L’architettura di Mariam Issoufou è riconoscibile. Forse perché sembra familiare e allo stesso tempo insolita. Una parete può essere fatta in terra cruda, ma curvarsi come cemento. Una finestra può avere la forma di un arco che avete visto in una città medievale, o in un villaggio africano, o in entrambi i posti. I suoi edifici hanno il peso della memoria e la limpidezza dell’inventiva. Sembrano appartenere tanto al passato quanto al futuro.
C’è una specie di silenzio nelle sue strutture, progettate con cura e pazienza. A Dandaji, un villaggio nelle aride pianure occidentali del Niger, il paese dov’è cresciuta, una biblioteca sorge accanto a una moschea: entrambe sono costruite con terra estratta a pochi metri di distanza.
Nella capitale Niamey un condominio costruito per la classe media non imita le zone residenziali tipiche dell’occidente. Offre invece cortili per stare insieme, pareti spesse che rinfrescano l’aria senza condizionatori, corridoi che curvano e si aprono come i vicoli di un mercato. La geometria non appare mai forzata.
“Penso che la trappola più grande in cui siamo caduti è considerare il gusto occidentale sinonimo di modernità”, ha dichiarato di recente in un’intervista al vertice sulla cultura di Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti. “La modernità è un principio universale che tutti possono rivendicare. E per me non ha una dimensione estetica, è una mentalità. È un modo di pensarti nel presente e di proiettarti nel futuro. Per me è semplicemente partire da cosa c’è stato in passato per poi darne una nuova interpretazione”.
Esplorando il lavoro di Issoufou si scopre quanto l’architetta abbia sfidato le opinioni diffuse sull’architettura moderna e sulla forma che dovrebbe assumere nel sud globale. Eppure in un modo o nell’altro il suo lavoro è stato accolto in Africa e altrove.
Fondato nel 2014, il suo studio di architettura, il Mariam Issoufou architects, ha varie sedi: Niamey, New York e Zurigo. Uno dei progetti più importanti che ha seguito è stato l’Hikma community complex di Dandaji, un complesso che tiene insieme una moschea e una biblioteca, vincitore di due prestigiosi premi Global LafargeHolcim per l’architettura sostenibile.
Non troppo lontano, nella regione senegalese di Kaolack, Issoufou sta costruendo il museo di arte contemporanea Bët-bi.
La terra è utile come il legno o la pietra, ma non viene considerata. Perché?”
A Sharja, negli Emirati Arabi Uniti, sta sviluppando il complesso residenziale di Hayyan, che include ristoranti, sale per lo yoga, palestre e negozi. E a Monrovia, in Liberia, in collaborazione con le architette Sumayya Vally e Karen Richards Barnes sta progettando l’Ellen Johnson Sirleaf presidential centre for women and development, la sede di un’organizzazione dedicata all’ex presidente liberiana che incoraggia le donne a ricoprire ruoli di primo piano nel continente africano.
Il vero progresso
Preparando l’intervista a Issoufou, avevo incentrato le domande sull’uso della cosiddetta architettura tradizionale africana, ma più ci riflettevo, più capivo quanto anche quelle parole fossero cariche di pregiudizi. Sono cresciuto a Gaborone, in Botswana, in un periodo di prosperità economica per la città. Questo ha significato importare dall’Europa e dagli Stati Uniti i grattacieli, edifici altissimi fatti di vetro e cemento. Questo era il progresso. Le capanne con i tetti di paglia a cono (rondavel) apparivano di rado. Perché erano tradizionali. Erano superati. E così le ho chiesto se ha fatto fatica a far valere la sua idea di architettura.
“Sì, certo”, dice. “Quando ho cominciato a parlare dell’uso della terra, le persone mi ridevano in faccia. Mi dicevano: ‘Vuoi riportarci indietro di duecento anni’. Ho dovuto spiegargli che non si trattava del passato. Abbiamo sempre usato il legno e la pietra. E lo facciamo in posti dove sono abbondanti”.
Scegliere la terra non è solo pratico, è anche sostenibile. Per l’Hikma community complex di Dandaji, Issoufou si è procurata i materiali non più lontano di cinque chilometri dal cantiere, mentre il cemento è stato limitato agli elementi strutturali, come le colonne e gli architravi. Il progetto ha introdotto mattoni in terra compressa realizzati con laterite del posto, che hanno reso possibile la ventilazione naturale, mantenendo le temperature interne confortevoli. L’aria condizionata non serviva più.
“Pensiamo che alcuni tipi di materiali non siano moderni e in un modo o nell’altro sentiamo di doverli spiegare in termini contemporanei o di doverne giustificare l’uso”, dice Issoufou. “Quando costruiamo con il legno, non lo consideriamo un materiale non moderno. Ci sono quindi dei pregiudizi su alcuni materiali, e tra questi di sicuro c’è la terra. Ma a me non interessa affatto che siano moderni o no. Mi interessa che siano pratici. Si tratta di rispondere alle condizioni del luogo. Il clima, per esempio, è una di queste condizioni”.
Nell’Hikma community complex al restauro di vecchi edifici sono state aggiunte nuove strutture. Una moschea è stata ristrutturata e trasformata in biblioteca, con spazi per lo studio, aule e aree per laboratori nei giardini, ed è stata aggiunta una nuova moschea più grande. “La terra è utile come il legno o la pietra, ma non viene considerata. Perché? Forse abbiamo un complesso d’inferiorità radicato. Accettiamo le cose solo se hanno un valore in occidente”.
Realizzare i sogni
Il percorso di Issoufou per diventare un’architetta apprezzata al livello internazionale non è stato lineare. All’inizio voleva fare l’ingegnera informatica. Si è laureata nel 2001 in informatica applicata alle scienze dell’ingegneria alla Purdue university dell’Indiana, negli Stati Uniti, e nel 2004 ha preso la magistrale in informatica alla New York university.
“Sono cresciuta con l’idea di dover diventare una medica o un’avvocata. Perciò all’epoca, erano i tardi anni novanta, mi sono guardata intorno e ho cercato di capire quale potesse essere una carriera solida. Ecco perché ho studiato informatica, era il periodo dell’ascesa di internet”.
Dopo aver lavorato in ambito informatico per sette anni, ha deciso di diventare un’architetta per realizzare i sogni che aveva da bambina. Nel 2013 ha preso una laurea magistrale in architettura all’università di Washington. L’anno dopo ha fondato la Mariam Issoufou architects.
La sua carriera è decollata subito. Oltre a guidare uno studio di architettura con sedi in tre continenti, è anche docente di storia e tutela del patrimonio architettonico alla Eth Zurich in Svizzera, una delle scuole di architettura più prestigiose al mondo. Nel 2019 il New York Times l’ha nominata una delle quindici donne più creative della nostra epoca.
Al cuore della pratica di Issoufou c’è la profonda fiducia nella collaborazione e nella continuità: l’architettura non significa solo costruire strutture, ma anche mettere in piedi sistemi di sapere e opportunità in grado di sopravvivere al progetto in sé. Nel corso della ristrutturazione della vecchia moschea inclusa nell’Hikma community complex, ha convocato i muratori che avevano costruito l’edificio anni prima.
Invece di limitarsi a restaurare lo spazio riportandolo alle sue condizioni originarie, la nuova squadra ha insegnato ai muratori come lavorare con additivi per rinforzare i mattoni in argilla e alcune tecniche di protezione contro l’erosione, aggiornando la loro arte tradizionale. Era un approccio che non puntava alla salvaguardia fine a se stessa, ma alla crescita.
“Gli artigiani sanno già come fare quello che vogliamo che facciano”, spiega Issoufou. “Studiamo il loro sapere e poi progettiamo qualcosa di nuovo che porta avanti quelle competenze”.
Ricorda che un fabbro non aveva mai piegato tubi grossi di ferro in forme strutturali prima di allora. Quando si è trovato davanti al progetto di un mercato, ha deriso il modello e le ha chiesto se avesse preso l’idea da internet. Dopo aver testato insieme un prototipo, però, ha cambiato idea. Adesso è una delle due persone in Niger in grado di farlo e di conseguenza la sua attività è cresciuta. È un effetto domino. “Anche se un progetto si ferma, le competenze vanno avanti”, dice Issoufou. I suoi carpentieri sono stati poi chiamati a lavorare in Senegal e in Mali e i suoi mastri mattonai ricevono incarichi in tutto il mondo.
Il processo è importante tanto quanto il prodotto finale e le persone che hanno dato forma al progetto non sono trattate come elementi secondari, ma sono citate nelle pubblicazioni, nelle foto, nel racconto stesso del lavoro.
Per lei l’architettura non riguarda mai solo gli edifici, anzi. Ha a che fare soprattutto con le persone che li costruiscono, e cosa saranno capaci di fare in seguito.
Gli ultimi anni in Niger sono stati segnati dall’instabilità. Nel luglio 2023 un colpo di stato militare ha esautorato il presidente eletto democraticamente in uno dei vari golpe che hanno sconvolto la regione del Sahel. I confini sono stati chiusi, gli aiuti internazionali congelati e sono arrivate le sanzioni. Molti hanno avuto la sensazione che il futuro si fosse messo in pausa.
Tra i progetti fermi c’era un’opera culturale a Niamey progettata dallo studio di Issoufou, un’elegante composizione di torri ellittiche edificate in terra cruda, un progetto pensato per essere al tempo stesso un monumento civico e un punto di riferimento per la comunità. “È stato catastrofico per lo studio”, ammette Issoufou. “Stavamo per cominciare a costruire. Poi tutto si è fermato”.
Eppure la sua attività resiste. Mentre il progetto a Niamey è in pausa, lo studio ha portato avanti quelli in Senegal, Ghana, Benin e Liberia. Questa espansione regionale non è un caso. Issoufou ha progettato lo studio in modo da renderlo transcontinentale. “Nell’ultimo decennio, ma anche prima, abbiamo costruito un sistema di lavoro da remoto molto solido”, dice. “È un’eredità della mia formazione informatica. Significa che posso progettare, fare revisioni e stare in contatto con i miei collaboratori a prescindere da dove mi trovo”. Il suo impegno in Niger però resta saldo.
Una forma duratura
L’architettura di Issoufou sfida i pregiudizi. Radicata nel suo paese, ma proiettata verso l’esterno, propone una visione alternativa della modernità, che rende omaggio al passato non preservandolo come se fosse intrappolato nell’ambra, ma integrandolo in nuovi futuri. In un mondo che appiattisce la tradizione o la scarta all’inseguimento del progresso, gli edifici di Issoufou suggeriscono qualcosa di diverso: la capacità di ascoltare luoghi, persone e materiali spesso sottovalutati.
Forse è questo il radicalismo discreto al cuore della sua attività. Da Dandaji a Monrovia, dai mattoni di argilla alle torri ellittiche, la sua arte include una metodologia della cura. In tempi incerti, il suo lavoro ci ricorda che la vera modernità non nasce dalla cancellazione o dall’imitazione, ma dal coraggio d’immaginare la continuità. Il punto non è dove si costruisce, ma come e con chi. Ed è in questa immaginazione radicata a terra che la visione di Issoufou trova la sua forma più duratura. ◆ gim
◆ 1979 Nasce a Saint-Étienne, in Francia, ma cresce a Niamey, in Niger.
◆ 2001 Si laurea in informatica negli Stati Uniti.
◆ 2013 Lascia il lavoro e comincia a studiare architettura.
◆ 2014 Fonda il suo studio, il Mariam Issoufou architects.
◆ 2024 Vince due premi Global LafargeHolcim per l’architettura sostenibile.
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Questo articolo è uscito sul numero 1624 di Internazionale, a pagina 68. Compra questo numero | Abbonati