Prospect park a maggio è un fiorire di bellezza: prati e siepi, colline e vallate, il tutto ricoperto di aronia, lindera, violette, biancospini, magnolie e tigli. Davanti a questo splendore gli uccelli fanno un gran chiasso, come le persone. Ma nel maggio 2020 il parco newyorchese era più silenzioso del solito e quelli che lo attraversavano avevano un’aria preoccupata. Alcuni indossavano le mascherine, alcuni no. Di tanto in tanto qualcuno strillava perché qualcun altro si era avvicinato troppo. C’erano la paura di respirare l’aria comune e un disperato desiderio di quell’aria.
Attraverso questo scenario camminava velocemente Silvia Federici, 78 anni, una delle più influenti intellettuali femministe e socialiste dell’ultimo secolo. Aveva una sciarpa nera avvolta intorno al naso e alla bocca, e indossava un maglione azzurro che sua madre le aveva fatto molto tempo prima. Federici fa il giro di Prospect park almeno una volta al giorno, anche d’inverno, insieme al filosofo George Caffentzis, il suo compagno da 47 anni. Alcuni anni fa Caffentzis ha scoperto di avere il morbo di Parkinson, mi ha spiegato lei, e camminare lo aiuta a star meglio.
A maggio però Federici ha accettato per diversi giorni di fare una seconda passeggiata quotidiana insieme a me. Volevo incontrarla perché la pandemia e le sue conseguenze economiche, sociali e politiche avevano provocato una profusione di pensieri federiciani in luoghi nei quali non li avevo mai incontrati prima. All’improvviso, le idee e le frasi tratte dalle sue opere erano ovunque: sui social network, negli editoriali dei giornali e negli scambi con i miei amici, mentre ci si confrontava su quali lavori potessero essere considerati essenziali. Federici sostiene da tempo l’idea che le mansioni domestiche siano un lavoro non retribuito e all’inizio degli anni settanta è stata tra le fondatrici del movimento Wages for housework (salario per i lavori domestici). Pensa che sia una forma di oppressione economica e di sfruttamento di genere su cui poggia l’intero capitalismo.
Federici fa parte di un gruppo d’intellettuali che da decenni critica il fatto che le società capitaliste non riconoscono né supportano quello che lei chiama il “lavoro riproduttivo”. Usa questo termine per indicare non solo l’avere figli e crescerli, ma tutto il lavoro che permette a noi e agli altri di essere ben nutriti, al sicuro, puliti e curati. Comprende cose come diserbare il giardino, preparare la colazione o aiutare la nonna a fare il bagno, tutte attività essenziali che la nostra economia tende a non riconoscere. Questo, scrive Federici, è ingiusto. Idee simili non erano sconosciute prima della pandemia. Ma il femminismo tradizionale, per non parlare dell’economia o della politica, le ha per lo più ignorate. Ha preferito misurare l’emancipazione delle donne in base alla loro presenza e influenza nei posti di lavoro, che si ottiene esternalizzando a basso costo le attività domestiche e affidando l’assistenza all’infanzia a donne economicamente più svantaggiate. Anche così, le donne rimangono comunque impantanate nei lavori domestici.
Secondo turno
Oggi negli Stati Uniti si sente spesso parlare di “secondo turno” (espressione coniata nel 1989 dalla sociologa Arlie Hochschild) per descrivere il lavoro necessario a mandare avanti una casa e a prendersi cura dei figli, che spetta ancora in modo sproporzionato alle donne, anche se hanno un impiego a tempo pieno e pagano per avere un aiuto. Le persone pagate per fare i lavori domestici o di assistenza (come la cura degli anziani o le pulizie domestiche), inoltre, di solito sono mal retribuite e non hanno tutele. Questi lavori sono svolti principalmente da donne non bianche o immigrate, e questo non è certo un successo per il genere femminile.
Quando viveva a Buffalo, dove ha studiato, mangiava hot dog crudi direttamente dal pacchetto e patate che a malincuore bolliva
Negli ultimi anni vari esperti di politica ed economisti hanno sottolineato la follia di escludere il lavoro domestico dai criteri di misurazione economici come il pil, visto che i dati dimostrano che in ogni paese il lavoro femminile non retribuito costituisce una fetta enorme dell’attività economica. Nel 2020 l’ong Oxfam ha reso pubblici i risultati di una ricerca secondo la quale se le donne statunitensi avessero ricevuto un salario minimo per lavorare in casa e prendersi cura dei parenti, nel 2019 avrebbero guadagnato 1.500 miliardi di dollari. A livello globale, il valore di quel lavoro non pagato sarebbe stato quasi di undicimila miliardi. Questo non è l’unico aspetto dell’attuale sistema economico che non va. Il divario tra ricchi e poveri è ancora ampio quanto cento anni fa, con più lavoratori precari, a basso salario o soggetti ai capricci dell’economia. Man mano che crescono lo sfinimento e l’insicurezza causati da queste condizioni economiche, aumentano anche le persone convinte che la palude dei mali sociali statunitensi potrebbe essere riconducibile a un rapporto sbagliato con il lavoro. Quest’anno avrebbe potuto essere diverso se il lavoro che svolgiamo per prenderci cura gli uni degli altri, di noi stessi e del mondo che ci circonda fosse stato più apprezzato? Il futuro sarebbe diverso se, come suggerisce Federici, “ci rifiutassimo di basare la nostra vita sulla sofferenza degli altri”?
Sotto le bombe
La notorietà di Federici è aumentata dopo Occupy Wall street, il movimento nato nel 2011 che lei ha appoggiato, del quale ha scritto e che ha spinto una nuova generazione di femministe di sinistra a leggere le sue opere. Quando ci siamo incontrate, sembrava meno in preda al panico di tutte le altre persone che conosco. Mentre camminava verso di me attraverso il parco era determinata e vitale, sorridente dietro la mascherina. È magra, con i capelli grigi corti e ricci. Mentre avanzava, parlava velocemente, elencando le forme di vulnerabilità interconnesse che ci sono sempre state ma che ora stanno colpendo anche le persone che pensavano di esserne immuni.
Federici è nata “sotto le bombe”. Seconda figlia di un professore di filosofia di Parma, in tempo di guerra era stata, come sua madre le avrebbe confessato in seguito, una bambina non desiderata. “Sono nata a Parma nel 1942, uno degli anni peggiori della storia umana, credo”, mi ha detto. “A gennaio di quell’anno cominciò la soluzione finale”. Sua madre si addormentava vestita e si svegliava sotto un cielo rosso nel cuore della notte. A quel punto afferrava lei e sua sorella di quattro anni, e “correva correva correva” verso la periferia della città, per rifugiarsi nei campi dove poi si sarebbe accovacciata a terra con le bambine fino all’alba. Ridendo, Federici mi ha detto che questa esperienza le ha fatto desiderare di non avere mai figli: l’orrore di nascondersi nei campi con i bambini, i biberon, la terribile vulnerabilità del mondo. Dopo la seconda guerra mondiale Parma, a differenza di molte altre zone d’Italia, era una roccaforte comunista e durante la sua adolescenza Federici è stata influenzata dai movimenti sindacali e antifascisti. La politica di sinistra conviveva con la rigida cultura patriarcale della città. Suo padre, il professore, era “colui che sapeva”. Sua madre, che proveniva da una famiglia di contadini, “si presumeva che non sapesse”. Cucinava, puliva, faceva la spesa, si prendeva cura delle bambine. “Nessuno vede il mio lavoro”, diceva. Suo padre la prendeva in giro: “È perché non è un vero lavoro”.
Fino a dopo i trent’anni, Federici si rifiutò di avere a che fare con quello che era stata educata a considerare “lavoro femminile”, tutto quello che aveva fatto sua madre. Quando viveva a Buffalo, negli Stati Uniti, dove studiava per un master in fenomenologia, mangiava hot dog crudi direttamente dal pacchetto e patate che – a malincuore – bolliva. “Penso che mia madre percepisse la svalutazione del suo lavoro. Era un’attività che non prevedeva ricompense”. Federici le attribuisce il merito di averla introdotta per la prima volta alle idee che sarebbero diventate il lavoro della sua vita. “Sentivo sempre parlare e parlavo degli operai”, mi ha raccontato. “La classe operaia per me erano gli operai delle fabbriche. E mia madre mi diceva: ‘Parli sempre degli operai come se fossero le uniche persone che lavorano!’”, ha ripetuto battendo il pugno sulla panchina del parco dove eravamo sedute. “Lo diceva lei, non mio padre, che era il professore, l’intellettuale. È stata lei a raccontarmi le cose che poi sono diventate la mia politica. In termini sia di lavori domestici sia di lavoro agricolo, era lei che fondamentalmente diceva che il lavoro non è solo quello delle tute blu”.
La teoria politica di Federici prese completamente forma una decina di anni dopo, nel 1967, quando si trasferì a Buffalo con una borsa di studio. A ispirarla furono le proteste studentesche contro la guerra e il movimento per i diritti civili. Nel 1972 mise il femminismo al centro delle sue idee politiche, dopo che un’amica le girò un opuscolo in italiano della femminista Mariarosa Dalla Costa: Donne e sovversione sociale (la versione più conosciuta di questo saggio s’intitola Potere femminile e sovversione sociale ed è stata scritta da Dalla Costa e dall’attivista americana Selma James). Le autrici del saggio sostenevano che lavorando in casa senza retribuzione le donne costituivano una forza lavoro che il capitalismo sfruttava a scopo di lucro.
Per Federici quell’idea fu un’epifania: “Immediatamente tutto ebbe un senso”, mi ha detto. Le lamentele di sua madre perché solo gli operai delle fabbriche erano considerati veri lavoratori, la sua stessa repulsione per i lavori domestici, che non legava ancora al marxismo. Cominciò a frequentare un gruppo di femministe, tra cui Dalla Costa e James, che si definivano Collettivo femminista internazionale (Ifc). L’Ifc avviò la campagna Wages for housework (Salario per i lavori domestici) in Europa. Federici e la sua collaboratrice Nicole Cox fondarono il primo comitato statunitense a New York nel 1974, sotto la guida di James.
Deformati dai sorrisi
Il saggio di Federici Wages against housework (Salario contro lavoro domestico), pubblicato nel 1975, fu uno dei primi, appassionati manifesti del movimento e rimane uno dei suoi testi più noti. “Dire che vogliamo il salario per i lavori domestici significa denunciare il fatto che i lavori domestici sono già denaro per il capitale, che il capitale guadagna con la nostra cucina, i nostri sorrisi, i nostri rapporti sessuali”, scriveva. “Dimostra anche che nel corso degli anni abbiamo cucinato, sorriso, scopato non perché fosse più facile per noi, ma perché non avevamo altra scelta. I nostri volti sono ormai deformati da tutti quei sorrisi”.
Fin dall’inizio, la campagna Wages for housework dava una definizione ampia di chi apparteneva al movimento femminista. “Vogliamo e dobbiamo dire che siamo tutte casalinghe, siamo tutte prostitute e siamo tutte lesbiche. Perché, finché pensiamo di essere qualcosa di meglio, qualcosa di diverso da una casalinga, accettiamo la logica dei padroni, che è divisiva”, scriveva Federici. Il suo tono era quasi supplichevole quando sosteneva che la società doveva sbarazzarsi dell’idea che alcune persone sono naturalmente subordinate, che qualsiasi cosa può essere “fatta per amore”. “Vogliamo chiamare lavoro quello che è lavoro”, diceva, “per poter riscoprire cos’è l’amore”.
Il comitato di New York operava da un negozio di Park slope, a Brooklyn, dove si batteva per migliorare le condizioni di vita delle donne povere. Appoggiava la formazione di altri gruppi in tutto il paese e in Canada e lavorava a livello locale con le attiviste Margaret Prescod e Wilmette Brown, che lanciarono Black women for wages for housework. Organizzarono una campagna a sostegno degli attivisti per i servizi sociali, perché li consideravano il primo passo per chiedere al governo di retribuire le donne per i lavori di casa.
Ma dopo quattro anni la rete internazionale si frantumò. Il comitato di New York, tra gli altri, si sciolse dopo un litigio con James e Prescod, secondo le quali le priorità di Black women for wages for housework erano state ignorate. Federici lo nega e sostiene che il problema del gruppo era James.
Il libro più influente di Federici è arrivato quasi trent’anni dopo, nel 2004, con la pubblicazione di Caliban and the witch (Calibano e la strega, Mimesis 2020). Molte femministe anticapitaliste come Bell Hooks, Angela Davis, Wilmette Brown e il collettivo Combahee river avevano sostenuto fin dagli anni settanta che la lotta femminista era necessariamente una lotta anticapitalista, e che doveva prendere in considerazione anche il genere e l’appartenenza razziale perché il capitalismo opprimeva le donne, le persone non bianche e la classe operaia. Il contributo di Calibano e la strega a questa tradizione è stato far risalire queste forme di oppressione a un’unica fonte.
Morte alle streghe
Federici ha proposto una nuova teoria sulla transizione dal feudalesimo al capitalismo in Europa, raccogliendo prove storiche a dimostrazione del fatto che quello fu anche il momento in cui il lavoro delle donne passò sotto il controllo dei capi famiglia maschi e fu confinato alla sfera domestica. Le donne potevano partorire e allevare la forza lavoro; ma la loro autonomia, e soprattutto la loro capacità riproduttiva, doveva essere “delimitata”. Questa condizione doveva poi diventare “naturale”, come se la domesticità fosse il loro principale desiderio. Questa transizione fu violenta, sostiene Federici, citando le migliaia di donne uccise in quel periodo perché non si conformavano alla loro nuova ristretta realtà e accusate di essere streghe. “Come sistema socioeconomico, il capitalismo è necessariamente razzista e sessista”, scriveva Federici. “Perché deve giustificare le contraddizioni insite nelle sue relazioni sociali denigrando la ‘natura’ di coloro che sfrutta: le donne, i sudditi delle colonie, i discendenti degli schiavi, gli immigrati costretti dalla globalizzazione a lasciare il loro paese”.
“Troppo spesso la sinistra non si rende conto del potere delle comunità”, ha detto Federici in un’intervista del 2019
Federici sostiene che non è “naturale” che i tipi di lavoro che coinvolgono l’assistenza e il sostegno alla vita siano di competenza di un genere specifico. Non è neanche naturale o inevitabile che le persone siano soggiogate da un sistema economico di cui pochissimi beneficiano. Queste erano solo convenzioni utili alla nascita di un sistema economico ormai così onnicomprensivo che non osiamo più immaginarne uno diverso. È stato creato in questo modo per il profitto di qualcuno, sostiene Federici. Ma è una realtà che può essere modificata.
L’anno della peste
Quest’ultimo anno – l’anno della peste, l’anno delle elezioni negli Stati Uniti, l’anno orribile – è stato un periodo utile per prestare attenzione a chi trae profitto dal nostro sistema economico e a spese di chi. Nel 2020 più di settanta milioni di statunitensi hanno chiesto il sussidio di disoccupazione. La maggior parte di loro era impiegata nel settore dei servizi, dov’è più probabile che le lavoratrici siano donne non bianche. A perdere il posto e a rimanere disoccupati più a lungo sono stati i lavoratori a basso reddito. Allo stesso tempo, poco più della metà di quelli essenziali, che hanno continuato a lavorare fuori casa rischiando la salute, sono donne, e in modo sproporzionato donne non bianche.
Nell’ultimo anno 2,3 milioni di donne statunitensi hanno smesso di far parte della forza lavoro, spesso per prendersi cura dei figli quando le scuole e gli asili nido chiudevano. Per questo motivo, e perché ormai non sono più alla ricerca di un nuovo impiego, non sono conteggiate nelle statistiche sulla disoccupazione. Nell’ultimo anno, i miliardari americani hanno aggiunto più di mille miliardi di dollari alla loro ricchezza complessiva. Tutto questo mentre si discuteva in modo perverso su quali vite fosse accettabile sacrificare per salvare l’economia.
Non è certo sorprendente che ci sia un desiderio sempre maggiore di un sistema diverso, di una società meno refrattaria a tener conto della vita umana quando ostacola gli interessi di una classe dirigente ricca, bianca e spesso fatta di uomini.
“Non possiamo cambiare la nostra vita quotidiana senza cambiare le istituzioni e il sistema politico ed economico in base al quale sono strutturate”, scrive Federici nel suo libro Reincantare il mondo (Ombre corte 2018). Esistono esempi di come resistere a “un sistema che non dà valore alla nostra vita”, sostiene. Ci sono modi per ripristinare quel valore, per rimetterlo al posto che gli spetta.
Federici vive ancora a Park slope, dove è rimasta, a fasi alterne, dal 1970. Ha conosciuto George Caffentzis nel 1973, quando diventarono coinquilini. Nel giro di un anno stavano insieme. Fino a poco tempo fa, quando il Parkinson ha reso le cose più difficili, è stato lui a occuparsi della cucina. Solo ora Federici ha cominciato a far da mangiare, e le piace più di quando aveva vent’anni. Caffentzis ama cucinare, mi ha detto, e il suo piacere l’ha aiutata a considerarlo un compito meno gravoso. Ma continua a chiamare queste attività domestiche “riproduzione”. “Ora faccio più riproduzione che in passato. Prima avevamo una suddivisione più equa”.
La stessa agonia
Il loro appartamento è pieno di centinaia di libri, sugli scaffali ma anche impilati sotto il divano e il letto, ammucchiati negli angoli, perfino nascosti negli armadi della cucina tra i piatti. A 78 anni Federici è ancora molto attiva. Le domande che si fa, in un certo senso, sono le stesse che si faceva negli anni settanta: perché le critiche marxiste al capitalismo hanno trascurato i tipi di lavoro che non sono svolti in quello che generalmente consideriamo un posto di lavoro?
In una delle nostre passeggiate, Federici mi ha raccontato che per tre anni non ha scritto nulla. La madre anziana aveva bisogno di cure 24 ore su 24 e lei è andata a Parma per dare una mano a sua sorella. “Non poteva muoversi. Io e mia sorella la assistevamo tutto il giorno, e non bastava. Alle nove di sera, quando finalmente si addormentava, crollavamo”. Durante i 14 giorni di ricovero in ospedale, alla madre erano venute le piaghe da decubito. “Quello è un momento che non potrò mai dimenticare. Che disperazione. Ora cosa facciamo?”.
Nei giorni successivi, mentre lei e la sorella pulivano e medicavano le ferite, portavano avanti e indietro la madre dal divano perché non rimanesse sempre a letto, la nutrivano, la vestivano, le facevano il bagno, Federici pensava spesso all’assistenza sanitaria . “Se avessimo avuto una struttura comunitaria per aiutarci sarebbe stato diverso! Questa è una delle cose che ho sempre avuto in mente: sono qui in questo momento in questo paese e ci devono essere altre migliaia di donne come me che stanno vivendo la stessa agonia”. Federici si è girata verso di me e ha detto: “È davvero una questione di valore della vita. Cosa è prezioso? Quali sono le priorità? Penso che finché non parliamo di questo…”. Dopo la morte di sua madre, è tornata a casa e ha cominciato a scrivere di beni comuni.
◆ 1942 Nasce a Parma, figlia di un professore di filosofia e di una casalinga.
◆ 1967 Si trasferisce negli Stati Uniti per studiare filosofia all’università di Buffalo.
◆ 1972 È una delle fondatrici della campagna internazionale Wages for housework, che rivendica un salario per il lavoro domestico.
◆ 1987 Comincia a insegnare filosofia politica all’Hofstra college di Long Island, New York.
◆ 2004 Pubblica Calibano e la strega (Mimesis 2020), un saggio sul corpo femminile nel passaggio dal feudalesimo al capitalismo.
Negli ultimi dieci anni, Federici ha spostato la sua attenzione sulla necessità d’invertire il processo che ha diviso il mondo per favorire il profitto. Nel capitalismo, sostiene Federici, quasi tutto è diventato “recintato”: non solo le proprietà e le terre ma anche i nostri corpi, il nostro tempo, i nostri metodi di educazione, la nostra salute, i nostri rapporti, la nostra attenzione, la nostra mente. Durante la pandemia, come ha sottolineato a gennaio Francisco Cantú in un articolo del New Yorker citando Federici, la nostra capacità di parlare con le persone che amiamo è stata mediata e monetizzata dalle aziende tecnologiche. Il rimedio contro la recinzione, propone Federici, consiste nel trasportare sempre più il mondo in un bene comune.
I beni comuni includono le risorse (la terra, la conoscenza) che in genere sono al di fuori di qualsiasi tipo di mercato. Il commoning, la condivisione, è la messa in atto di quest’idea: significa spostare sempre più la vita fuori dai confini della mercificazione e dello sfruttamento. Il suo fascino consiste nel fatto che è realizzabile dovunque, se c’è una comunità disponibile: un lotto vuoto può diventare una fattoria di sussistenza, le necessità sanitarie di un quartiere possono essere soddisfatte con una clinica gestita dal quartiere stesso; il lavoro di cura può essere condiviso tra le famiglie.
I modelli di Federici per un commoning di successo nascono da una prospettiva internazionalista, e lei osserva che le comunità indigene sono spesso ideatrici e custodi di pratiche di commoning: cita i “difensori dell’acqua” in Amazzonia, il Movimento dei senza terra in Sudafrica, gli orti urbani in Ghana, le donne cilene che hanno messo in comune il mangiare e il lavoro per contrastare i programmi di austerità imposti dal governo. “Non sono le comunità più industrializzate ma le più coese che sono in grado di resistere e, in alcuni casi, d’invertire la tendenza alla privatizzazione”, scrive nel libro Patriarchy of the wage.
La protesta dei sioux
Uno degli esempi più istruttivi di commoning citati da Federici è la protesta dei nativi sioux contro la costruzione dell’oleodotto vicino alla riserva Standing Rock. Tra il 2016 e il 2017 i nativi e i loro alleati hanno costruito una rete di accampamenti che ha tenuto migliaia di manifestanti al sicuro, anche durante l’inverno; hanno creato delle scuole per i bambini, riconoscendo che se intere famiglie dovevano partecipare alla mobilitazione i bambini avrebbero avuto bisogno d’istruzione. Così sono stati in grado di sostenere e amplificare lo sforzo del movimento, ricevendo il sostegno internazionale, anche se la protesta è stata sgomberata dalle forze dell’ordine nel febbraio 2017.
Il commoning, scrive Federici, produce “un’esperienza potente come quella di essere parte di qualcosa di più grande delle nostre vite individuali, di dimorare su ‘questa terra dell’umanità’ non come estranei, come ci vuole il capitalismo rispetto agli spazi che occupiamo, ma sentendoci a casa nostra”.
“Troppo spesso la sinistra non si rende conto del potere delle comunità”, ha detto alla regista e scrittrice Astra Taylor in un’intervista del 2019. Quando immagina la possibilità di un mondo giusto, dice che l’azione trasformativa collettiva può accompagnarsi alla magia operata dalla natura, che si rigenera continuamente. In questo senso, continua a considerare Prospect park un esempio di creatività, possibilità e bellezza. Quando le ho chiesto, in un giorno buio del 2020, se qualcosa le stesse facendo sentire la magia del mondo, ha gridato: “Certo! Questo”. E agitando le mani in aria ha indicato gli alberi, gli uccelli, la terra della vicina aiuola che in quel momento veniva esaminata da un paio di bambini. I suoi occhi si sono socchiusi dietro la mascherina. “La creatività della natura. E delle persone. Sono entusiasta delle persone”. Allora sono scoppiata a ridere incredula, ma lei ha protestato: “C’è tanta bellezza, generosità, coraggio, mio dio. C’è ancora gioia, lo vedo, c’è ancora tanta bellezza in questo mondo. E spero che prevalga su quelli che vogliono solo controllarlo e distruggerlo”. ◆ bt
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Questo articolo è uscito sul numero 1405 di Internazionale, a pagina 72. Compra questo numero | Abbonati