I compiti possono cambiare la vita? È quello che ci racconta Raffaella Case in Una testa piena di ricci. La protagonista del romanzo si chiama Zhenga Mugisha Filippin Cesa, un nome lungo con i cognomi del lato paterno e del lato materno. La mamma si chiama Anna, il padre Solomon e nella storia fa capolino anche un nonno di nome Arturo. Sono persone sprint, una famiglia milanese di oggi, che vive il classico tran tran di un grande centro urbano. Il tutto condito dalle eccentricità del nonno. Le cose procedono senza scossoni fino a quando un’insegnante non chiede ai suoi studenti, tra cui Zhenga, di disegnare il proprio albero genealogico. Dovrebbe essere facile. Zhenga però si rende conto di avere un albero genealogico spezzato. Se del lato materno sa tutto, a volte anche troppo, perché gli aneddoti di nonno Arturo si sprecano, del lato paterno non sa nulla. Il padre si rifiuta di dirle qualcosa. Lui è un bambino fuggito dal genocidio e i suoi pochi legami sono stati spezzati. Ci sono una madre, una sorella, che vivono in Italia, che lui apparentemente non vuole vedere. Ma Zhenga, in bilico tra bianchezza e nerezza, tra più origini e più storie, vuole sapere. E così scappa di casa seguita dalle parole di Raffaella Case.
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Questo articolo è uscito sul numero 1631 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati