Solo la luce fioca di una lampada illumina la stanza. Un braccio le regge la testa: il suo stesso braccio, che a sua volta poggia sul tavolo. Se non si reggesse la testa avrebbe l’impressione di poter crollare come una torre di cubi. La luce della lampada trema. Qui, nella sua stanza, hanno trascorso bei momenti insieme: risate, confessioni, baci. Cose che fanno due adolescenti innamorati. Ora lui è in una cella della caserma del quartiere. E lei, sgomenta per tutto quello che è successo, vuole scrivergli una lettera. Usa una penna che non regola bene l’inchiostro e non riesce a evitare le sbavature. Vuole scrivergli cose che si possono esprimere solo a voce altissima, con i sentimenti a fior di pelle e gli occhi spalancati: cose che non sa come mettere sulla carta.

Vuole dirgli che vorrebbe averlo vicino, di nuovo al suo fianco. Vuole assicurargli che si fida di lui, di quello che dice, delle spiegazioni che darà. Vuole stargli accanto in qualche modo. Ma sa che non può fare nulla, nemmeno andare di corsa a trovarlo, perché i giornalisti e le televisioni sono là fuori, in agguato. I mezzi d’informazione vogliono registrare la sua angoscia. Vogliono stampare la sua sagoma sulle loro pagine. Vogliono vedere il suo volto, quello di una ragazza rimasta al vertice di un triangolo finito nel sangue. Lei e tutti gli altri sono così giovani: aveva vent’anni il ragazzo che ha flirtato con lei e che ora è morto; ne ha diciassette il suo ragazzo, che è accusato del delitto. I due si sono presi a botte in una discoteca e lei, diciassette anni come il suo ragazzo, ha perso il filo di tutto. Ora regnano solo il dolore e la confusione. Il suo ragazzo dice di essere innocente e lei gli crede, ma molti dubitano di lui. Allora lei si barrica in camera. Presto comincerà a scrivere, spargendo qui e là macchie d’inchiostro, e alla fine, forse, riuscirà a riassumere tutto in un messaggio dotato di quella fermezza emotiva che in qualche modo vuole fargli arrivare. La luce della lampada è fioca e continua a vibrare, distorcendo le ombre.

Sono tre persone molto giovani. Forse a quell’età le tresche non sono un peccato imperdonabile, forse a quell’età niente lo è. O quasi. Uccidere lo è sempre

Avevo saputo del delitto quando era uscita la notizia in prima pagina sul Clarín, lunedì 29 dicembre 2003, il giorno dopo il fatto. Naturalmente non è che mi ricordassi la data, ma avevo ancora presente il clamore che aveva suscitato nella redazione di Rolling Stone, la rivista per cui scrivevo. Il dramma del triangolo era finito sulla prima pagina del giornale con il titolo “Giovane accoltellato a morte in una discoteca di Colegiales”. All’interno l’articolo raccontava una storia di periferia, come quelle che popolano certi tanghi lontani e oscuri: si diceva che la musica si era interrotta e le luci si erano riaccese verso le 4.50 del mattino nella discoteca El Teatro, dopo che un certo Cala aveva ucciso un certo Federico Medina. Sulla pista da ballo c’erano millecinquecento persone, ma quando la polizia era arrivata l’unica che importava davvero non c’era più: Cala era fuggito nella confusione generale. “I ragazzi si conoscevano perché andavano dietro alla stessa ragazza”, aveva dichiarato uno dei poliziotti al giornale. Anche lei aveva il suo soprannome, ma l’articolo non lo citava. Lo fece quello che uscì il giorno dopo: la chiamavano “la Pimpollo”, il bocciolo di rosa. “L’ha vista e ha provato ad avvicinarsi, ma si è accorto subito che c’era anche il ragazzo con cui lei stava da più di sette mesi”, diceva il nuovo articolo. Quel ragazzo era Cala, o Calavera. La lite tra i due era scoppiata quando la serata in discoteca era al suo massimo, e in pochi secondi cominciò a scorrere il sangue. “Il fidanzato della ragazza ha preso un coltello e ha pugnalato la vittima tre volte”, continuava l’articolo. Anche la ragazza era scomparsa prima dell’arrivo della polizia. Era rimasto solo il cugino di Federico Medina, che era andato a ballare con lui. Cala restò latitante per qualche ora, ma fu arrestato il giorno dopo. “È stato un delitto dettato dalla passione, dalla gelosia e dalla follia”, disse un investigatore intervistato.

In quel momento, con il giornale in mano e ancora turbato dall’omicidio, il mio capo a Rolling Stone pensò di mandarmi sul luogo del delitto per raccontare quella storia e conoscere meglio il contesto in cui era nata. Quell’anno la violenza aveva sconvolto in modo particolare le piste da ballo. Il 18 aprile un adolescente di nome Guido Anachuri era stato preso a calci da un buttafuori ed era rimasto in coma per dieci giorni; il 26 aprile Ariel Sciulli e tre amici erano stati aggrediti da una banda di quindici persone fuori da The Place, nel quartiere di Palermo; il 29 giugno Carlos Jaime era stato ucciso da un poliziotto nella discoteca Puerto Mega, nella provincia di Salta.

“Scopri tutto quello che puoi”, mi aveva detto il mio capo. “E poi trova una foto della Pimpollo, è quello il vero trofeo”. Non era un compito facile: la vicenda era ancora recente e le porte dell’inchiesta giudiziaria erano chiuse ai giornalisti. Non passò molto tempo prima che le audaci parole del mio capo cadessero nel dimenticatoio tra le mura della redazione, e io accantonassi l’argomento per dedicarmi a un’altra storia. Caso chiuso, dunque. Almeno per me.

Cinque anni dopo torno sulla vicenda per capire cosa sia successo davvero. Voglio mettere da parte i resoconti dei giornali e lasciare che siano loro stessi – i testimoni, gli amici, i protagonisti di quell’incubo – a raccontarmi come sono andate le cose. In realtà, è un evento atipico, perché sono tre persone molto giovani. Forse a quell’età le tresche non sono un peccato imperdonabile, forse a quell’età niente lo è. O quasi. Uccidere lo è sempre.

Comincio dall’inizio: contatto lo zio di Federico Medina. All’epoca aveva parlato con un giornalista che aveva avuto l’accortezza di scrivere bene il suo nome, un’informazione che ora diventa fondamentale per tornare alla carica. Lo chiamo e lui accetta di vedermi. M’invita a casa sua un giovedì sera alle undici. “Faccio il tassista, lavoro tutto il giorno”, si scusa. Non è un problema. A quell’ora la strada dove abita è disabitata, illuminata dai lampioni e dalle finestre che lasciano intravedere le famiglie che cenano. È a Villa Pueyrredón, un piccolo quartiere vicino a San Martín, nella parte nordoccidentale della città di Buenos Aires, tra altri due grandi quartieri: Villa Urquiza e Villa Devoto. A differenza di questi, Villa Pueyrredón ha solo qualche viale, nessuno dei quali troppo grande: avenida de los Constituyentes, che segna il confine settentrionale, avenida Nazca, che si restringe fino a somigliare a un vicolo, e avenida Mosconi, verso sud. Il quartiere non offre paesaggi o formicai urbani, solo case a schiera e taxi parcheggiati per strada. Lo zio di Federico, per esempio, lascia per strada il suo mezzo, una Renault 19, che mi aiuta a individuare il suo portone.

Suono il campanello. Lo zio apre la porta e m’invita a entrare. Non è solo. Dentro ci sono Alejandra, la madre di Federico Medina, che ha quarant’anni abbondanti e occhi stanchi segnati da un dolore straziante, a tratti rabbioso, e zia Lisy, che ha appena finito di cucinare. Tutti e tre sono riuniti attorno a un tavolino al centro della casa, evidentemente in attesa dell’arrivo del giornalista: del mio arrivo. Il computer e il televisore restano accesi mentre parliamo e loro ripercorrono prima i momenti più belli di Federico e poi anche gli ultimi. Manca Sebastián, suo cugino, che ha assistito alla lite e ha vissuto l’incubo di quella notte. “Non ne vuole parlare”, dice lo zio, “se gliene parli cambia argomento”. “Erano molto giovani quando è successo”, aggiunge Alejandra. “Sebas aveva 17 anni ed era appena arrivato dal Paraguay”.

Metà della famiglia è paraguaiana. Federico ha vissuto a pochi isolati da qui, a Villa Urquiza, fino a sette anni. Sua madre è figlia di un marinaio che passava lunghi periodi in mare e quando tornava, quasi senza mettere piede a terra, invitava tutta la famiglia a mangiare sulla barca. “Tutte le mie foto da bambina sono state scattate al porto”, ricorda Alejandra. Molti anni dopo quelle foto e i racconti del nonno avrebbero spinto Federico a pensare seriamente d’imbarcarsi. Alejandra aveva sposato un paraguaiano che viveva a Buenos Aires, un parente di Lisy. Nel 1991 la coppia aveva deciso di trasferirsi ad Asunción, portando con sé i figli Nicolás e Federico. Lì erano nate due bambine, le due sorelline di Federico, Athina e Agnese. Anche Sebastián, figlio di Lisy, ha vissuto in Paraguay fino alla fine delle superiori. Poi ha deciso di venire in Argentina.

Federico aveva un pregio e un difetto. Il primo: con il pallone tra i piedi faceva quel che voleva. Aveva un tatuaggio del Racing (aveva visto la squadra vincere l’indimenticabile campionato del 2001), giocava con il numero 10 ed era un fenomeno. In Paraguay aveva lasciato a bocca aperta i primi difensori che avevano provato a fermarlo. Giocava nelle giovanili dell’Olimpia, la squadra più importante del campionato. Ma aveva anche un difetto: era pigro. Una volta Cubillas, l’allenatore della prima squadra dell’Olimpia, si era presentato a vedere una casa che Alejandra aveva messo in vendita, e lei aveva colto l’occasione per chiedergli cosa fare con quel giovane campione vittima della pigrizia. “Fa’ così: non portarlo più agli allenamenti, lascia che venga per conto suo. Dammi retta. Se vuole giocare a calcio verrà agli allenamenti da solo, altrimenti no”, le disse Cubillas. L’allenamento cominciava alle due del pomeriggio, con il sole che cadeva a picco, insopportabile, inevitabile. “Il primo giorno che gli ho detto che non potevo accompagnarlo è rimasto a casa. E non ci è più andato”, dice ora Alejandra con amarezza.

Due ragazze camminavano lungo la spiaggia di Punta Iglesias, dove il faro non si vede più. La giornata era grigia, cominciava a fare freddo. Erano in vacanza, e visto che presto sarebbero tornate a scuola non volevano perdersi l’ultima possibilità di lasciare un’impronta dopo l’altra sulla sabbia bagnata.

Dopo aver camminato per un po’ scelsero un luogo appartato, stesero la loro coperta e si sedettero. Non erano sole come pensavano: a pochi metri di distanza c’erano dei ragazzi. Erano in tre, parlavano e le guardavano con la coda dell’occhio. Le ragazze non volevano saperne niente. Avevano già degli amici e anche dei mezzi fidanzati. Ma non riuscivano a fare a meno di guardarli di nascosto. A volte i loro sguardi s’incrociavano, e allora tutti abbassavano gli occhi. Ragazzi, materie scolastiche e scene di Nicolás Cabré in Gasoleros si confondevano nelle loro chiacchiere, finché non cominciarono a sentire freddo e decisero di andarsene e di guardarli per l’ultima volta.

Davide Bonazzi

“Te ne piaceva uno?”, chiese la più magrolina mentre camminavano. L’altra ridacchiava, e a quel punto si sentirono chiamare. “Yanina, Yanina!”, gridava uno dei ragazzi. Nessuna delle due si chiamava Yanina, ma si girarono lo stesso. Uno di loro prese l’iniziativa: “Sei Yanina?”, buttò lì. “No, sono Tati”, disse la ragazza magrolina. Il ragazzo, con i suoi brufoli e i riccioli al vento, sapeva di aver appena compiuto un piccolo grande passo: aveva rotto il ghiaccio. Non sembrava avere più di 15 anni, e l’ingenuità del suo approccio era sufficiente per scambiare qualche parola. Finì per invitarle in una sala di videogiochi che stava per aprire. Loro accettarono, anche se, a dire il vero, non erano molto convinte.

Federico aveva un pregio e un difetto, e non molto altro. Non aveva tempo per molto altro. Lavorava tutto il giorno. Quello che guadagnava serviva per aiutare a casa, mi raccontano Alejandra e gli zii. I suoi genitori si erano già separati e lui e i suoi fratelli erano tornati dal Paraguay con la madre. Aveva distribuito volantini per un parrucchiere, aveva lavorato come tuttofare per un fornaio e alla fine era entrato ad aiutare nell’attività di famiglia, il bar del circolo sociale e sportivo di Once, una delle ultime case da biliardo ancora attive, con i suoi tavoli di panno verde e i suoi vecchi maestri dalla voce roca. Nel salone, sotto la luce viziata dal fumo, riecheggiavano le confessioni di chi aveva buttato la vita giocando: “Per colpa del biliardo ho perso il lavoro, ho perso la fidanzata…”, sussurravano i fantasmi del circolo. È lì che Federico e suo cugino Sebastián erano diventati inseparabili.

Il cugino, che era venuto da Asunción per le vacanze e per vedere la madre (zia Lisy), era andato a lavorare insieme a Federico: dalle otto del mattino alle undici di sera preparavano caffè e panini. Quando avevano un po’ di tempo scappavano in un internet café a quattro isolati da casa. Lì bevevano un paio di birre seduti ai tavolini per strada, e chiedevano al gestore di mettere qualche pezzo che gli piaceva. Se erano i Bersuit, tanto meglio. Quello era uno dei loro passatempi. L’altro (non avevano molta scelta) era giocare a calcio. Giocavano in un campo coperto, dove si pagava un peso, o nei due campi di cemento della “Buenpa”, la chiesa evangelica del Buon Pastore, vicino alla stazione ferroviaria di Villa Pueyrredón. In quei campi potevano giocare gratis a condizione di non dire parolacce o fumare. Andare a ballare non era mai in programma: “Sarà andato a ballare due volte in vita sua”, ricorda la madre.

La Pimpollo andava ogni sabato alla discoteca di Colegiales. El Teatro era un’enorme sala che un tempo aveva ospitato commedie e tragedie, di quelle in cui quando cala il sipario il morto si alza. Nel dicembre 2003 il sabato c’era il doppio turno. Alle nove di sera si cominciava con i concerti rock. A mezzanotte la musica e il pubblico cambiavano. Le chitarre tacevano e arrivavano i successi degli anni ottanta, il rock nazionale, la cumbia e, man mano che la notte avanzava, anche la musica elettronica. Il dj cercava di creare un arcobaleno di suoni per i ragazzi della classe media dei quartieri del nord della città: venivano da Belgrano, Núñez, Saavedra e Coghlan. Era una discoteca alla moda, c’ero stato anch’io più di una volta. A maggio un adolescente di 18 anni di nome Adrián Capo era stato preso a pugni al volto e alle costole dai buttafuori, e quando era caduto a terra lo avevano preso anche a calci in testa. In seguito a quell’episodio El Teatro aveva chiuso per quindici giorni, senza per questo scoraggiare i frequentatori abituali: appena era stato possibile erano tornati in pista.

Era il territorio della Pimpollo e del suo ragazzo, Cala. Si vedevano con gli amici, ballavano, si divertivano. Anche loro erano inseparabili. Si erano conosciuti a scuola e nel giro di un mese si erano messi insieme. Qualche tempo dopo, la madre della Pimpollo aveva accettato che la figlia dormisse con il fidanzato. Era la ragazza più desiderata del quartiere. Quasi tutti i suoi amici, chi più chi meno, le tenevano gli occhi addosso. Non era una cosa facile da gestire per una persona possessiva come Cala. “A dire il vero, non ho mai visto un corpo come quello della Pimpollo. Mozzafiato. E poi aveva dei capelli bellissimi”, dice zia Lisy, come se fosse ancora abbagliata da quella bellezza. Quello che nessuno sa è dove trovarla ora, cinque anni dopo. È svanita nel nulla.

Davide Bonazzi

La zia ha parole insolite anche per descrivere Cala: “Aveva il volto di un angelo!”. I suoi tratti distintivi: ragazzo di classe media, figlio di professionisti, bravo nel taekwondo, collezionista di coltelli da campeggio. E geloso. Cala non prendeva alla leggera l’ammirazione che la sua ragazza suscitava negli altri. Federico si era messo in mezzo: frequentava la Pimpollo da un mese o da quindici giorni, a seconda di chi racconta la storia. Cala lo conosceva, ma non aveva idea di cosa stava succedendo. Forse aveva qualche sospetto.

“Cosa sapevi di lui prima della lite?”, chiedo a Sebastián quando arriva.

Il cugino di Federico, testimone del delitto, si è appena svegliato dalla sua pennichella ed entra in scena. Sa che qualcuno è venuto a fare delle domande e sembra che abbia deciso di parlare. Anche se la prima cosa che dice non aggiunge molto all’indagine.

“Niente. L’ho conosciuto quel giorno”, risponde.

Sebastián ha 22 anni, i capelli scompigliati, fuma ininterrottamente e parla con un forte accento paraguaiano. Racconta che le sue vacanze nel novembre 2003 erano finite quando si era trovato coinvolto in quel caso giudiziario. Al punto che alla fine aveva deciso di rimanere a vivere a Buenos Aires. Ora si sta preparando per entrare alla facoltà di medicina. Ha sostituito il lavoro di famiglia con i problemi di chimica, che sono quelli che risolve meglio.

Era il territorio della Pimpollo e del suo ragazzo, Cala. Si vedevano con gli amici, ballavano, si divertivano. Anche loro erano inseparabili. Si erano conosciuti a scuola e nel giro di un mese si erano messi insieme. Qualche tempo dopo, la madre della Pimpollo aveva accettato che la figlia dormisse con il fidanzato

Parla raramente della sera del 28 dicembre 2003. È stata la prima volta che ha visto morire qualcuno. Ci vuole molto tempo per capire cosa significhi una cosa del genere. Forse Sebastián ci sta ancora facendo i conti quando comincia il suo racconto: “Anche quel sabato avevamo lavorato, come al solito. Eravamo venuti da Once, avevamo lasciato Fede a casa sua ed eravamo arrivati qui. Fede si era fatto una doccia, poi era venuto a prendermi. Quando siamo entrati in discoteca abbiamo fatto un giro e abbiamo incontrato un amico, e poi la Pimpollo con un’altra ragazza e il suo ragazzo”. Sebastián dice che quando erano a pochi metri di distanza, con la musica molto alta e le luci stroboscopiche, era stato Federico a parlare per primo. Ma non ricorda bene. Resta in silenzio. Nella sua mente scorrono immagini terribili. Grida, un pugno inatteso, qualcuno che cade e si rialza, quattro coltellate, un breve inseguimento e la certezza di una morte assurda e orribile, immersa nel blu delle luci della polizia arrivata poco dopo.

Il mio cellulare squilla, ma non so chi mi sta chiamando: “Numero sconosciuto”, leggo sullo schermo. Penso e cerco senza successo d’indovinare chi sia. Quando rispondo, scopro con sorpresa che a chiamarmi è uno dei poliziotti che hanno indagato sul caso. Non vuole darmi troppe informazioni su di sé perché è ancora in servizio, ma accetta di fare una chiacchierata. È una chiamata interurbana e la voce va e viene, portando con sé un racconto teso e proibito. Il poliziotto oggi lavora in un’altra città, ma i chilometri non hanno cancellato i ricordi, anche se la sua versione dei fatti a volte sembra imprecisa. “È stata una questione di passione e un po’ colpa della ragazza”, dice. “Lei ha dato spago a tutti e due e poi è andata in discoteca, sapendo che ci sarebbero andati anche loro. Ovviamente non sapeva quali sarebbero state le conseguenze, avrà pensato che ci sarebbe stata una discussione per vedere chi era il più maschio dei due, e invece è finita com’è finita”.

“Cala aveva con sé il coltello o l’ha preso dal bancone, come ho letto su alcuni giornali?”, chiedo.

“Non è mai stato provato, ma sembra che l’avesse portato lui. Dopo potrebbe averlo gettato via, perché è rispuntato lontano dal luogo della lite. Forse se l’era portato nella scarpa. Non voglio immaginare troppo, ma ho sempre diffidato della ragazza”.

“La lite è avvenuta in mezzo alla pista da ballo?”.

Federico aveva un pregio e un difetto, e non molto altro. Non aveva tempo per molto altro. Lavorava tutto il giorno. Quello che guadagnava serviva per aiutare a casa

“Sì, mentre la gente ballava. Si sono visti, hanno fatto a pugni e questo ragazzo, che conosceva le arti marziali, l’ha accoltellato. Le ferite sono state mortali, capito? Non tutti riescono a uccidere qualcuno con un coltello, devi sapere dove colpire. Lui era un ragazzo normale, non molto alto o robusto. Credo che l’altro fosse più grosso e allora per compensare lui si è portato un’arma”.

“E dopo cos’è successo?”.

“L’aggressore se n’è andato. E anche la ragazza. Sono sicuro che è tornata a casa come se niente fosse. Dopo noi abbiamo individuato la casa in cui viveva, a Villa Pueyrredón. Abbiamo saputo che erano tutti minorenni, quindi li abbiamo tenuti d’occhio e a un certo punto abbiamo deciso di suonare il campanello. Quando abbiamo parlato con la madre ci ha detto che a casa c’era solo la figlia, ma non il fidanzato. Le ho spiegato i limiti che dovevo rispettare parlando con la ragazza, perché era minorenne, ma le ho detto che avrebbe potuto aiutarci a capire dove viveva il ragazzo, perché non avevamo nessuna informazione. Le ho detto: ‘Senta, c’è di mezzo un omicidio, è meglio che sua figlia non resti coinvolta’. A quel punto è stata la madre a dire alla ragazza di raccontare tutto”.

“L’aggressore si era fatto vivo?”.

“Il ragazzo è rimasto latitante per un giorno. Ho fatto irruzione nella casa del padre e lui non c’era. Si è dato a una fuga insensata, perché alla fine l’avremmo preso comunque. Ho cominciato a mandargli messaggi attraverso i suoi parenti, garantendogli che non gli sarebbe successo nulla. Poi domenica sera alle undici si è presentato in questura con il suo avvocato. A quel punto è scoppiato a piangere. Fino a quel momento aveva vissuto con l’adrenalina della morte addosso, poi è crollato”.

“Scopri tutto quello che puoi”, mi aveva detto il mio capo. “E poi trova una foto della Pimpollo, è quello il vero trofeo”. Non era un compito facile: la vicenda era ancora recente e le porte dell’inchiesta giudiziaria erano chiuse ai giornalisti

“Mi resta un dubbio: perché pensa che una ragazza avrebbe provocato un dramma così terribile?”.

“La Pimpollo era una ragazza molto sensuale per la sua età. È la parola giusta, sensuale. Quei due ragazzi se la contendevano. Capito? Li aveva fatti impazzire”.

Come avrei scoperto in seguito, il poliziotto non era l’unica persona che vedeva la Pimpollo di cattivo occhio.

I videogiochi erano stati noiosi, ma alla fine erano diventati amici e avevano inciso i loro nomi su un palo di legno sulla spiaggia di Punta Iglesias. Chissà, forse quei nomi ci sono ancora. “Tati, Marisol, Marianito, Jorge, Fede”, leggerebbe qualcuno se li trovasse. Era la classe del ’98. L’anno dopo si sarebbero aggiunti altri amici: Rosendo, che viveva a Mar del Plata, e Lala, cugina di Tati. Mancava Federico, che era tornato in Paraguay con la famiglia.

Tre estati dopo Tati e Lala avevano compiuto 18 anni ed erano andate in vacanza da sole al mare. Quando erano tornate Federico le stava aspettando a Buenos Aires. Era arrivato, e questa volta sarebbe rimasto. Rosendo era stato il primo a vederlo. Era arrivato da Mar del Plata e andato direttamente a casa sua. Da casa di Federico i due avevano chiamato Tati, che non abitava lontano e che si era precipitata da loro. Erano lì, di nuovo insieme, dandosi abbracci e baci per suggellare il momento in cui si erano ritrovati.

I pezzi del puzzle stanno lentamente tornando al loro posto per chiudere la trama della storia. Non è un puzzle con mille pezzi. È facile da ricomporre. Ma non è completo senza l’anello fondamentale, l’unico che manca: la Pimpollo

Dopo aver fatto merenda a casa di Federico erano andati tutti da Tati, dove si erano messi ad ascoltare un vecchio disco dei Bersuit Vergarabat, Y punto. Si erano entusiasmati quando era arrivata Un pacto e avevano deciso che sarebbe stata la loro canzone: “Un patto per vivere / odiandoci giorno dopo giorno / rimestando ancora / tra i resti di un amore / con una strada dritta / verso la disperazione / finale in un racconto di terrore”. Quella melodia coinvolgente aveva un testo che gli piaceva ma che non aveva un grande significato all’epoca, quando la Pimpollo non era ancora entrata nella vita di Federico. I tre si erano raccontati tutto quello che avevano fatto nell’ultimo anno ad Asunción, a Mar del Plata e a Buenos Aires. Avevano promesso di non separarsi più, anche se un paio di giorni dopo Rosendo era partito per la costa.

Quello che piaceva più di Federico a Tati e a sua cugina Lala era la capacità di entrare in contatto con la gente. Lui, il mago del pallone, era diventato il compagno di lezioni di Lala, una diligente studente di legge. A volte le ragazze lo trattavano come un fratello minore. Una volta gli tinsero i capelli di nero corvino. Quando scoprì che quel colore metteva in risalto i suoi occhi azzurri e la sua carnagione chiara, chiese che glielo facessero di nuovo.

Ma c’erano volte in cui cambiava ruolo e assumeva quello di fratello maggiore. Le ragazze ricordano ancora l’unica volta in cui andò a ballare con loro.

Avevano scelto una discoteca vicino a Puente Saavedra che a metà degli anni novanta si chiamava Margarita. Per convincere Federico dovettero praticamente chiederglielo in ginocchio. Andò con loro insieme ad altri amici delle ragazze, che cercavano a tutti i costi un’occasione di fare a botte nel locale. “Dove li avete pescati, non mi piacciono”, pensò mentre li guardava insultare, spintonare e dare calci a destra e a manca. Alla fine ottennero quello che cercavano, e quando arrivarono i pugni e i calci Federico afferrò le sue due amiche e le trascinò fuori di corsa. “Dopo ci diceva: ‘Vi ho portato via perché mi dovevo prendere cura di voi’”, raccontano ora. È uno dei ricordi più belli che gli sono rimasti. Ridono, e con il sorriso sulle labbra aggiungono: “Aveva paura! Non gli piaceva per niente fare a botte”.

I pezzi del puzzle stanno lentamente tornando al loro posto per chiudere la trama della storia. Non è un puzzle con mille pezzi. È facile da ricomporre. Ma non è completo senza l’anello fondamentale, l’unico che manca: la Pimpollo. La famiglia di Federico non la vede da tempo. La casa modesta ma ben tenuta dove abitava, in un vicolo dietro l’angolo della casa dei Medina, non è più la sua, e i nuovi proprietari non la conoscono nemmeno. Neanche nell’isolato si ricordano di lei. O non vogliono ricordarla. Qualcuno ha sentito dire che dopo il delitto aveva preso le sue cose ed era scappata a Rosario. Un altro dice che aveva trovato rifugio nella casa del padre, più a ovest. E poi c’è la lettera: alcune righe che la Pimpollo avrebbe dedicato al suo fidanzato Cala quando lui era già dietro le sbarre, per dirgli che all’inizio aveva dubitato della sua innocenza, ma che poi se n’era convinta. Avevo già sentito parlare di quella lettera. Anni prima, quando era successo tutto, avevo acoperto che esisteva davvero. Nel quartiere ricordavano l’episodio di quella lettera con una certa simpatia malintenzionata: deformavano i fatti, aggiungevano cose e riscrivevano il suo contenuto a ogni angolo. Subito dopo l’omicidio le dicerie erano inarrestabili.

Mangiando la pizza dal cartone, i tre ragazzi erano arrivati alla casa della Pimpollo e avevano suonato il campanello. Lei aveva aperto la porta e, con sorpresa degli altri due, Federico l’aveva guardata, aveva esitato e l’aveva salutata come una vecchia conoscenza

Si diceva che la Pimpollo avesse scritto anche un’altra lettera, stavolta a Federico, ma oggi pochi hanno il coraggio di sostenere che esista davvero. In ogni caso, tutte le versioni lasciano più domande che certezze: la Pimpollo aveva scagionato il fidanzato dalla colpa? Perché lo aveva perdonato? Com’era possibile non vedere quello che era successo sotto i suoi occhi? L’unica cosa certa era che, dopo il finale mortale, tutto si era rivoltato contro di lei. Come una maledizione troppo pesante per una ragazza di 17 anni.

Sebastián, il cugino di Federico, potrebbe chiarire un po’ le cose. Ma per farlo dobbiamo ristabilire la catena degli eventi. Sapere cos’è successo. Lui accetta di ricordare. L’incontro avviene di sabato, dopo le quattro del pomeriggio, a casa sua. Il ragazzo si è appena alzato, è solo. “Ho giocato alla PlayStation con un amico e ho bevuto”, mi dice quando apre la porta. M’invita a entrare, si passa una mano tra i capelli arruffati per confermare che non c’è modo di sistemarli e silenzia la televisione, che sta trasmettendo una sit com. Poi si siede e accende una sigaretta con il suo Zippo. “Successe tutto molto in fretta. Conobbi la Pimpollo la sera del 24 dicembre, e il 28 Fede era morto”, mi racconta.

Il primo ricordo che Sebastián ha della Pimpollo è di lei che si presenta alle dieci di sera del 24 dicembre proprio in questa casa. Voleva salutare Federico, che per un attimo aveva lasciato la cena ed era uscito a parlare con lei sottovoce. La tavola era piena di piatti, con le pietanze preparate per la cena e qualche avanzo dei giorni precedenti. Lo zio stava lavorando. Sebastián e sua madre conoscevano la ragazza, di cui Federico gli aveva parlato qualche volta. Era arrivata in bicicletta, facendo per la prima volta il giro dell’isolato sul regalo che Cala le aveva appena fatto. Lui l’aspettava a casa, lì vicino, senza sapere che era con Federico.

La visita fu breve, ma più tardi, dopo che pochi fuochi d’artificio avevano attraversato il cielo stellato di Villa Pueyrredón, si erano rivisti. Federico e Sebastián avevano portato in strada due sgabelli e le casse del computer. Mettevano a ripetizione i Bersuit, ma poi erano passati a Calamaro. E la Pimpollo tornò. Arrivò su una moto Ninja guidata da un tizio che non conoscevano. Insieme a loro c’era la sua amica Sonia, una bionda filiforme che viveva lì davanti, che se ne andò subito. Stapparono una, due, tre birre. Poi salutarono e andarono a dormire.

Il 25 dicembre Federico e Sebastián si ritrovarono con gli amici del quartiere per giocare a calcio. Federico dribblava e faceva passaggi precisi. Suo cugino, invece, rimaneva vicino alla porta avversaria, aspettando un passaggio per segnare un gol facile. La sera rividero le ragazze. Si stava formando un gruppetto di due e due, o almeno così sembrava a Federico. Andarono a mangiare da He-A, una pizzeria economica. Ordinarono due pizze, bevvero un po’ di birra, chiacchierarono. Ognuno di loro stava valutando quanto gli piaceva la ragazza che gli era toccata, e Sebastián non era sicuro di aver avuto la mano migliore. Dopo la pizza si fermarono in un internet café per comprare le sigarette. Per non doversi separare dalla Pimpollo, Federico invitò tutti a casa sua.

Davide Bonazzi

Il 26 dicembre è il giorno in cui il pericolo diventò imminente. La Pimpollo e Federico s’incontrarono e lei gli raccontò che la sera prima era arrivata a casa tardi e Cala era in salotto ad aspettarla, con lo sguardo torvo. Era stufo di vederla sparire. “L’ammazzo, l’ammazzo!”, cominciò a gridare Federico quando scoprì che Cala l’aveva picchiata. Il livido viola era lì, sulla gamba della Pimpollo. “Come ha potuto farle questo?”, disse poi al cugino. Gli disse che l’avrebbe picchiato a sangue. “Il fatto che fosse fidanzata non lo disturbava. Sapeva che le cose stavano così. A mandarlo in bestia fu quel livido”, racconta Sebastián. Mancavano poco più di ventiquattr’ore perché Federico e Cala si trovassero faccia a faccia. Un tempo troppo breve per dimenticarsi di quella faccenda.

Durante una notte con un cielo senza stelle, tra il rumore di motori lontani, Federico continuò a pensare a quanto le cose fossero diventate delicate, a cosa fare, a lei. Era sabato 27 dicembre. Ancora una volta la sveglia suonò alle sette del mattino. Lui si sarebbe alzato, si sarebbe vestito in fretta e sarebbe uscito per andare a Once. Sarebbe arrivato al bar, avrebbe fatto la spesa, avrebbe lavato, cucinato, messo in ordine. Una giornata come tante: lunga, tranquilla, a guardare il tempo che passa. A un certo punto non ce la fece più e chiese alla zia Lisy il permesso di andarsene. Federico arrivò a casa alle undici di sera. Si lavò e si vestì, con l’ansia di uscire. Il vicino di casa gli chiese se voleva bersi una birra con lui, ma Federico disse che aveva già degli impegni. Non lo disse ad alta voce, ma sapeva che la Pimpollo sarebbe andata alla discoteca El Teatro come ogni sabato, e lui voleva essere lì per rivederla e occuparsi del fidanzato. Dalla sua stanza, la madre sentì il dialogo con il vicino e pensò che sarebbe stato meglio se fosse rimasto a casa. “Perché non te ne vai a letto? È tardi e hai lavorato tutto il giorno”, gli disse. “Vado a ballare”, rispose lui laconicamente, e a lei scappò una mezza risata: “E da quando ti piace andare a ballare?”. Allora lui si affacciò in casa e disse, molto seriamente: “No, non mi piace. Ma devo andare”.

I minuti stavano per esaurirsi: i granelli cadevano nella clessidra che segna l’ora degli eventi. I cugini s’incontrarono da Sebastián e da lì andarono verso la casa della Pimpollo. Volevano avere la conferma che quella sera lei sarebbe andata a ballare. Lei uscì e disse di sì, ma con il suo ragazzo. “Noi andiamo comunque, non c’è problema”, risposero loro. La Pimpollo rientrò a casa per scegliere il top e i jeans da indossare in compagnia di Cala e della sua amica Sonia, che sarebbe andata con lei. Com’è bella, pensò Federico, mentre tornavano a casa a raccattare un po’ di soldi.

All’una e mezza di notte presero il 168, un autobus che passa all’angolo della discoteca. L’ingresso era pieno di gente. Federico era allergico alle discoteche. Ma questa volta avrebbe fatto uno sforzo.

Con ansia e un’improvvisa paura (“E ora cosa faccio se non viene?”) si mise in fondo alla coda, disposto ad aspettare per entrare. La fila raggiungeva l’angolo e girava in avenida Álvarez Thomas, e lì c’era la Pimpollo, in lontananza, che attraversava la strada. Federico la vide. Era venuta, non aveva mentito. Pochi minuti dopo i cugini entrarono. Fecero un giro, si fecero la birra inclusa nel biglietto e poi incontrarono un amico, un altro di quelli che giocavano a calcio. Dopo si avvicinarono lentamente verso il fondo del locale, dove videro la Pimpollo, il suo ragazzo e i loro amici. “Fede pensava solo ad affrontarlo, era su di giri”, mi racconta Sebastián. “Quasi non parlava, voleva prenderlo a botte”.

Lo fece senza preavviso. Erano circa le 4.40 del mattino e l’attesa era finita. Qualcuno doveva farlo, e lui l’avrebbe fatto. Sebastián ricorda ancora come rimase sorpreso nel vedere il cugino ruotare spavaldamente verso Cala e gridargli qualcosa che il rumore della discoteca non fece sentire a nessuno, tranne che a loro due: “Picchi le donne? Vediamo se hai il coraggio di picchiare un uomo!”, potrebbe aver detto Federico, pensa il cugino. Era il tuono che precedeva il primo pugno, dritto alla bocca. Cala finì a terra e trascinò con sé un paio di persone. Il suo stordimento non durò a lungo e contrattaccò. Doveva trovare la calma in mezzo alla musica, alle luci e alla sorpresa. Federico tornò alla carica, ma stavolta Cala riuscì a rendergli il pugno. Attorno a loro si formò subito un cerchio. La Pimpollo, che all’inizio aveva provato a evitare lo scontro mettendosi in mezzo, fu colpita e finì a terra. Il terzo attacco fu l’ultimo: Federico affondò e Cala lo affrontò con le braccia vicine al corpo. Entrambi ne uscirono frastornati, Federico finì contro la folla che li circondava. Si rialzò per continuare, ma vide Cala scappare. “Gli corsi dietro per una quindicina di passi”, racconta Sebastián, “ma poi il nostro amico mi prese e mi portò via, perché c’erano altri ragazzi che ci stavano venendo a cercare”.

Tre estati dopo Tati e Lala avevano compiuto 18 anni ed erano andate in vacanza da sole al mare. Quando erano tornate Federico le stava aspettando a Buenos Aires

Non lo sapevano ancora, ma Federico era già stato ferito. Aveva ricevuto quattro coltellate così velocemente che nessuno se n’era reso conto. Nessuno aveva notato un coltello nelle mani di Cala. Sebastián impiegò un po’ a farsi largo tra la folla, facendo un giro più lungo per uscire verso la biglietteria. “Lì vedemmo una persona a terra circondata dalla gente. Pensavamo che si trattasse di qualche ragazza ubriaca. E poi riconobbi Fede”. Era a terra, con il petto coperto di sangue. Sebastián restò senza parole. Gli addetti alla sicurezza avevano preso Federico e l’avevano lasciato per strada, forse per far credere che la lite fosse avvenuta all’esterno, senza rendersi conto che la scia rossa indicava chiaramente dove si erano svolti i fatti. Sebastián si accovacciò accanto al cugino e cercò di aiutarlo, ma invano. Poi arrivò la Pimpollo. Piangeva disperata. “Amore mio, cosa succede, cos’hai?”, gridava ancora mentre un’amica la portava via. L’ambulanza ci mise un po’ ad arrivare e trovò Sebastián che prendeva a pugni i muri con rabbia e impotenza.

Ecco com’erano andate le cose. Troppo veloci per un finale così cruento. “Andò così”, dice con rassegnazione il cugino, armeggiando con lo Zippo. Poi prende il telefono, parla con un amico, chiede il numero di una ragazza, la chiama e le chiede dov’è il fratello. “Ti metto in contatto con Coco, è lui che presentò Fede alla Pimpollo, magari sa dove si trova”, dice. Mi detta un indirizzo e subito ci andiamo insieme, affrontando il vento di una serata autunnale.

Facciamo sei isolati, attraversando i binari, per trovare un ragazzo in pantaloncini e maglietta del Boca che fa due palleggi con un pallone mezzo scucito. “Vi stavo aspettando, mi ha avvisato mia sorella”, dice il ragazzo, che non è molto alto e ha la barba di un paio di giorni. Coco dice di essere appena tornato da una partita di calcio e c’invita in casa. All’interno, un giro di mate accompagna il suo racconto, che apre le porte di un angolo di mondo in cui s’incrociano il Club Comunicaciones, la discoteca e le partite al Buenpa. “Fede aveva due gambe magiche”, mi racconta con nostalgia. Il calcio attraversava le loro vite. Si erano conosciuti nel campo del Buenpa ed è stato lì che Coco seppe della morte dell’amico. Funziona così nel profondo del quartiere, dove i ragazzi sono dei furbetti, dei fannulloni o degli imprudenti; giocano a pallone con epica, e la sera vanno nelle discoteche di Colegiales. “Fede lo ammiravamo tutti: trovava il tempo per lavorare e contribuire a mandare avanti la famiglia, ma anche per giocare a pallone e stare con gli amici. Non gli importava di dormire solo tre ore”, continua Coco, e mi mostra un tatuaggio sulla caviglia, una F gotica in onore del suo amico.

Era stato Coco a presentare Federico alla Pimpollo un giorno in cui si erano trovati all’uscita di Pizza Cross, un’altra delle pizzerie economiche di Villa Pueyrredón. Coco era con un amico, e siccome stavano andando a casa della Pimpollo avevano invitato anche Federico. “Per tutti noi la più bella è sempre stata la Pimpollo, e volevamo presentare a Fede una che ci facesse fare bella figura. Quando si tratta di un amico, se è una fregatura dopo ti vuoi ammazzare”, mi dice Coco mentre prepara un altro mate.

Mangiando la pizza dal cartone, i tre ragazzi erano arrivati alla casa della Pimpollo e avevano suonato il campanello. Lei aveva aperto la porta e, con sorpresa degli altri due, Federico l’aveva guardata, aveva esitato e l’aveva salutata come una vecchia conoscenza: era l’amica di una ragazza con cui era uscito molto tempo prima, e non si vedevano da un bel po’. “All’epoca non erano riusciti a frequentarsi più di tanto, ma quella volta era diverso”, ricorda Coco. “Io e il mio amico siamo rimasti in salotto a mangiare la pizza e loro due sono andati in camera da letto. Abbiamo finito di mangiare, ci siamo fumati una sigaretta e siamo usciti. Fede è rimasto. È bastato un attimo”. Bella storia.

“Picchi le donne? Vediamo se hai il coraggio di picchiare un uomo!”, potrebbe aver detto Federico, pensa il cugino. Era il tuono che precedeva il primo pugno, dritto alla bocca

“Adesso la Pimpollo dov’è?”, chiedo.

“Nel quartiere. Ogni tanto la incontro, ma non le do molta corda. Per me la colpa di tutto quello che è successo è sua, anche più che di Cala”. Di nuovo l’accusa contro la Pimpollo. “Sono in tanti a pensare che sia stata lei a mettere su tutto questo casino, senza rendersi conto di quello che poteva succedere. Per me sono colpevoli entrambi: una per aver organizzato un gran casino e l’altro per averlo fatto”.

“Come posso trovarla?”.

“Ho un’amica in comune con lei, la Tigre. Te la presento”.

Un paio di giorni dopo capisco perché la chiamano così: ha una pupilla leggermente allungata, o forse è una colorazione in un punto insolito dell’iride. C’incontriamo tutti e tre, anche con Coco. Lei si è appena fatta un tatuaggio e vuole tornare a casa. Resta il tempo necessario perché le spieghi che vorrei parlare con la Pimpollo per capire cosa successe quella notte. “Immagino che la tua amica non voglia parlarne, ma dille che se non racconta la sua versione gli altri lo faranno per lei”, dico, citando una frase che ho letto da qualche parte. Però non sono convinto di riuscire nel mio intento, anche con tutte le parole del mondo.

Davide Bonazzi

Jorge Damonte è un tipo che non ha perso la sua anima di strada con la laurea. Ogni mattina si pettina i capelli bianchi e si appende una sigaretta alla bocca prima di andare per i tribunali di Comodoro Py e Talcahuano. Spesso in passato ha difeso chi sedeva sul banco degli imputati, ma quindici giorni prima dell’inizio del processo di Cala, due anni dopo l’omicidio, aveva accettato di essere l’accusa. Quando la madre di Federico gli aveva parlato della storia del figlio, non ne era rimasto sorpreso. “La vita non ha più valore”, aveva commentato. Nonostante tutto, Damonte seguiva gli insegnamenti del padre, un oculista che faceva pagare a caro prezzo le visite ai pazienti per compensare le cure gratuite che dispensava agli abitanti più poveri del quartiere. Damonte non fece pagare nulla alla famiglia Medina.

Il processo si è chiuso con una condanna. Per il tribunale minorile che lo ha giudicato, Cala era il responsabile penale del reato di omicidio: per dirla in modo più chiaro e realistico, l’assassino. Lui aveva negato di aver ucciso Federico. Sosteneva che nel bel mezzo della lite, mentre era a terra, qualcuno lo aveva afferrato e spinto indietro. Si era ritrovato così lontano che aveva deciso di andarsene dalla discoteca, e aveva scoperto l’omicidio solo a casa della Pimpollo, al suo rientro.

“La novità di questo caso è che i giudici hanno emesso la sentenza in base al principio del libero convincimento”, mi dice Damonte nel suo studio, un locale con una vetrata che dà sulla strada a Caballito. Tra lui e me ci sono due caffè. Dietro di lui, una biblioteca piena di libri di diritto. L’avvocato continua: “Cosa s’intende con questo? È la logica sommata all’esperienza. I giudici possono condannare o assolvere una persona in base a ciò che deducono nel corso del dibattimento, al di là delle prove. In questo caso, l’arma del delitto non è stata trovata. Nessun testimone ha visto l’imputato estrarre uno strumento tagliente per ferire Medina. Ma sulla base delle circostanze emerse nel corso del dibattito, il tribunale ha stabilito che questo ragazzo era colpevole”.

Cala avrebbe compiuto 18 anni pochi giorni dopo l’omicidio e per questo è stato processato in base alla legge sui minori. È stato detenuto nell’istituto Agote e, dopo un anno e qualche mese, gli sono state concesse delle licenze per uscire. Quando ha compiuto 21 anni i giudici hanno valutato i suoi precedenti e l’esito del trattamento tutelare, e hanno deciso di non applicare nuove sanzioni, seguendo il regime penale dei minori. Cala continua a negare di aver ucciso Federico, ma il pubblico ministero ha chiesto che gli fossero inflitti altri sei anni di carcere. Il tribunale ha stabilito che la pena è già stata scontata.

Un anno prima (o forse due, nessuno è d’accordo sulla data), prima che Coco decidesse di presentarli, le strade di Federico e della Pimpollo si erano già incrociate. Lei lavorava in un internet café e lui aveva cominciato ad andarci per cercare foto del Racing. Si era accorto di lei solo quando Ro, la sua ragazza, li aveva presentati. A quel punto Federico aveva cominciato ad andare più spesso al locale. Se c’era qualcuno a cui doveva parlare della sua scoperta, questa era Tati, che si era guadagnata il posto di migliore amica e confidente di Federico. Questa nuova ragazza lo stava facendo impazzire. Alta, scura, sinuosa. Lei, che attirava l’attenzione di tutti, per qualche strana ragione si stava lentamente accorgendo di lui. Forse per i suoi occhi azzurri? O era solo attratta dalla sua simpatia? In ogni caso la storia presentava un conflitto: la Pimpollo era amica di Ro, non era il momento di abbordarla. Federico raccontava a Tati quanta voglia avesse di provarci con lei. All’improvviso non gli interessava più niente del Racing.

Per il tribunale minorile che lo ha giudicato, Cala era il responsabile penale del reato di omicidio: per dirla in modo più chiaro e realistico, l’assassino

“Smettila, Federico. Finché non la conoscerò non dirmi più nulla di lei”, lo rimproverava Tati in chat. Sembrava un’amica gelosa. Ma in fondo si stavano divertendo tutti e due. Tati era la persona che aveva sentito parlare di più di Lara, l’amore platonico che Federico aveva lasciato in Paraguay prima di venire qui. Il tipico lamento di un cuore spezzato. E ora doveva sopportare il suo amico impigliato nella ragnatela di quella brunetta.

Un giorno qualunque, dopo le nove e mezza di sera. Il cellulare squilla, ancora una volta “Numero sconosciuto”, e io rispondo, questa volta senza chiedermi chi possa essere.

“Pronto”.

“Pronto, Javier?”.

“Sì”.

Se c’era qualcuno a cui doveva parlare della sua scoperta, questa era Tati, che si era guadagnata il posto di migliore amica e confidente di Federico. Questa nuova ragazza lo stava facendo impazzire. Alta, scura, sinuosa. Lei, che attirava l’attenzione di tutti, per qualche strana ragione si stava lentamente accorgendo di lui

“Sono la Pimpollo”.

Mi si gela il sangue. Nelle ultime settimane ho sognato questa telefonata e finalmente sta succedendo. La sua voce è dolce (mi ha chiamato “tesoro” un paio di volte durante la conversazione o me lo sono immaginato io alla fine della telefonata?) e un po’ nervosa. Forse lo è anche la mia. Nel corso della nostra chiacchierata, durata un quarto d’ora, ci calmiamo.

La prima cosa che mi dice, con aria di sfida, è che mi sta chiamando solo per sapere cosa mi hanno detto su di lei e per chiedermi con chi ho parlato, e io rispondo senza esitazione: devo convincerla a raccontarmi la sua versione dei fatti. La Pimpollo sa di non piacere a molti, ma non pensava che qualcuno le desse la colpa di tutto. Dice che preferisce lasciare le cose così, che non c’è bisogno di sollevare altri polveroni. Si lamenta, cambia atteggiamento, mi affronta: perché t’intrometti negli affari miei, perché mi cerchi? Rimango quasi senza parole. Non è forse vero che mi sto intromettendo nella sua vita senza chiedere il permesso? Come faccio a spiegarle che ho tra le mani il compito di ricostruire la storia di un crimine che, in quanto tale, è un fatto pubblico su cui opera la giustizia? Con quali freddi argomenti posso farle capire che quella tragedia, che anche lei ha subìto, può parlare di un’intera generazione?

Allora ho paura. Una paura vera. Paura di dovermi accontentare del personaggio che avevo immaginato senza conoscere la vera Pimpollo, quella che ora è dall’altra parte della linea, così vicina eppure così lontana. Le dico che ho bisogno di conoscere la sua versione per chiudere la storia e le parlo delle cose che si dicono su di lei. Le spiego che l’ho rintracciata attraverso i suoi amici perché era l’unico modo per trovarla, e lei sembra convinta. Alla fine accetta. Non vuole che nel quartiere si dica che c’è un giornalista che chiede di lei.

Fino alle cinque del pomeriggio successivo, l’ora stabilita, non riesco a smettere di pensare a lei. Il Kentucky, una vecchia pizzeria del quartiere Palermo, è il luogo stabilito per l’incontro. Un luogo di passaggio, anonimo, che sorge in uno snodo della città dove convergono i percorsi di un treno, di una metropolitana e di una decina di linee d’autobus. La Pimpollo arriva per prima e mi chiama (“Numero sconosciuto”) per avvisarmi che è già lì. Io arrivo dieci minuti dopo, ma non la vedo. Anche se non la conosco, non c’è nessuna ragazza mora in attesa da sola alla porta o all’interno. Rimango fuori, e mi rendo conto che ci sono altre due pizzerie allo stesso angolo. Mi avvicino alla prima e non vedo nessuna ragazza. Schivo gli autobus per attraversare e controllare l’altra: nessuno. Al quarto angolo c’è un McDonald’s. Non è nemmeno lì. Torno al Kentucky, con più domande che risposte. Aspetto sconcertato per qualche minuto, finché il mio cellulare squilla di nuovo. Ancora una volta “Numero sconosciuto”. Da qualche parte la Pimpollo ride; si stupisce del fatto che io non sono biondo, come le avevano detto. Mi sembra di essere in un film, nel ruolo di un topo contro un gatto. Cacciatore braccato.

Ma la Pimpollo non lascia tempo per riflettere. Pretende attenzione. Dice che lavora a un’edicola e che dà lezioni di danza e reggaeton: questa è la sua vita di ragazza qualunque oggi

E in un attimo appare. Reale e affascinante, il personaggio della Pimpollo prende ora forma in una ragazza che indossa jeans attillati e un maglione grigio, sotto il quale fa capolino una camicetta rosa, in tinta con il telefono e l’anello alla mano sinistra. Ha i capelli lunghi e gli occhi truccati. È proprio come me l’hanno descritta: ha un corpo dalle curve sinuose e un atteggiamento accuratamente disinvolto che cattura l’attenzione. All’inizio hai l’impressione di conoscerla per averla vista su qualche rivista: potrebbe essere stata fotografata su una spiaggia sotto un cielo arancione o in una stanza con un’ambientazione arabeggiante. Oppure l’hai vista in lontananza un giorno, in mezzo alla folla, e non l’hai mai dimenticata. Ma una nota estetica la rende finalmente di carne e ossa: il suo naso è leggermente aquilino. Poi mi svela il trucco: mi stava osservando dalla terrazza del McDonald’s. Mi rendo conto che è una ragazza difficile, difficile fino in fondo.

Ora che siamo faccia a faccia, seduti accanto a una finestra da cui si vede il continuo viavai in strada, io e la Pimpollo abbiamo molto di cui parlare, ma non riusciamo a rompere il ghiaccio di questo incontro così desiderato e allo stesso tempo così semplice: non siamo solo due persone che bevono qualcosa in un bar.

Ci servono due caffè e due cornetti. Lei mi chiede cosa voglio sapere. Tutto, e in modo molto dettagliato, penso, ma non lo dico. “La cosa migliore è cominciare dall’inizio”, le dico. La chiacchierata sarà lunga: parleremo fino a sera. La Pimpollo dice che quello che ha vissuto è stato devastante e che questa potrebbe essere l’ultima volta che ne parlerà. Allora mi chiedo cos’avrei fatto io se mi avessero chiesto un’intervista e se mi fosse capitato quello che è capitato a lei o a Sebastián o a tutti quelli coinvolti. Mi chiedo se avrei accettato di parlare con un giornalista.

Ma la Pimpollo non lascia tempo per riflettere. Pretende attenzione. Dice che lavora a un’edicola e che dà lezioni di danza e reggaeton: questa è la sua vita di ragazza qualunque oggi. Racconta che per lei è stato molto difficile andare avanti dopo l’omicidio di Federico e parla di un incubo che sembrava non finire mai. Anche se non piange, durante la conversazione ogni tanto le s’inumidiscono gli occhi.

Cala era stato il suo secondo fidanzato, quello dei 16 anni. Con il primo, che aveva quattro anni più di lei e con cui è stata insieme dai 12 ai 16 anni, aveva imparato a conoscere l’amore. Nel frattempo Federico appariva e scompariva, ma non aveva mai avuto la stessa importanza degli altri due, perché stava con una sua amica. Si erano baciati per la prima volta solo pochi giorni dopo che Coco li aveva presentati per la seconda volta. Per lei Federico era un ragazzo simpatico e tranquillo. Mi dice che nel periodo in cui si erano visti non era successo niente di troppo importante: s’incontravano a casa sua, andavano a fare una passeggiata e qualche volta si erano baciati di nuovo (lei usa il verbo transar, che è molto più di un bacio).

Dopo aver terminato il suo lungo racconto, la maschera di femme fatale che la Pimpollo indossa alla perfezione svanisce e lascia il posto a una ragazza fragile, forse un’altra vittima di questo caso

La Pimpollo stava con Cala da nove mesi, ma quando le cose si complicarono con Federico lei voleva chiudere la relazione. Fu Cala a portarla per la prima volta al Teatro, ma dopo quello che è successo non ci è più tornata. L’ultima sera che era stata con Cala avrebbe dovuto lasciarlo, pensa ora ad alta voce. L’aveva deciso dopo il colpo ricevuto il giorno di Natale. Quel giorno lei gli aveva intimato di prendere le sue cose e andarsene, ma lui le ha chiesto perdono: le ha detto che si era arrabbiato perché aveva intuito che lei era stata con un altro, e l’ha pregata di dargli un’altra possibilità. La Pimpollo ha accettato. Una decisione che l’avrebbe perseguitata per gli anni successivi. Ricorda il giorno in cui ha mostrato a Federico il livido sulla gamba e quanto lui si è arrabbiato. Lei gli ha chiesto di calmarsi, di lasciar perdere. Ma lui non si è calmato. E non lo ha fatto fino al 27 dicembre.

La Pimpollo racconta la sua versione dei fatti: all’interno della discoteca, Federico si avvicinò al suo ragazzo per insultarlo, e quando lei provò ad allontanarlo un’amica le disse: “Non preoccuparti, gli sta solo urlando contro per la rabbia, tutto qui”. Stava per chiedere agli amici di andare da un’altra parte quando Federico la prese per il braccio e le disse di chiamare Cala. Quando lui si avvicinò, Federico gli sferrò un pugno in faccia. La Pimpollo si mise in mezzo per fermare la lite, ma fu colpita e qualcuno la trascinò via. In mezzo al caos cadde, e quando riuscì a rialzarsi i due erano già scappati. Lei corse dietro a Federico, gli afferrò il braccio e lui si girò mostrandole il petto insanguinato. “Guarda cosa mi ha fatto!”, le disse, spaventato. Al ricordo la Pimpollo rabbrividisce.

Quelle parole di Federico, così determinanti in questa storia e così scioccanti da essere pubblicate in quei primi articoli di giornale che avevo letto, chiedono di fermarsi un attimo: Federico non era andato in discoteca immaginando quello che sarebbe successo. Come interpretare tutte queste versioni?

Nel frattempo il caos intorno a loro continuava: qualcuno afferrò la Pimpollo da dietro e la separò da Federico, che continuò a camminare. Quando lei riuscì a liberarsi, andò verso la porta. I buttafuori avevano già creato un cordone di sicurezza e non facevano entrare o uscire nessuno, ma la Pimpollo riuscì a passare e trovò Federico sdraiato vicino alla biglietteria. Rimase lì con lui. Gridò agli addetti alla sicurezza di chiamare un’ambulanza, ma uno di loro le disse che era già morto. “Che ne sai se è morto?”, disse lei. Prese un cellulare e chiamò. L’ambulanza non arrivava, la Pimpollo aveva la nausea. Un’amica la trovò e la portò a prendere un po’ d’aria. Gli avvenimenti della serata continuavano a frullarle nella testa: fu allora che svenne.

Si svegliò in un taxi diretto verso casa sua dove l’aspettava Cala, che fu sorpreso dalla notizia della morte di Federico e non le credette. Lei si disperò, pianse e lo accusò. Ma le sue recriminazioni non servirono a nulla: alla fine andarono a dormire. La Pimpollo non riuscì a prendere sonno. Si fece giorno. Qualcuno suonò al campanello. Era la polizia. “Devi venire con noi per l’omicidio di Federico Medina”, le dissero. Anche sua madre salì sull’auto della polizia. Cala rimase nascosto in camera. Lei fu trattenuta in questura fino alle sei di domenica sera, forse come esca per convincere il fidanzato a costituirsi. Quando tornò a casa, Cala non c’era più e la Pimpollo crollò sul letto. Passò un paio di giorni in cui non riusciva nemmeno ad alzarsi per uscire, piangendo ininterrottamente. Poi cominciò ad avere degli incubi. Pensò di essere impazzita quando scoprì che il top che aveva indossato quel giorno aveva un taglio all’altezza del seno sinistro. Proprio lì, dove sarebbe penetrato il coltello, c’era il ferretto del reggiseno, e ancora oggi è sicura che sia stato quello a salvarla. Per molto tempo non lo disse a nessuno: arrivò a pensare che Cala aveva voluto uccidere anche lei.

La Pimpollo e Cala, che era già in carcere, continuarono a stare insieme per quattro mesi. All’inizio lei gli scriveva e lui le telefonava, ma non riuscivano mai a parlare davvero perché temevano che la conversazione fosse intercettata. Lei dice che lui le giurava di essere innocente. Poi a un certo punto lei ripensò a tutto a mente fredda e capì che le cose non potevano essere andate come diceva lui. Un giorno gli disse che non voleva più che la chiamasse. Un altro giorno non rispose alla sua telefonata. Non rispose neanche la seconda volta che chiamò. A quel punto tra loro era finita.

Dopo aver terminato il suo lungo racconto, la maschera di femme fatale che la Pimpollo indossa alla perfezione svanisce e lascia il posto a una ragazza fragile, forse un’altra vittima di questo caso. Prima di salutarmi e prendere l’autobus 111 per perdersi di nuovo a Villa Pueyrredón, stavolta per sempre, dice che a 17 anni non poteva immaginare che quella storia sarebbe potuta finire così. Penso di capirla.

La città è diventata un organismo tranquillo quando, poco dopo, perdo di vista l’autobus su cui si allontana la Pimpollo.

Sabato 27 dicembre 2003, mentre Federico e Sebastián erano in coda per entrare al Teatro e in lontananza la Pimpollo e Cala attraversavano avenida Álvarez Thomas, quando mancava pochissimo perché tutto fosse distrutto per sempre, qualcun altro raggiunse quella discoteca. Tati e Lala, che quella sera non sapevano cosa fare, erano finite lì con altri amici senza sapere che c’erano anche i cugini. Le ragazze rimasero all’ingresso per un po’, spingendo per conquistare un posto in fila, ma non riuscirono ad arrivare alla biglietteria. Stavano per andarsene quando qualcosa le fermò. Un grido sovrastò il trambusto, una voce fin troppo familiare chiamò: “Tati, Tati!”, ma da dove? Tati si girò e non vide nessuno. Andiamocene, si dissero. Odiavano i luoghi affollati. Andarono a San Telmo e passarono la notte a La Trastienda, un locale più piccolo e rilassato. Non avrebbero mai immaginato che a lottare per entrare nella grande discoteca c’era Federico. Era l’ultimo posto in cui lo avrebbero immaginato. Eppure era lì: tenace, ostinato, giustiziere. Alle sei del mattino, con il sole di fine anno già caldo, presero un taxi per tornare a casa, e sulla strada passarono davanti al Teatro. Videro che il locale era chiuso e che non c’era gente, ma una macchina della polizia. Strano, pensarono. Solo il giorno dopo capirono chi le aveva chiamate. ◆ fr

Javier Sinay è uno scrittore argentino. Scrive di true crime per molti periodici, tra cui Rolling Stone. Tra i suoi libri, in Italia è uscito La strada per l’est (gran vía 2022). Questo racconto è uscito sul suo libro Sangre joven (Tusquets editores 2022) con il titolo Los amantes de Villa Pueyrredón . La traduzione è di Francesca Rossetti.

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Questo articolo è uscito sul numero 1543 di Internazionale, a pagina 76. Compra questo numero | Abbonati