uso.
L’attuale violenza ha radici nell’epoca coloniale, quando i britannici seminarono volutamente la discordia tra la popolazione araba, prevalentemente musulmana, e quella nera africana. Concentrarono il potere nelle mani dei musulmani e quella posizione privilegiata si consolidò dopo l’indipendenza nel 1956. L’astio tra i diversi gruppi etnici causava regolarmente rivolte. Nel 2003 due gruppi ribelli del Darfur presero le armi contro il governo di Khartoum, denunciando la discriminazione sistematica dei neri. L’esercito di Al Bashir, affiancato dai combattenti arabi janjawid, rispose con la violenza. Dopo un genocidio che causò 300mila morti, il presidente cercò di inquadrare i miliziani, che diventarono le Rsf.
In occasione delle proteste del 2019 il capo dell’esercito Abdel Fattah al Burhan ha voltato le spalle ad Al Bashir e alleandosi con il comandante delle Rsf Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti, ha fatto crollare il suo regime. È andato al potere un governo provvisorio formato da civili e militari, ma in poco tempo Al Burhan ed Hemetti hanno organizzato un colpo di stato, interrompendo il breve periodo di libertà del paese.
I due generali sono oggi coinvolti in una lotta di potere. Nell’aprile 2023 sono scoppiati violenti combattimenti nella capitale Khartoum, che hanno presto raggiunto il resto del paese. Il conflitto è alimentato da paesi come la Russia, l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti, che sostengono più o meno apertamente le fazioni in lotta con denaro e armi, nella speranza di avere accesso alle riserve di oro o di ottenere il controllo del mar Rosso. In questo vespaio Dabanga s’impegna per raccogliere informazioni in modo indipendente. Ma è un’impresa ogni giorno più complicata. A causa dei tagli non è più possibile pagare i giornalisti sudanesi che lavoravano come freelance dai paesi vicini. E i cittadini sudanesi che condividono informazioni con Dabanga corrono rischi sempre più grandi. “Qualche tempo fa c’è stato un incendio a Port Sudan”, racconta Jadelkarim. “Qualcuno l’ha ripreso con il telefono ed è stato immediatamente arrestato”. Inoltre, in un paese dove più della metà della popolazione soffre la fame, sono sempre meno le persone disposte a spendere dei soldi per fare una telefonata o per collegarsi a internet.
Elsadig e i colleghi vorrebbero che i mezzi d’informazione occidentali dedicassero più attenzione al Sudan. Per questo Elsadig ha fondato il Sudan media forum, una rete di agenzie di stampa indipendenti attive in Sudan prima della guerra, i cui giornalisti vivono in gran parte in esilio. “Abbiamo un sito dove pubblichiamo tutti i nostri articoli. Riflettiamo anche su come sopravvivere”, spiega. Una questione urgente, perché il futuro di Dabanga non è roseo. “Se la situazione finanziaria non migliora, l’anno prossimo non riusciremo più a trasmettere notizie indipendenti”, dice. “E alla popolazione resteranno solo guerra, fame e notizie false”. ◆ oa
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Questo articolo è uscito sul numero 1631 di Internazionale, a pagina 62. Compra questo numero | Abbonati