Chilometro dopo chilometro, solo erba secca a perdita d’occhio. La terra è arancione e all’orizzonte danzano piccoli tornado. L’asfalto fila dritto, non se ne vede la fine. Ogni tanto qualche eucalipto, cespugli e alberi morti. A volte delle case lungo la strada: uniche tracce di presenza umana per centinaia di chilometri, assistono al passaggio dei trucks, gli autoarticolati a doppio rimorchio che attraversano il continente giorno e notte. Il gps avverte: “Prossima svolta tra 92 chilometri”. I cartelli stradali con lo sfondo verde annunciano Bendigo, Finley, Leeton. Questo è il bush australiano, non ancora il deserto, ma è già l’immensità monotona.

Poi, via via che si avanza in questo oceano color paglia e ocra, si scorgono delle macchie verdi. Erba alta per le mucche, risaie, campi di erba medica e di soia. Distese di grano e di mais. Spazi di vita strappati alla terra arida. Il New South Wales, nel sudest del paese, è uno degli stati più secchi dell’Australia trasformato in granaio agricolo. Qui l’uomo ha addomesticato la natura a colpi di ruspe, filo spinato, fertilizzanti e irrigazione; ha domato il fiume più imponente del continente, il Murray, con dighe gigantesche. L’acqua è ovunque: costeggia la strada e brilla al sole, arrogante, nei suoi canali artificiali di cemento. Larghi come viali, i canali si dividono in diramazioni secondarie sempre più piccole per arrivare fino alle fattorie più isolate.

Davanti alla fattoria di David Owen, sulla Riverina highway, a metà strada tra Finley e Deniliquin, un cartello annuncia una vendita all’asta. I vicini sono arrivati numerosi in pick-up scassati o in fuoristrada nuovi. Questa domenica mattina il popolo dei coltivatori piange uno dei suoi: David Owen vende i suoi averi. Il banditore d’asta porta gli stivali da cowboy e un cappello Stetson. Quando non vende fattorie, anima matrimoni. “Cinquanta dollari! Sessanta! Ottanta! Cento! Nessun altro a cento?”, urla rapidamente con voce nasale. “Cento e uno, cento e due, cento e tre, aggiudicato a cento dollari!”. Intorno a lui i volti non sono molto espressivi. Per rilanciare durante l’asta basta un minimo segno della testa. Non ci si rallegra quando un vicino se ne va.

L’Australia è una delle principali potenze agricole del mondo. L’ex colonia britannica, costruita da ergastolani, agricoltori e pirati, esporta il 70 per cento della sua produzione e fornisce carne, riso e cereali a gran parte dell’Asia. Ma per quanto tempo ancora? Nel continente più arido del pianeta, chiedere al cielo di piovere è diventata una preghiera collettiva. “Ancora qualche millimetro”, implora la fornaia di Finley. Ci vorrebbero giorni di pioggia a dirotto per dissetare una terra che muore sotto gli occhi impotenti degli agricoltori. “Anche gli alberi secolari, sopravvissuti a tutto, stanno morendo. Non c’è più un filo d’erba, non ci sono più vermi né insetti, non ci sono più uccelli né rane”, si dispera la commerciante. “Prima c’erano canguri ovunque, ora sono più rari”. Gli ultimi cinque anni sono stati i più caldi mai registrati. Nel dicembre del 2019, al sud, il termometro è arrivato a 49,9 gradi. I grandi incendi forestali – i più vicini a 250 chilometri da qui – hanno reso la catastrofe ecologica ancora più grave.

Deve sparire tutto: abbeveratoi di cemento, rotoli di filo spinato mai usato, cisterne in alluminio, trattori, motociclette, quad. David Owen, 62 anni, un omone barbuto con gli occhi tristi e le guance abbronzate, lascia al migliore offerente migliaia di oggetti che riassumono ciò che è: un australiano del bush, figlio di contadini, allevatore di mucche da latte ridotto al fallimento. Una vita di lavoro e di libertà, fino al giorno in cui tutto si ferma perché non ci sono più soldi per comprare l’acqua. Ha passato tutta la sua vita qui, in un raggio di dieci chilometri. “La proprietà dei miei genitori era a pochi passi”. Le ultime bestie sono andate vita una settimana fa, alcune ricomprate dagli allevatori dei dintorni, le altre al macello. Con le braccia incrociate, David risponde ai sorrisi imbarazzati e osserva i compratori. La vendita coprirà l’acquisto di una casa con un pezzetto di terra per cominciare una vita da pensionato insieme alla moglie Jenni. Una volta che se ne sono andati via tutti, il suo volto si distende. “Negli anni ottanta e novanta abbiamo avuto fino a 1.300 mucche. L’anno scorso ne avevamo solo 300. Conoscevo il nome di ognuna di loro, quello delle loro madri e delle loro nonne”. Si asciuga una lacrima. “Dicono che ci si riprenda”.

Accelerando la catastrofe

Da vent’anni il paese-continente affronta dei periodi di siccità sempre più frequenti, lunghi e intensi. Non piove più, i fiumi si prosciugano, il suolo si sbriciola, gli alberi si seccano e il bestiame è mezzo morto di sete. Non è una crisi, è l’Australia di domani, ci si dovrà abituare. Il riscaldamento climatico spinge i 25 milioni di australiani a chiedersi come fare a sopravvivere: come adattare il proprio modo di consumare, di produrre? Come distribuire l’acqua, una risorsa sempre più rara?

Il paese ha creduto di trovare la soluzione nel suo spirito di conquista. L’Australia, colonizzata alla fine del settecento dai reietti del Regno Unito, dagli esclusi dalla rivoluzione industriale e poi, dopo la prima guerra mondiale, da centinaia di migliaia di europei che scacciarono gli aborigeni che la popolavano, rivendica una mentalità pionieristica. Nel 2007 il paese si è inventato delle nuove regole adottando il Water act, la legge sull’acqua: ogni anno le autorità valutano la quantità di acqua disponibile in ogni stato, ne distribuiscono metà tra i consumatori – agricoltori, industrie, famiglie – e lasciano che il prezzo dell’altra metà sia deciso dal mercato.

Fin dall’epoca dei primi coloni i coltivatori australiani hanno diritto a una certa quantità d’acqua che possono pompare dai fiumi o dal sottosuolo. Da sempre a ogni appezzamento di terra ne spetta un tot. Prima del 2007 si poteva rivendere la quantità in eccesso al proprio vicino al prezzo che si voleva. Oggi, invece, il prezzo è fissato dal mercato. L’apertura del mercato si accompagna a un’altra regola che cambia tutto: non c’è più bisogno di possedere un terreno per comprare dei titoli dell’acqua. Un dirigente tedesco, un trader australiano, un investitore lionese, tutti possono comprare questi titoli. L’acqua è quotata in borsa, come il grano o il petrolio. E negli anni la quota riservata alla speculazione è aumentata a scapito degli agricoltori. Durante i periodi di siccità, cioè quando gli agricoltori hanno più bisogno d’acqua, i finanzieri all’altro capo del mondo si fregano le mani sperando che la crisi continui per aumentare i loro profitti.

L’acqua si compra attraverso un’app. Un rubinetto dotato di un piccolo pannello solare ne blocca l’arrivo. Una volta avvenuto il pagamento, la compagnia di distribuzione comunica con un sms il giorno e l’ora di apertura del rubinetto. Da quando è stato introdotto il Water act, il mondo degli affari guarda all’Australia come al laboratorio dove si sperimentano le regole del mondo di domani, con i dollari negli occhi. Il paese crede in questo modo di salvare la sua agricoltura intensiva, i suoi spazi naturali, il suo stile di vita, ma in realtà sta accelerando la catastrofe.

L’acqua è quotata in borsa, come il grano o il petrolio. E negli anni la parte riservata alla speculazione è aumentata a scapito degli agricoltori

Un’entrata in più

All’inizio i coltivatori hanno applaudito. “Si pensava che il mercato dell’acqua potesse essere un mezzo per ottenere un reddito complementare”, racconta David Owen. “Ci dicevamo che in questo modo avremmo avuto un’entrata in più alla fine del mese”. Ed è quello che inizialmente è successo, perché nei primi anni è piovuto molto. Poi la situazione ha cominciato a cambiare. È arrivata la siccità e le autorità – lo stato federale e i singoli stati insieme ai responsabili della filiera – hanno ridotto la quantità di acqua concessa ai coltivatori proprietari dei loro terreni. Le quote variano a seconda delle regioni, poiché la siccità non colpisce ovunque allo stesso modo. Se si possiedono mille megalitri (dieci milioni di ettolitri) di diritti dell’acqua e la quota è fissata all’80 per cento, si avrà diritto a 800 megalitri. Se la quota è zero per cento non si avrà neanche una goccia d’acqua. Nel 2013 Owen aveva una quota del 70 per cento, ma dal 2018 la percentuale a disposizione dei coltivatori nella sua zona si è azzerata, così ora deve acquistare la sua acqua a caro prezzo sul mercato e indebitarsi per comprare il foraggio che non ha potuto coltivare.

“Non capisco nulla di borsa dell’acqua”, sospira. “Se non la consulti costantemente, non sai come cambiano i prezzi. Ma non ti va di consultarla perché la maggior parte del tempo è deprimente. Ti dici: scenderà, bisogna aspettare. E invece continua ad aumentare”. In media negli ultimi cinque anni i prezzi nella regione sono raddoppiati, e nelle terre di David sono aumentati di nove volte in due anni. “Più i prezzi aumentavano, più ci indebitavamo; più il costo della produzione del nostro latte aumentava, più perdevamo denaro alla vendita e più ci indebitavamo. Finché un giorno mia moglie ha detto basta”. Una sera d’estate nel marzo 2018, dopo l’ennesimo episodio di caldo intenso, Jenni ha deciso di abbandonare questa vita. “Stavo perdendo l’uomo che amavo”, racconta continuando a fissarlo. “E stavamo dilapidando tutti i nostri risparmi”. Da allora diversi vicini hanno venduto le loro fattorie.

Girare in macchina per il New South Wales significa immergersi in un film di fantascienza: le imposte sbattono al vento, i recinti sono vuoti. I cambiamenti climatici e il mercato dell’acqua hanno avuto la meglio sui piccoli coltivatori. Qui quarant’anni fa c’erano 3.600 allevatori di mucche da latte. Oggi ne è rimasto un sesto. In questa regione grande come la Francia, e per l’80 per cento occupata da aziende agricole, i villaggi si svuotano.

L’alluvione a Sydney, New South Wales, 22 marzo 2021 (Loren Elliott, Reuters/Contrasto)

“La produzione di latte in Australia è finita. Presto importeremo il latte dalla Cina!”. All’entrata di una proprietà a sudest di Finley, un vecchio microonde arrostisce al sole: è la cassetta postale di Bart Dohan, allevatore di mucche da latte. Berrettino con visiera, camicia di jeans e pantaloncini kaki, ha il tipico look da allevatore del bush. Vive su questa terra selvaggia con la moglie Tracie e i loro quattro figli, tra gli 11 e i 18 anni. Sembra di stare nel telefilm La casa nella prateria, con la differenza che la prateria non ha più erba. Le mucche hanno i fianchi incavati. Siamo alla fine di gennaio del 2019, è estate ma non piove da due mesi, eppure nei canali l’acqua scorre tranquilla. “È qui, sotto i miei occhi, posso toccarla, posso bagnarmi i piedi ma non posso usarla. Non ho i mezzi”. Le casse sono vuote. Le fatture non pagate si accumulano. Il bestiame ha il mangime razionato e produce solo metà del latte abituale.

Lasciar perdere tutto? Sì, ma per far cosa, e dove? Bart e la sua famiglia hanno sempre vissuto in campagna e amano questa vita. Seduti intorno alla tavola, ognuno guarda il proprio piatto. La cena è frugale: pane in cassetta tostato con groviera grattugiato e Coca-Cola. Sul suo smartphone Bart controlla il prezzo dell’acqua, quel giorno il megalitro è a 250 dollari. All’inizio degli anni duemila si vendeva a 30-50 dollari. “Cerchiamo di salvare le nostre mucche e di tenere duro. Per produrre il foraggio di cui hanno bisogno dovrei comprare 300mila euro di acqua all’anno. Troppo”. Il suo vicino ha dovuto sborsare 600mila euro. “Se una tempesta dovesse distruggere i suoi raccolti, perderebbe tutto. La mia speranza è che piova, che i fiumi si riempiano. Potrà succedere? Impossibile saperlo. È come giocare alla roulette russa!”, dice mimando il revolver alla tempia con il dito sul grilletto.

Per Rooney il futuro sarà un mercato mondiale che fisserà i prezzi a seconda delle regioni, in funzione del meteo e del livello delle falde

Alla fine del 2018, per la prima volta nella sua vita Bart è andato a manifestare a Melbourne per chiedere un aumento della quota d’acqua riservata agli agricoltori nel bacino dei fiumi Murray e Darling e per ridurre quella destinata alla natura. “Anche gli ecologisti che vivono in città mangiano”, scandivano i manifestanti. “Se i coltivatori muoiono tutti, domani l’Australia dovrà importare i prodotti alimentari e questo produrrà un enorme inquinamento!”.

Gli abitanti delle città hanno ignorato i contadini del bush, mentre è aumentata la quota d’acqua destinata alla natura del 16 per cento: 3.200 miliardi di litri liberi da ogni vincolo. Un ulteriore terremoto per i piccoli agricoltori, ma sempre troppo poco per la natura, osservano gli scienziati. L’agricoltura intensiva e gli speculatori hanno sfruttato in modo eccessivo le falde freatiche e i fiumi. La portata dei corsi d’acqua è stata modificata, la salinità è aumentata, gli argini si sono erosi, la biodiversità è diminuita. Nell’ottobre del 2018 e nel gennaio del 2019 sono stati scoperti nel lago Menindee centinaia di migliaia di pesci morti. “Un’alga tossica”, hanno detto sbrigativamente le autorità. Troppo semplice, hanno risposto alcuni ricercatori del Centro per la biodiversità dell’Australian national university. Di fatto l’alga tossica prolifera proprio perché le acque del bacino sono gestite male e la pressione sulle riserve esercitata dai mercati è troppo forte. In un mondo in cui l’acqua dev’essere redditizia, a volte viene tenuta ferma per mesi prima di essere venduta al miglior offerente. Ormai le casseforti dell’oro blu sono rappresentate da dighe gigantesche. L’acqua non circola più. “I flussi dei fiumi non bastano per ossigenare i pesci, ricostituire le falde freatiche e portare il sale fino all’oceano”, spiega il rapporto. Dal 2011 lo stato e le associazioni ambientaliste hanno restituito alla natura 2.750 miliardi di litri d’acqua, ma bisognerebbe raddoppiare questa cifra. Così un allevatore come Bart è completamente schiacciato tra le esigenze ambientali e la speculazione finanziaria.

Al volante del suo vecchio fuoristrada ci porta a fare un giro. Ecco il canale all’ingresso del suo terreno. “È una lotta impari. Non avremmo mai dovuto far passare la legge. Una volta che il sistema è deregolamentato, non si può tornare indietro”. La figlia maggiore gli si avvicina; fin da piccola sognava di proseguire l’attività del padre, ma più il tempo passa e meno ne ha voglia. “Non fate come noi, non scegliete questo modello. In passato l’Australia era il paese in cui ci si aiutava a vicenda, ora ognuno pensa solo ai fatti suoi”.

Pecore in una proprietà alle porte di Boggabri, nel New South Wales, Australia, ottobre 2019  (David Gray, Getty Images)

Per rispondere alla crisi dell’acqua l’Australia ha scelto il liberismo in voga negli anni ottanta sotto l’influenza di Ronald Reagan negli Stati Uniti e di Margaret Thatcher nel Regno Unito. E tutto il mondo politico ha approvato questa scelta. Quando nel 2007 è passato il Water act, il ministro dell’ambiente e delle risorse idriche era Malcolm Turnbull, ex dirigente della Goldman Sachs, la banca costretta a pagare cinque miliardi di dollari per aver rovinato i suoi clienti nella crisi dei subprime del 2008. Un’istituzione che ha sempre raccomandato la liberalizzazione totale dei mercati.

Ma anche gli ecologisti erano favorevoli a questa legge in nome del clima. “Abbiamo pompato troppa acqua dal Murray. Il fiume stava progressivamente morendo. Attribuendo un prezzo all’acqua, la gente ne spreca di meno, soprattutto gli agricoltori”, assicura la senatrice ecologista Sarah Henson Young, 35 anni. La donna riconosce però che l’acqua sul mercato non favorisce sempre chi ne ha più bisogno. Di fatto “obbedisce alla legge del più ricco”. La senatrice denuncia da dieci anni i giganti del settore agricolo ma difende anche il modello speculativo. “Bisognava passare attraverso questo sistema per garantire alla prossima generazione acqua a sufficienza per vivere”. Gli ecologisti hanno ottenuto che la quota di acqua riservata all’ambiente sia prioritaria, e si battono per aumentarne la percentuale. Oltre alla quota che le autorità concedono ogni anno all’ambiente, alcune ricche fondazioni ecologiste australiane comprano sul mercato decine di milioni di litri, per sottrarla agli agricoltori e restituirla alla natura. Ma così facendo fanno aumentare ulteriormente il prezzo.

Una grande piscina

Parchi verdi e un campo da golf in piena città continuamente irrigato: Adelaide, la città più arida del continente più arido del mondo, sembra la California. La gente gira in bicicletta e vive in pantaloncini. La capitale dello stato dell’Australia Meridionale è anche la capitale mondiale del mercato dell’acqua. L’idea di privatizzare la risorsa e di organizzarne il commercio è stata teorizzata da Mike Young, docente di economia all’università cittadina. Capelli brizzolati pettinati all’indietro, occhi vivaci dietro gli occhiali sottili, la voce dolce, abituata a convincere. “Insegno come rendere il mondo migliore”, dice Young rivolgendosi a un gruppo di studenti in silenzio. Ha tenuto dei corsi ad Harvard e ha lavorato per l’Ocse a Parigi. Insegna agli studenti a creare e gestire un conto idrico. “La mancanza di questa risorsa è un’evidenza. Entro il 2050 metà dell’umanità vivrà con risorse limitate. Bisogna gestire l’acqua con parsimonia per essere sicuri che sia usata nel modo più redditizio possibile. E guadagnare del denaro. E sfamare la popolazione della Terra”.

Un’azienda agricola vicino a Gunnedah, New South Wales, Australia, 23 agosto 2020  (David Gray, Getty Images)

Young paragona la quantità di acqua disponibile a una piscina le cui dimensioni variano ogni anno in funzione delle riserve e delle previsioni meteorologiche. A tutti gli attori è attribuita una percentuale della piscina, in funzione dell’attività, delle dimensioni, della popolazione o del consumo passato. Nei periodi più favorevoli tutti sono serviti a sufficienza. In quelli di siccità si stringe la cinghia. Ma ci sono dei vincoli. Metà della piscina è destinata al consumo quotidiano della popolazione, ad alimentare l’ecosistema e a ricaricare le falde freatiche. L’altra metà si compra sotto forma di quote. Alcuni diritti sono permanenti, e i loro titolari sono assimilati a dei proprietari; altri sono provvisori, concessi agli affittuari. I proprietari sono serviti per primi. Durante gli ultimi periodi di siccità alcuni affittuari, per lo più agricoltori come David o Bart, non hanno avuto neanche una goccia d’acqua.

Il pioniere

Quartiere degli affari di Adelaide. Alcuni grattacieli svettano tra gli altri edifici. In un modesto open space dei ragazzi sulla trentina parlano con calma nel microfono delle loro cuffie, gli occhi fissi sui monitor. Gli strumenti del “mondo migliore” sognato da Young indossano una camicia blu con il logo Waterfind, la prima borsa dell’acqua del mondo. Mascella quadrata e stretta di mano energica, Tom Rooney, fondatore e direttore della Waterfind, sfoggia un gran sorriso in mezzo al brusio: “Mi chiamano il ‘pioniere’ dei mercati dell’acqua. Senz’acqua non avremmo vestiti, telefoni, automobili, case, caffè. La popolazione mondiale passerà da 7,5 a 10 miliardi di abitanti e dovremo sfamare e vestire tutta questa gente. È arrivato il momento di dare un giusto prezzo all’acqua per smettere di sprecarla”. E soprattutto per guadagnare denaro.

Per il direttore della Waterfind l’acqua è una questione di famiglia. Negli anni ottanta suo padre aveva creato la prima impresa di scambio tra coltivatori. All’epoca le transazioni si concludevano con una stretta di mano, e per portare l’acqua potevano volerci giorni. Ormai tutto si fa in tempo reale. “Mi ricordo del mio primo affare completamente elettronico, nel 2003. È durato un microsecondo. Una bella giornata!”, sorride il trader. Per Rooney il futuro sarà un mercato mondiale che fisserà i prezzi a seconda delle regioni, in funzione delle previsioni meteorologiche e del livello delle falde. “I periodi di siccità rappresentano un’opportunità? Certo. È un male? No. I mercati sono il mezzo migliore per distribuire l’acqua. Altrimenti quale sarebbe l’alternativa? Ridurre la popolazione mondiale sbarazzandosi del 50 per cento degli abitanti della Terra? Non mi sembra una grande idea”.

I banditi

Si potrebbe immaginare una borsa nazionale dell’acqua gestita dalle istitiuzioni pubbliche, ma non esiste. Quattro piattaforme private, tra cui la Waterfind, si dividono i due miliardi di euro di questo mercato in crescita e trattengono una percentuale su ogni transazione. Il cambiamento climatico è una variabile del mercato, e l’acqua un attivo finanziario. “È affascinante vedere quanto sofisticati siano diventati i nostri mercati”, dice sorridendo Young nella sua università. “Quando il servizio meteorologico annuncia per la settimana successiva qualche goccia di pioggia, il prezzo dell’acqua scende perché i coltivatori sanno che non avranno bisogno di irrigare. Se invece nei 15 giorni successivi è previsto un aumento della temperatura, allora i prezzi salgono”.

I diritti si vendono attraverso delle piattaforme di scambio. Le borse tra agricoltori che esistevano prima del 2007 nei vari stati australiani sono state collegate tra loro e le reti di condutture condivise. In questo modo centinaia di milioni di litri viaggiano da un punto all’altro del paese. Tutti possono comprare quote di acqua e rivenderle dopo aver incassato i profitti, affittarle ai coltivatori o immagazzinarle in giganteschi bacini artificiali in attesa di un aumento dei prezzi. Tutti giocano in borsa: gli investitori, i comuni, gli industriali del settore agroalimentare, le agenzie governative e perfino le ong ecologiste.

I nuovi padroni del settore sono i fondi pensione australiani e stranieri, per lo più canadesi, le società di assicurazioni e anche alcune università statunitensi come Harvard. I coltivatori australiani li chiamano i water bandits, i banditi dell’acqua. David Williams non ha problemi a definirsi uno dei più grandi proprietari di diritti sull’acqua della Tasmania. Il banchiere d’affari gestisce il suo impero dal 45° piano di un grattacielo di Melbourne. Ci riceve nel suo ufficio dove si accumulano casse di bordeaux e di champagne: prima si occupava di vino e di quel periodo Williams ha conservato il colorito rubicondo e l’aria allegra. Cinque anni fa ha investito 15 milioni di euro nell’acquisto di diritti idrici, che ha affittato ai coltivatori. La produttività del suo investimento è intorno all’otto per cento. E gli allevatori rovinati? “Sono sinceramente dispiaciuto per chi ha dovuto cambiare lavoro. Non è una questione morale, ma l’acqua ha un prezzo, e a fissarlo è il mercato. Tutto qui”.

Da sapere
Incendi e alluvioni

◆ Il 22 marzo 2021 nel New South Wales, in Australia, 18mila persone hanno lasciato le loro case in seguito alle alluvioni provocate da giorni di piogge torrenziali. “Un anno fa ero a Sydney per studiare l’impatto dei cambiamenti climatici sugli eventi meteorologici estremi e nel mio appartamento arrivava l’odore del fumo degli incendi che stavano devastando alcune zone dello stato”, scrive Michael Mann, docente di scienze atmosferiche alla Pennsylvania state university. “Oggi vedo le immagini delle alluvioni, tra cui una casa a nord di Sydney portata via dall’acqua”. I cambiamenti climatici in molte parti del mondo stanno rendendo la stagione secca ancora più secca e quella umida molto più umida. Ma non tutto è perduto, sostiene Mann. Tagliando le emissioni di CO2 si potrebbe evitare il catastrofico innalzamento di 1,5 gradi della temperatura del pianeta. The Guardian


Torniamo nel bush del New South Wales. Cotone, cereali, noci, bestiame sparsi per diversi stati: la Webster Limited, pioniera del settore agroalimentare australiano da più di due secoli, possiede 350mila ettari, l’equivalente di metà della Corsica. Il suo principale motivo di orgoglio sono i mandorli. Questo gigante si è lanciato nella loro coltivazione dopo che la California, prima produttrice mondiale, è stata duramente colpita dalla siccità del 2014. Rispetto al suo consumo di acqua, la mandorla è il frutto che si vende più caro. Nell’industria agricola del futuro ogni pianta è valutata a seconda della quantità di acqua necessaria alla sua crescita. Da queste parti si parla di “ottimizzazione”. A questo ritmo, per sfamare il pianeta gli uomini saranno trasformati in roditori.

Da sapere
Piove meno
Precipitazioni medie annuali in Australia, millimetri (Fonte: Bureau of meterology)

Mandorli a perdita d’occhio. In un vortice di polvere arriva un trattore, afferra un tronco con una tenaglia gigante e lo scuote. Tutto l’albero vibra. Le mandorle cascano come chicchi di grandine. Una macchina le aspira, le pulisce e le seleziona. Brendan Barry, sulla quarantina, in camicia e jeans, ne assaggia qualcuna. È il water manager, responsabile della gestione dell’acqua, un ruolo fondamentale. Gestisce un portafoglio di diritti idrici da 200 milioni di euro. Nasconde lo stress dietro a modi di fare tranquilli. “In sei mesi nella regione il prezzo dell’acqua è raddoppiato. Il valore totale della nostra acqua è più alto di quello di tutte le nostre terre, delle nostre fabbriche e del nostro bestiame messi insieme”. Il manager fa immagazzinare milioni di litri in un bacino gigantesco, la sua miniera d’oro. Un dedalo di tubi distribuisce la quantità di cui ogni albero ha bisogno, calcolata in base alla temperatura dell’aria, all’aridità del suolo e alle previsioni di pioggia. Si lascia andare a una risata nervosa. “Un sacco di grano vale del denaro. Per l’acqua è la stessa cosa, il mio mestiere è massimizzarne il profitto. Creare della ricchezza per i nostri azionisti”.

Brendan è più spesso in sede che nei frutteti. La pressione è alta. La Webster Limited è un peso massimo sui mercati dell’acqua; ne compra grandi quantità quando i prezzi sono bassi, la immagazzina e ne rivende una parte quando aumentano. In certi anni è più redditizio venderla che usarla per le coltivazioni. “Questo sistema è criticato”, dice Brendan. “Ma quali sono le alternative? Affidare a un burocrate il compito di distribuire l’acqua tra i produttori? Significherebbe aprire la porta alla corruzione”.

La gestione della Webster, attenta a ogni singola goccia d’acqua, alimenta l’interesse di altri grandi gruppi. Il più importante fondo pensionistico dei funzionari canadesi ha proposto di ricomprare l’impresa per 530 milioni di euro. Ma anche la Webster è vittima della siccità che colpisce l’Australia. Dopo aver avuto 24 milioni di euro di profitti nel 2018, nel 2019 ne ha ottenuti 18 volte meno. La crisi dell’acqua non risparmia nessuno, ma i giganti possono permettersi di incassare i brutti colpi, i piccoli invece devono abbandonare. Questa mattina il water manager ha un appuntamento con un broker di diritti idrici, Lex Batters. La Webster è uno dei suoi più importanti clienti. “Al suo posto guarderei agli allevatori di mucche da latte”, l’avverte Batters. “Sono tutti sull’orlo del fallimento e cercano di vendere. Ci sono senza dubbio dei terreni buoni da comprare, e con questi dei diritti idrici”.

Mike Young, l’economista che vuole “rendere il mondo migliore”, e Tom Rooney, il “pioniere” dei mercati dell’acqua, sognano di estendere il modello australiano al resto del mondo. In California stanno già nascendo dei mercati. E nel 2013 Young, sollecitato da un ministero britannico, ha raccomandato la creazione di mercati dell’acqua su scala nazionale. Tuttavia il suo rapporto è rimasto in un cassetto. “Hanno trovato il mio atteggiamento un po’ troppo radicale”, dice divertito il professore. L’Europa resiste, ma fino a quando? ◆ adr

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Questo articolo è uscito sul numero 1403 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati