La famiglia di Lars Miguel Utsi vive da generazioni a Jokkmokk, nel nord della Svezia, dove l’allevamento di renne è uno stile di vita. Dove tanti vedrebbero solo una distesa di neve bianca a perdita d’occhio, Utsi percepisce il paesaggio nei minimi dettagli, riconoscendo le delicate caratteristiche del terreno ghiacciato così essenziali per il suo sostentamento.

I sami, l’unica popolazione indigena riconosciuta in Europa, vivono qui da migliaia di anni, e la loro lingua riflette un rapporto profondo con la terra. Le nove lingue sami ancora in uso hanno un ampio vocabolario per indicare la neve, da åppås, una neve invernale intatta e senza tracce, ad habllek, una neve leggera come l’aria e simile a polvere, passando per tjaevi, fiocchi che si attaccano l’uno all’altro e rendono difficile scavare nella neve.

La loro terminologia per descrivere le renne è ancora più elaborata e classifica gli animali in base a sesso, età, colore, fertilità, mansuetudine e altro ancora. Un reandi, per esempio, è un maschio con i palchi lunghi divergenti in alto, un ruvggáladat è una renna scappata dalla mandria, e una čearpmat-eadni è “una renna femmina che ha perso il cucciolo di quell’anno ma è accompagnata dal cucciolo dell’anno precedente”.

Ma i pastori di renne come Utsi hanno notato che la loro lingua sta scomparendo molto in fretta, di pari passo con il cambiamento del paesaggio. Il sami settentrionale è la sua lingua madre, però lui è consapevole delle lacune lasciate nel suo vocabolario da parole che non riescono a passare da una generazione all’altra.

“Quando parli con le persone più anziane ti accorgi che hanno un linguaggio più ricco. Hanno più parole per la natura, gli animali e soprattutto le renne. Sicuramente hanno più parole per la neve”, dice Utsi, che è stato presidente della commissione linguistica e vicepresidente del parlamento sami della Svezia. “Questo mi rattrista molto”.

Un vocabolo in particolare ci rivela cosa è in gioco: il termine sami settentrionale ealát, che secondo Utsi si può tradurre approssimativamente come “le condizioni ideali perché le renne trovino licheni da brucare”. È il genere di parola che resiste alla traduzione, un vocabolo complesso che sottintende la sintesi armoniosa di vari fattori: piante, neve, geografia, licheni e renne. Ma oggi “è sempre meno usato, perché non vediamo spesso queste condizioni”, spiega Utsi.

Jokkmokk è un importante centro di allevamento delle renne in Svezia. Si trova in Lapponia, chiamata Sápmi dai sami, una regione che comprende il nord della Norvegia, della Svezia, della Finlandia e dell’oblast’ di Murmansk, in Russia. La popolazione sami che la abita è particolarmente vulnerabile agli effetti del cambiamento climatico: secondo gli scienziati, l’Artico si sta riscaldando a una velocità quasi quattro volte superiore rispetto al resto del pianeta.

Nel corso dei secoli le renne si sono adattate alle difficili condizioni climatiche della regione, sviluppando zoccoli simili a pale che le aiutano a scavare per trovare licheni e piante nascoste sotto la neve. Ma con l’aumento delle temperature la pioggia sta diventando più frequente della neve, così il terreno gela e le renne non riescono più a scavare. Il disgelo precoce provoca inondazioni stagionali anomale che ostacolano gli spostamenti delle mandrie e distruggono le fonti di cibo. Diversi studi hanno riscontrato che nell’ultimo secolo gli habitat delle renne si sono ridotti del 70 per cento, anche a causa delle inondazioni dovute alle dighe per le centrali idroelettriche. Questi cambiamenti minacciano sia la fauna selvatica sia le pratiche culturali dell’allevamento di renne, che definiscono lo stile di vita dei sami da generazioni.

Una scuola nel villaggio iacuto di Iyengra, in Russia. La lingua iacuta è parlata da 450mila persone (Natalya Saprunova)

Ma gli allevatori sami combattono anche un’altra battaglia: quella per non perdere le loro lingue. Svezia e Finlandia hanno recentemente annunciato progetti per tagliare i finanziamenti al Sámi Giellagáldu, un organismo creato per salvaguardare e preservare le lingue sami. L’Unesco considera a rischio di estinzione tutte le nove lingue sami superstiti. Il sami settentrionale è il più diffuso, con almeno ventimila parlanti stimati, mentre l’ume sami potrebbe avere meno di cinquanta parlanti. Anche se le cause del loro declino sono complesse, la scomparsa delle parole sami riflette la più generale erosione del loro stile di vita. Gli allevatori di renne come Utsi si trovano letteralmente a corto di parole davanti al cambiamento del loro ambiente, e il futuro appare incerto: cosa resta quando cominciano a scomparire le cose per cui esistono le parole?

Le lingue sami sono state condizionate dal loro ambiente e dalla necessità di sopravvivere in condizioni estreme. Se dovessero scomparire, potrebbero andare perdute anche le profonde conoscenze e competenze tramandate di generazione in generazione.

Destini paralleli

Scienziati e linguisti hanno scoperto un collegamento sorprendente tra la biodiversità del mondo e le sue lingue. Le aree ricche di diversità biologica tendono ad avere anche una ricca diversità linguistica (un’alta concentrazione di lingue). Questo fenomeno non è stato ancora compreso fino in fondo, ma una forte correlazione geografica fa pensare che in realtà vari fattori ecologici, sociali e culturali influenzino entrambe le forme di diversità, che stanno declinando a ritmi allarmanti. Queste aree ad alta diversità sono spesso in prima linea anche nella crisi climatica. Dove stanno scomparendo piante e specie animali, anche lingue, dialetti ed espressioni uniche tendono a seguire un declino simile.

L’Artico non sarà famoso per la sua biodiversità come l’Amazzonia brasiliana o le foreste della Tanzania, ma svolge un ruolo cruciale nel regolare il clima della Terra e nel sostenere la vita sul nostro pianeta. Gli scienziati dicono che “quanto accade nell’Artico non resta nell’Artico”, e qualsiasi alterazione del suo habitat ha conseguenze di vasta portata per l’umanità.

L’ultimo chiodo

Le comunità indigene hanno un rapporto profondo con la terra che occupano da generazioni, e questo stretto legame si riflette nelle lingue che parlano: come descrivono il paesaggio e come esprimono le credenze e le usanze in cui si sono sviluppate. Quando il loro rapporto con la terra soffre, anche le lingue ne risentono.

Vanuatu, per esempio, un arcipelago del Pacifico sudoccidentale che ha la più alta densità linguistica del pianeta (110 lingue in poco più di 12.190 chilometri quadrati), ospita 138 specie vegetali e animali a rischio di estinzione. È anche particolarmente vulnerabile all’innalzamento del livello dei mari e ai disastri climatici. Gli scienziati ammoniscono che la crisi climatica è “l’ultimo chiodo nella bara” per molte lingue indigene, perché le comunità costiere sono costrette a spostarsi.

Tra il 1970 e il 2005 la diversità linguistica globale è diminuita di circa il 20 per cento

Quando non possono più fare affidamento sulla terra, le comunità possono essere costrette a emigrare in altre zone dove le loro lingue non sono parlate, perdendo non solo la propria lingua madre, ma tutta la saggezza che contiene. Alcune evidenze, inoltre, suggeriscono che quando una lingua comincia a declinare, per cause economiche o sociali, le persone smettono di prendersi cura della terra. E quando le lingue vengono abbandonate, si perdono anche le conoscenze ecologiche tradizionali che portano con sé.

Sempre più spesso le comunità indigene sottolineano l’indissolubile legame tra lingua e biodiversità a riprova del fatto che gli umani non sono separati dalla natura, ma ne costituiscono una parte integrante.

All’inizio degli anni novanta, mentre i biologi della conservazione lanciavano l’allarme sul preoccupante declino della biodiversità, la linguista Luisa Maffi stava studiando la perdita delle lingue nel mondo, e ipotizzò che le due tendenze fossero collegate. “Sono tutte forme di diversità della vita sulla Terra”, spiega Maffi. “Diversità nell’ambiente, ma anche nelle culture e nelle lingue umane. Sono interrelate, interconnesse e interdipendenti. Perciò quello che succede all’una influenza anche l’altra”.

Maffi non era stata l’unica ad arrivare a questa conclusione. Nel 1988 il primo congresso internazionale di etnobiologia a Belém, in Brasile, aveva dichiarato che “esiste un legame indissolubile tra diversità culturale e diversità biologica”. Nel 1995 Maffi conobbe David Harmon, un biologo che aveva raccolto dati su questa “crisi convergente di estinzione”, e insieme fondarono Terralingua. Questa organizzazione no profit si occupa della “diversità bioculturale”, un termine che hanno coniato per sottolineare che “biodiversità, diversità culturale e diversità linguistica sono tutte legate tra loro”.

In quegli anni i dati sulle lingue del mondo erano difficili da reperire. Una delle poche banche dati esaurienti era Ethnologue, che aveva cominciato a catalogare le lingue nel 1951. Le lingue cambiano rapidamente, e non tutti sono d’accordo su dove finisca una e cominci l’altra. Così Terralingua ha creato l’Indice della diversità linguistica, descritto come la “prima misura quantitativa delle tendenze che si manifestano nella diversità linguistica mondiale”. Stando a questo indice, tra il 1970 e il 2005 la diversità linguistica globale è diminuita di circa il 20 per cento, e le lingue indigene sono le più colpite. Se confrontati a quelli sulla biodiversità, questi dati rivelano un fenomeno sorprendente: le tendenze nella perdita linguistica rispecchiano strettamente il declino della biodiversità globale. Il Living planet index del Wwf ha riscontrato che nello stesso periodo le specie vegetali e animali si sono ridotte in media del 27 per cento.

L’indice della diversità linguistica di Terralingua si basa su un precedente lavoro di Harmon e Jonathan Loh, uno scienziato esperto di diversità biologica e culturale, che suggeriva l’esistenza di collegamenti tra lo stato della diversità linguistica mondiale e quello della biodiversità. Nel 2012 uno studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences ha mostrato che il 70 per cento delle lingue del mondo è concentrato nei punti di maggiore biodiversità o nelle aree naturali incontaminate. Sottolineava anche come molte di queste lingue siano indigene e a rischio di estinzione, osservando che il declino della diversità linguistica e quello della diversità biologica procedono parallelamente.

“Siamo riusciti a dimostrare che circa tre quarti delle lingue del pianeta sono parlati nelle regioni ad alta biodiversità, che rappresentano un quarto della superficie terrestre esclusa l’Antartide”, spiega Larry Gorenflo, coautore dello studio e professore di antropologia alla Pennsylvania state university.

La diversità linguistica, dice Gorenflo, può essere considerata un indicatore della diversità culturale, che è sempre stata più difficile da definire. “L’antropologia è stata a lungo considerata la scienza sociale che studia la cultura. Ma nessuno è mai riuscito a dare una definizione condivisa della cultura”, aggiunge. “Quindi usiamo la diversità linguistica per misurare la diversità culturale”.

Le ragioni esatte del collegamento tra lingue e natura non sono del tutto chiare, spiega Gorenflo. Alcuni studi hanno sostenuto che le aree più ricche di risorse favoriscono la diversità linguistica perché le persone devono adattarsi ad ambienti più complessi. Secondo altri, invece, la spiegazione è che la maggiore abbondanza di risorse implica minore probabilità di doverle condividere e comunicare con gruppi vicini nei momenti di bisogno. Altri ancora sostengono che le cause di questo rapporto sono molto più complesse e variano da regione a regione. Gorenflo sottolinea la necessità di ulteriori ricerche. “Comprendere questo rapporto è importante, perché cambierebbe il nostro modo di gestire la relazione tra indigeni, biodiversità e natura”.

Una bomba sul Louvre

I linguisti stimano che nel mondo esistano 8.324 lingue, di cui secondo Ethnologue 7.164 sono ancora parlate. Ma la loro diffusione rispetto alla popolazione mondiale è estremamente disomogenea: più della metà degli otto miliardi di abitanti del pianeta parla una delle 25 lingue più diffuse. Gran parte delle altre 7.139 hanno solo pochi parlanti. Circa la metà di tutte le lingue è parlata da comunità di diecimila persone o anche meno, mentre centinaia non hanno più di dieci parlanti.

Secondo il direttore esecutivo di Ethnologue, Gary Simmons, più o meno ogni quaranta giorni muore una lingua. Il linguista Kenneth Hale ha descritto la perdita di una lingua come l’equivalente di “sganciare una bomba sul Louvre”, per la cultura e la “ricchezza intellettuale” che vanno perdute. Si pensa che l’estinzione delle lingue sia destinata ad accelerare, perché i bambini smettono di impararle e gli anziani muoiono. La maggioranza delle lingue è svanita senza lasciare traccia, perché per gran parte della storia umana sono state esclusivamente orali. Eppure sono proprio le lingue in pericolo a rivelare la bellezza della diversità umana e la flessibilità della nostra mente. Alcune sono specializzate per parlare di erboristeria, astronomia o alghe marine.

Le lingue sono serbatoi di saggezza tramandata di generazione in generazione, e spesso questa saggezza è ecologica. Nelle lingue indigene del Canada occidentale e degli Stati Uniti esistono espressioni che indicano quando vanno raccolte le piante selvatiche. Gli aborigeni australiani definiscono le stagioni in base a segnali come la fioritura degli alberi, che a loro volta informano le tecniche per controllare gli incendi boschivi. I calendari sami hanno 13 mesi, e si basano sull’attività delle piante e degli animali nei vari periodi dell’anno, come miessemánnu (il mese dei cuccioli di renna) e borgemánnu (il mese della muta delle renne). Ma forse l’espressione lakota mitákuye oyás’iŋ, che significa sia “tutti i miei parenti” (umani e non) sia “tutto è collegato”, è quella che riflette meglio l’interconnessione tra esseri umani e natura.

Molte lingue a rischio di estinzione esprimono venerazione e rispetto per la natura e la consapevolezza dell’equilibrio da mantenere. “Per le comunità che hanno un legame intimo con l’ambiente locale, la terra è maestra. Devi imparare le lezioni della terra per sopravvivere e prosperare, e tutto questo, ovviamente, è codificato nel tuo sistema di valori, che si esprime attraverso la lingua”, mi ha detto Maffi. “Da nessuna parte troverai una filosofia che dica: ‘Prendi tutto quello che vuoi e al diavolo il futuro’”.

La straordinaria concentrazione di lingue nelle zone con la maggiore biodiversità, in particolare i tropici e le regioni equatoriali, si spiega in parte con il ruolo protettivo svolto da queste aree di natura incontaminata contro la colonizzazione. La morte delle lingue è stata spesso provocata dal colonialismo e, come sostiene Alfred Crosby in Ecological imperialism, i colonizzatori europei tendevano a preferire le zone temperate con terre pianeggianti e arabili, dove era più facile insediarsi e coltivare.

Le regioni tropicali, invece, ponevano sfide più impegnative, come le malattie a cui gli europei non erano immuni. Le aree isolate e difficilmente accessibili tendono ad avere più varietà di specie. “Le montagne e le isole hanno un’alta biodiversità. E se in quei luoghi gli spostamenti sono difficili, aumenta anche la diversità culturale”, dice Gorenflo.

Ma nelle regioni che riuscirono a colonizzare, gli europei si resero rapidamente conto che la lingua era cruciale per la loro missione. Per dominare a livello politico ed economico, le potenze colonizzatrici dovevano dominare anche a livello linguistico. Lo studioso spagnolo Antonio de Nebrija sottolineò l’importanza di compilare grammatiche e dizionari in castigliano, scrivendo nel 1492: “La lingua è sempre stata la compagna dell’impero”. All’inizio del novecento il colonialismo aveva già provocato la scomparsa del 20 per cento delle lingue indigene in Australia, Stati Uniti, Sudafrica e Argentina.

Cancellando le loro lingue madri, i colonizzatori disconnettevano le popolazioni locali da cultura, memoria, senso d’identità collettiva e dal loro rapporto con la terra che gli era stata strappata. “La lingua, qualunque lingua, ha un duplice carattere: è mezzo di comunicazione e allo stesso tempo portatrice di cultura”, ha scritto il romanziere keniano Ngũgĩ wa Thiong’o. Estirpando le lingue s’impediva anche la trasmissione del sapere alla generazione successiva. Una “colonizzazione della mente”, l’ha definita Ngũgĩ.

Oggi la perdita linguistica spesso è conseguenza di quello che nelle società industrializzate è considerato “progresso”: i matrimoni misti, l’insegnamento di lingue più diffuse e l’emigrazione in cerca di migliori opportunità. Quando i parlanti sono immersi in una nuova vita, le loro lingue non sono più usate nel contesto originale e può essere difficile preservarle.

La fortezza vuota

Paradossalmente l’idea che gli esseri umani sono distinti dalla natura è stata centrale anche nell’ideologia del conservazionismo. Nel 1919, durante un viaggio negli Stati Uniti, il re Alberto I del Belgio visitò tre parchi nazionali: Yellowstone, Yosemite e il Grand Canyon. Solo qualche anno prima il presidente Woodrow Wilson aveva firmato la legge che istituiva il National park service, chiamato a proteggere 35 parchi e monumenti nazionali. Ispirato da quello che aveva visto oltreoceano, nel 1925 Alberto decise di istituire un parco nel Congo belga, l’attuale Repubblica Democratica del Congo, dandogli il proprio nome. Oggi è conosciuto come Parco nazionale dei Virunga, ed è considerato la prima area protetta in Africa.

“Gli esseri umani sono una parte molto importante degli ecosistemi”

Il concetto di parco nazionale nacque da un movimento conservazionista del novecento, fondato sull’idea che l’ambiente dovrebbe essere separato e protetto da chi ci vive. Le autorità belghe sostennero che nel parco vivevano solo trecento persone, ma in realtà sgombrarono violentemente dalla zona migliaia di hutu e tutsi. Nel corso degli anni, la biodiversità del parco è stata minacciata da conflitti, deforestazione, bracconaggio ed estrazione di petrolio e gas, mentre il suo modello di conservazione a fortezza (ambienti tenuti isolati da ogni interferenza umana) è stato criticato perché impedisce alle popolazioni locali di accedere alle risorse.

Una cosa simile era successa qualche decennio prima nella valle oggi nota come Yosemite. Quando il naturalista John Muir la visitò, nel 1868, rimase incantato dal paesaggio mozzafiato, senza sapere che la sua bellezza era il risultato della gestione attenta degli ahwahneechee, una tribù mista di paiute settentrionali e miwok della Sierra Nevada del sud. Queste comunità parlavano lingue che esprimevano una profonda conoscenza delle piante e degli animali locali, ma erano state violentemente allontanate nel 1851 dal battaglione Mariposa, comandato da James Savage.

Dopo l’istituzione del parco nazionale, che si basava sull’idea di Muir di una natura incontaminata, il loro stile di vita fu sempre più limitato. Gli abitanti indigeni furono trasferiti in un villaggio, Indian Canyon, per poi essere definitivamente scacciati.

Oggi solo quattrocento persone parlano ancora la lingua paiute settentrionale, mentre la lingua miwok della Sierra Nevada del sud si è ridotta a una manciata di parlanti. Gli studi condotti da allora hanno dimostrato che la loro espulsione ha portato a un declino ecologico. Nel 1996 un rapporto del Sierra Nevada ecosystem project ha concluso che c’è “un ‘vuoto’ ecologico, o uno squilibrio, nella Sierra Nevada, dovuto all’allontanamento degli indigeni dalla gestione di questi ecosistemi”. L’espulsione delle comunità indigene, con le loro tecniche di gestione del territorio – spesso giustificata in nome della conservazione – ha probabilmente aggravato il degrado ambientale, come dimostrano gli incendi devastanti scoppiati nel gennaio 2025 a Los Angeles.

“Gli esseri umani sono una parte molto importante degli ecosistemi”, dice Gorenflo. “La perdita della lingua può portare a una perdita di biodiversità anche perché allontana le persone da molti comportamenti tradizionali, come la gestione del paesaggio”, spiega, aggiungendo che oggi sta crescendo la consapevolezza che i popoli indigeni e le comunità locali sono i migliori gestori delle loro terre. Naturalmente, la maggior parte delle terre indigene non è stata persa a causa dell’istituzione di parchi nazionali, ma dell’agricoltura intensiva e dell’urbanizzazione incontrollata. Nel deserto di Sonora, il declino di alberi come il mesquite e il pioppo ha avuto un forte impatto sulle cerimonie tradizionali delle comunità indigene yoeme. La conoscenza dell’ambiente locale è presente in molte delle loro canzoni, ma con l’urbanizzazione e la scomparsa delle piante, le canzoni perdono significato, e quindi non sono più trasmesse alle generazioni successive.

Maffi considera l’abbondanza di lingue, culture e biodiversità di una regione come elementi interdipendenti che si favoriscono a vicenda. Preservare le lingue del mondo, quindi, potrebbe essere considerato anche uno strumento essenziale nella lotta al cambiamento climatico.

Alle Hawaii la tartaruga verde, o honu, una specie a rischio di estinzione protetta a livello federale negli Stati Uniti, è sempre stata un simbolo della cultura locale, perché rappresenta saggezza, protezione e guida spirituale. Nelle credenze tradizionali hawaiane, la honu è un ‘aumakua, un dio personale o familiare, o un antenato divinizzato. Molti ‘aumakua sono animali, ma possono essere anche piante, una tradizione che riecheggia la concezione lakota secondo cui tutti gli esseri viventi sono “parenti”.

Allevatori di renne in una tenda vicino a Iyengra, in Russia (Natalya Saprunova)

Come queste tradizioni, anche la lingua hawaiana è essenziale per l’identità dell’isola. Ma nel novecento il loro declino è stato devastante: la popolazione delle honu è crollata a causa della pesca eccessiva, mentre la lingua hawaiana è quasi scomparsa in seguito a una legge che fino al 1987 aveva imposto l’inglese come lingua d’insegnamento in tutte le scuole pubbliche e private. Prima di allora gli studenti che parlavano hawaiano venivano puniti e umiliati.

Negli ultimi anni, però, lingua e tradizioni sono stati cruciali per la rinascita della cultura hawaiana. Da vent’anni la popolazione nidificante delle honu cresce del 5 per cento all’anno, e nello stesso periodo il numero di persone che parlano hawaiano è aumentato sensibilmente (da 1.500 nel 1980 a 18mila nel 2016), grazie a programmi per migliorare la padronanza della lingua tra le nuove generazioni. Biodiversità e lingua rappresentano la rinascita congiunta del patrimonio naturale e culturale delle Hawaii, ed entrambe svolgono un ruolo essenziale per riconnettere gli hawaiani alle loro tradizioni ancestrali.

Sull’isola giapponese di Okinoerabu, i parlanti dello shimamuni, una lingua considerata ad alto rischio, hanno avviato un progetto scolastico in cui i bambini si ritrovano ogni giorno per pulire la spiaggia cantando nella loro lingua e tenendo un diario. Oltre a essere più efficace dell’insegnamento in classe, usare la lingua in questo modo migliora la comunicazione sui problemi ambientali con gli anziani dell’isola, alcuni dei quali sono convinti che i rifiuti si degradino da soli.

Mentalità monolingue

Gli studiosi stimano che tra il 50 e il 90 per cento delle lingue mondiali potrebbe scomparire entro la fine del secolo, con gravi conseguenze per le comunità, la scienza e il patrimonio umano.

Il fatto che la probabilità di perdere la lingua madre aumenti con il numero di anni di istruzione indica che il declino è dovuto soprattutto a una mentalità monolingue. Anche se il multilinguismo è la condizione prevalente (circa il 60 per cento della popolazione mondiale parla più di una lingua), molti paesi si considerano stati-nazione monolingui, e parlare la stessa lingua è ritenuto cruciale per il senso di identità nazionale. “L’idea dell’unità e dell’uniformità non solo nazionale ma anche linguistica è nata con la nascita dello stato-nazione nell’era moderna”, spiega Maffi. “Dobbiamo opporci all’idea che il multilinguismo è il nemico”.

Per troppo tempo la narrazione comune è stata che la lingua dominante doveva sostituire quelle teoricamente meno “desiderabili” invece di coesistere con esse. L’idea che i bambini bilingui si confondano o abbiano difficoltà nell’apprendere più lingue contemporaneamente è un pregiudizio ampiamente smentito dalla ricerca. In realtà gli studi dimostrano i tanti benefici cognitivi del multilinguismo. Perciò, se le migliaia di lingue “minori” del mondo devono sopravvivere, è indispensabile e urgente adottare un approccio diverso, che abbandoni il monolinguismo come norma e riconosca che l’utilità di una lingua non dipende dal numero dei suoi parlanti.

Le lingue, come scrisse Ralph Waldo Emerson in Essere poeta, sono “archivi di storia”. Il linguista Nicholas Evans ha sostenuto che “ci raccontano qualcosa non solo sulla cognizione umana, ma anche sulla ricca trama delle esperienze umane nel corso dei millenni”. Perdendole rischiamo di perdere non solo una vasta parte della storia umana, ma anche la capacità di capire i diversi modi di vivere e di vedere il mondo.

Utsi, l’allevatore di renne, ricorda un’altra parola in sami che dimostra quanto questa lingua sia adatta al suo ambiente. “Guorban è un termine che significa ‘pascolo troppo sfruttato’, fino al punto che i licheni scompaiono. Quindi non devi guorbadit (far pascolare troppo), perché distruggeresti quel pascolo per la prossima generazione”, mi ha detto.

“Nelle lingue sami ci sono strutture che offrono una descrizione esatta di come usare la terra, cosa fare in certe condizioni, di cosa hanno bisogno le renne e cosa bisogna evitare per preservare gli ecosistemi. Abbiamo una terminologia che veicola l’uso attento delle risorse di cui abbiamo bisogno”.

Secondo Gorenflo i fattori che spiegano la correlazione tra diversità linguistica e biologica stanno diventando più chiari. “Vedo le lingue come un’estensione del sistema culturale, che a sua volta è parte dell’ecologia del mondo”, dice.

Preservare le lingue a rischio di estinzione non significa solo salvare le parole: potrebbe essere fondamentale per salvaguardare secoli di conoscenze umane e comprendere i sistemi da cui dipende la nostra esistenza. ◆ gc

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Questo articolo è uscito sul numero 1618 di Internazionale, a pagina 66. Compra questo numero | Abbonati