L’uomo al telefono disse che lavorava per la compagnia petrolifera. “Alla contabilità”, precisò. La sua voce non mi era familiare. In un primo momento non riuscii a capire perché mi stesse chiamando. Era il novembre del 2016 ed ero in congedo non retribuito da quella compagnia ormai da dieci anni, cioè da quando avevo lasciato la Cina e mi ero trasferita in Francia. La linea era disturbata e faticavo a sentire. “Deve tornare a Karamay e firmare i documenti che le serviranno per andare in pensione, signora Haitiwaji”, disse. Karamay era la città nella regione dello Xinjiang dove avevo lavorato per più di vent’anni.
“Allora vorrei fare una procura”, risposi. “Un mio amico di Karamay segue tutte le mie questioni amministrative. Perché dovrei tornare per un problema burocratico? Perché un viaggio così lungo per una sciocchezza simile? Perché ora?”. L’uomo non seppe darmi una risposta e si limitò a dire che mi avrebbe richiamato nel giro di un paio di giorni dopo aver verificato la possibilità di delegare il mio amico.
Mio marito Kerim aveva lasciato lo Xinjiang nel 2002 per cercare lavoro. Aveva prima provato in Kazakistan, per tornare deluso dopo un anno. Poi era andato in Norvegia e infine in Francia, dove aveva chiesto asilo. Non appena si fosse sistemato l’avrei raggiunto con le nostre due figlie. Kerim aveva sempre saputo di voler lasciare lo Xinjiang. Quest’idea aveva messo radici in lui ancora prima che ci assumessero alla compagnia petrolifera. Ci eravamo conosciuti da studenti a Urumqi, la più grande città dello Xinjiang, e appena laureati avevamo cominciato a cercare lavoro. Era il 1988. Nelle offerte di lavoro pubblicate sui giornali spesso c’era una frase scritta in piccolo: non si accettano uiguri. Non lo dimenticò mai. Mentre io cercavo di ignorare le prove della discriminazione che ci seguiva ovunque, per Kerim diventò un’ossessione.
Dopo la laurea ci offrirono un lavoro come ingegneri nella compagnia petrolifera di Karamay. Eravamo stati fortunati. Ma poi ci fu l’episodio delle buste rosse. In occasione del capodanno lunare, quando il capo distribuiva i premi annuali, le buste rosse consegnate ai dipendenti uiguri erano più leggere di quelle distribuite ai colleghi han, il gruppo etnico dominante in Cina. Poco dopo, tutti gli uiguri furono rimossi dall’ufficio centrale e trasferiti alla periferia della città. Un piccolo gruppo protestò, ma io non osai. Qualche mese dopo, quando si liberò una posizione da dirigente, Kerim fece domanda. Aveva le qualifiche e l’anzianità richieste. Ma la posizione fu assegnata a un dipendente han che non aveva neppure la laurea in ingegneria. Una sera del 2000 Kerim tornò a casa e annunciò che si era licenziato. “Ne ho abbastanza”, disse.
Quella che mio marito stava vivendo era un’esperienza fin troppo familiare. Dal 1955, quando la Cina comunista annesse lo Xinjiang come “regione autonoma”, noi uiguri siamo considerati una spina nel fianco. Lo Xinjiang è un corridoio strategico troppo prezioso perché il Partito comunista cinese (Pcc) possa rischiare di perderne il controllo. Il partito ha investito molto nella “nuova via della seta”, il progetto infrastrutturale che dovrà collegare la Cina all’Europa passando attraverso l’Asia centrale, di cui la nostra regione è uno snodo importante. Lo Xinjiang è essenziale per il grande piano strategico del presidente Xi Jinping. O meglio, lo è uno Xinjiang pacifico, aperto agli affari, ripulito dalle tendenze separatiste e dalle tensioni etniche. Insomma, uno Xinjiang senza gli uiguri.
Le mie figlie e io fuggimmo in Francia per raggiungere mio marito a maggio del 2006, poco prima che nello Xinjiang cominciasse un periodo di repressione senza precedenti. Alle mie figlie, che all’epoca avevano 13 e 8 anni, fu concesso lo status di rifugiate, come al padre. Chiedendo asilo, mio marito aveva rotto definitivamente con il passato. Ottenere il passaporto francese significava perdere la nazionalità cinese. Per me la prospettiva di consegnare il passaporto aveva un’implicazione terribile: non sarei mai potuta tornare nello Xinjiang. Come potevo dire addio alle mie radici, alle persone care? Immaginavo mia madre destinata a invecchiare e morire da sola nel suo villaggio sulle montagne del nord. Rinunciare alla nazionalità cinese significava rinunciare anche a lei. Non potevo. Così avevo chiesto un permesso di soggiorno rinnovabile ogni dieci anni.
Un brutto presentimento
Dopo la telefonata, mentre mi guardavo intorno nel salotto silenzioso del nostro appartamento di Boulogne, mille domande mi frullavano in testa. Perché quell’uomo voleva che tornassi a Karamay? Era una manovra per farmi interrogare dalla polizia? A nessuno degli altri uiguri che conoscevo in Francia era successo niente del genere.
L’uomo richiamò due giorni dopo. “Fare una procura non è possibile, signora Haitiwaji. Deve venire a Karamay di persona”. Cedetti. Dopotutto si trattava solo di qualche documento. “Va bene, arriverò il prima possibile”. Quando riagganciai sentii un brivido nella schiena. Avevo paura di tornare nello Xinjiang. Kerim aveva fatto del suo meglio per rassicurarmi, ma io avevo un brutto presentimento. In quel periodo dell’anno, Karamay è nella morsa di un inverno brutale: raffiche di vento gelido ululano lungo i viali, tra i negozi, le case e i palazzi. Poche figure imbacuccate sfidano gli elementi aggrappandosi ai muri, ma per lo più non si vede anima viva. La cosa che mi spaventava di più, però, erano le misure sempre più severe introdotte nello Xianjiang. Chiunque mettesse piede fuori di casa poteva essere arrestato senza alcuna ragione.
Non era una novità, ma il dispotismo si era accentuato ancora di più dopo i tumulti di Urumqi, nel 2009, una serie di scontri violenti tra gli uiguri e gli han della città in cui avevano perso la vita 197 persone. Quegli avvenimenti hanno segnato uno spartiacque nella storia recente della regione. In seguito, il Pcc ha attribuito la colpa di quegli atti orrendi a tutta la minoranza uigura, giustificando le misure repressive con la tesi che le famiglie uigure erano focolai di islam radicale e separatismo.
Nell’estate del 2016 c’era stato l’ingresso di un nuovo e importante protagonista nella lunga lotta tra gli uiguri e il Pcc. Chen Quanguo, un alto dirigente del partito diventato famoso per le misure di controllo molto rigide che aveva imposto in Tibet, fu messo a capo della regione dello Xinjiang. Con il suo arrivo, la repressione degli uiguri aumentò drammaticamente. Migliaia di persone furono mandate in “scuole” costruite in fretta e furia ai margini di insediamenti nel deserto. Erano conosciuti come campi di “trasformazione attraverso l’educazione”. I detenuti venivano mandati là per essere sottoposti al lavaggio del cervello, e non solo.
Le donne come me, uscite dai campi, non sono più quelle di prima
Niente panico
Non volevo tornare nello Xinjiang, però decisi che Kerim aveva ragione: non c’era nessun motivo di preoccuparsi. Sarei stata via solo qualche settimana. “Sicuramente ti convocheranno per farti delle domande, ma niente panico. È perfettamente normale”, mi rassicurò.
Qualche giorno dopo, la mattina del 30 novembre 2016, atterrai in Cina e andai negli uffici della compagnia petrolifera a Karamay per firmare quelli che dovevano essere i documenti per il mio imminente pensionamento. Nell’ufficio con le pareti dall’intonaco sgretolato c’erano il contabile, un cinese han dalla voce aspra, e la sua segretaria, raggomitolata dietro uno schermo. Il passaggio successivo si svolse nella stazione di polizia di Kunlun, a dieci minuti di macchina dalla sede della compagnia. Lungo la strada, preparai le risposte alle domande che immaginavo mi avrebbero fatto. Cercai di corazzarmi. Dopo aver lasciato le mie cose all’entrata, fui condotta in una stanza stretta e anonima: la stanza degli interrogatori. Non ne avevo mai vista una. Un tavolo separava le due sedie dei poliziotti dalla mia. Il ronzio sommesso del riscaldamento, la lavagna bianca pulita in modo approssimativo, le luci tenui erano gli elementi essenziali della scena. Parlammo dei motivi della mia partenza per la Francia, del mio lavoro in una panetteria e in un bar nel quartiere degli affari di Parigi, La Défense. Poi, uno degli agenti mi sbatté sotto il naso una foto che mi fece ribollire il sangue. Era un viso che conoscevo come il mio: le guance pienotte, il naso sottile. Era mia figlia Gulhumar. Si trovava davanti a place du Trocadéro a Parigi, infagottata nel cappotto nero che le avevo dato io. Nella foto sorrideva e stringeva in mano una bandierina del Turkestan orientale (come gli indipendentisti uiguri chiamano lo Xinjiang), bandita dal governo cinese. Per gli uiguri quella bandiera simboleggia il movimento per l’indipendenza della regione. La foto era stata scattata in occasione di una manifestazione organizzata dalla sezione francese del Congresso mondiale degli uiguri, che rappresenta gli uiguri in esilio e si batte contro la repressione nello Xinjiang.
Che si sia politicamente impegnati o meno, questo tipo di iniziative per la comunità sono soprattutto un’occasione per ritrovarsi, un po’ come i compleanni, l’Eid e la festa di primavera del Nowruz. Ci si va per protestare contro la repressione nello Xinjiang, ma anche, come aveva fatto Gulhumar, per vedere gli amici e scambiare notizie con gli altri esuli. All’epoca Kerim partecipava spesso, le ragazze ci erano andate una volta o due, io mai. La politica non fa per me. Da quando avevo lasciato lo Xinjiang mi interessava ancora di meno.
Improvvisamente il poliziotto batté il pugno sul tavolo. “La conosci, vero?”.
“Certo, è mia figlia”.
“Tua figlia è una terrorista!”.
“No. Non so perché era alla manifestazione”.
Continuai a ripetere “non so cosa stesse facendo in quel posto, non faceva niente di male, lo giuro! Mia figlia non è una terrorista! E neppure mio marito!”.
Non ricordo il resto dell’interrogatorio. Ricordo solo quella foto, le loro domande aggressive e le mie inutili obiezioni. Non saprei dire quanto durò. Ricordo che al termine del colloquio chiesi irritata: “Posso andarmene ora? Abbiamo finito?”. Allora uno di loro disse: “No, Gulbahar Haitiwaji, non abbiamo finito.”
“Destra! Sinistra! Riposo!”. Nella stanza eravamo una quarantina, tutte donne in pigiama azzurro. Era un’anonima aula rettangolare. Una grande saracinesca di metallo, bucherellata da minuscoli forellini che lasciavano filtrare la luce, ci separava dal mondo esterno. Per undici ore al giorno il mondo si riduceva a quella stanza. Le nostre pantofole scricchiolavano sul linoleum. Due soldati han tenevano implacabilmente il tempo mentre noi marciavamo su e giù nella stanza. Si chiamava “educazione fisica”. In realtà era un vero e proprio addestramento militare.
I nostri corpi esausti si muovevano nello spazio all’unisono, avanti e indietro, fianco a fianco, da un angolo all’altro. Quando il soldato urlava “Riposo!” in mandarino, il nostro reggimento di prigioniere si paralizzava. Dovevamo rimanere immobili per mezz’ora o anche più di un’ora. Le nostre gambe cominciavano a formicolare come se fossero punte da spilli. I nostri corpi, ancora accaldati e irrequieti, faticavano a non dondolare nel caldo umido. Ci accorgevamo di avere l’alito cattivo. Sbuffavamo come mucche. A volte qualcuna di noi sveniva. Se non si riprendeva subito, una guardia la strattonava per rimetterla in piedi e la prendeva a schiaffi per svegliarla. Se crollava di nuovo la trascinava fuori dalla stanza e non la vedevamo più. Mai più. All’inizio ne ero rimasta sconvolta, ma ormai mi ci ero abituata. Ci si abitua a tutto, anche all’orrore. Era giugno del 2017 ed ero arrivata da tre giorni. Dopo quasi cinque mesi nelle celle della polizia di Karamay, tra interrogatori e atti di crudeltà del tutto arbitrari – a un certo punto mi tennero incatenata per venti giorni al letto per punizione, anche se non capii mai perché – mi dissero che sarei andata a “scuola”. Non avevo mai sentito parlare di queste scuole misteriose. Il governo le ha costruite per “correggere” gli uiguri, mi spiegarono. Le mie compagne di cella dissero che sarebbe stata una scuola normale, con insegnanti han. E che, una volta promosse, saremmo state libere di tornare a casa.
Questa “scuola” era a Baijiantan, un quartiere alla periferia di Karamay. Dopo aver lasciato le celle della polizia, questa fu l’unica informazione che riuscii a procurarmi, grazie a un cartello piantato in un fossato senz’acqua. L’addestramento sarebbe durato una quindicina di giorni, poi in teoria sarebbero cominciati i corsi. Mi chiedevo come avrei fatto a reggere. Come mai non ero già crollata? Baijiantan era una terra di nessuno dove si ergevano tre edifici delle dimensioni di tre piccoli aeroporti. Dietro il recinto di filo spinato c’era solo il deserto a perdita d’occhio.
Il senso del tempo
Il primo giorno alcune guardie mi accompagnarono in un dormitorio pieno di letti, semplici assi di legno numerate. C’era già un’altra donna: Nadira, branda 8. A me fu assegnata la branda 9. Nadira mi mostrò il dormitorio, che aveva un forte odore di vernice fresca: il secchio per fare i propri bisogni, a cui dette un calcio rabbioso; la finestra con l’imposta di metallo sempre chiusa; le due videocamere mobili agli angoli del soffitto. Tutto qui. Niente materasso. Niente mobili. Niente carta igienica. Niente lenzuola. Niente lavandino. Solo noi due al buio e il rimbombo delle pesanti porte che si chiudevano.
Non era una scuola. Era un campo di rieducazione, con regole militari e il chiaro intento di spezzarci. Ci veniva imposto il silenzio ma, fisicamente provate, non avevamo comunque voglia di parlare. Con il tempo le nostre conversazioni si spensero. Le giornate erano scandite dal suono dei fischietti alla sveglia, ai pasti, all’ora di andare a letto. Le guardie ci tenevano sempre d’occhio e avevamo paura, non c’era modo di eludere la loro sorveglianza, di bisbigliare, pulirsi la bocca o sbadigliare senza essere accusate di pregare. Era contro le regole rifiutare il cibo, e se lo avessimo fatto ci avrebbero accusato di essere “terroriste islamiche”. I secondini dicevano che il nostro cibo era halal.
La notte crollavo sulla branda in stato confusionale. Avevo perso il senso del tempo. L’orologio non c’era. Indovinavo l’ora da quanto caldo o freddo faceva. Le guardie mi terrorizzavano. Non vedevamo la luce del giorno da quando eravamo arrivate. Un poliziotto mi aveva promesso che mi avrebbero dato un telefono, ma non l’avevo ricevuto. Chi sapeva che ero detenuta in quel luogo? Avevano informato mia sorella, Kerim o Gulhumar? Era un incubo a occhi aperti. Sotto lo sguardo impassibile delle videocamere di sicurezza, non potevo neppure sfogarmi con le mie compagne. Ero stanca, molto stanca. Non riuscivo neanche più a pensare.
Il campo era un labirinto dove le guardie ci facevano muovere in gruppi, un dormitorio alla volta. Per andare alle docce, al bagno, in classe o alla mensa eravamo scortate lungo una serie di interminabili corridoi illuminati da lampadine fluorescenti. Era impossibile avere un solo momento di privacy. Alle due estremità di ogni corridoio le porte di sicurezza automatiche sigillavano gli spazi come camere stagne. Una cosa era certa: tutto era nuovo di zecca. Ce lo ricordava costantemente l’odore di vernice delle pareti immacolate. In seguito avrei scoperto che era un compound della polizia ristrutturato, ma non avevo ancora intuito quanto fosse grande.
Dal numero delle guardie e delle altre detenute che incontravamo mentre ci spostavano da un luogo all’altro capii che il campo era enorme. Ogni giorno vedevo facce nuove, figure spettrali con le borse sotto gli occhi. Alla fine del primo giorno, in cella eravamo in sette; dopo tre giorni 12. Qualche rapido calcolo: avevo contato 16 celle, compresa la mia, ciascuna con 12 brande, voleva dire quasi duecento detenute a Baijiantan. Duecento donne strappate alle loro famiglie. Duecento vite prigioniere fino a ulteriore comunicazione. E il campo continuava a riempirsi.
Le nuove arrivate si riconoscevano dai loro volti disfatti. Cercavano ancora di incrociare i tuoi occhi in corridoio. Quelle che erano lì da più tempo avevano lo sguardo fisso a terra, si muovevano trascinando i piedi e serrando le file, come robot. Scattavano sull’attenti senza battere ciglio quando un fischio glielo ordinava. Dio mio, cosa avevano fatto per ridurle così? Avevo creduto che le lezioni di teoria ci avrebbero dato un certo sollievo dopo l’addestramento fisico, ma erano ancora peggio. L’insegnante non ci perdeva mai d’occhio e coglieva ogni occasione per schiaffeggiarci. Un giorno una delle mie compagne, una donna sopra i sessant’anni, chiuse gli occhi, per stanchezza o paura. L’insegnante le mollò una sberla violenta. “Credi che non ti abbia vista pregare? Sarai punita!”. La guardia la trascinò via a forza. Un’ora dopo tornò con qualcosa che aveva scritto: la sua autocritica. L’insegnante gliela fece leggere ad alta voce. Lei ubbidì, cinerea, poi tornò a sedersi. Tutto per aver chiuso gli occhi.
Lavaggio del cervello
Dopo qualche giorno capii cosa significava l’espressione “lavaggio del cervello”. Ogni mattina un’istruttrice uigura entrava nella nostra aula silenziosa. Una donna della nostra stessa etnia che ci insegnava come essere cinesi. Ci trattava come cittadine ribelli che il partito doveva rieducare. Mi chiedevo cosa pensasse di tutta quella faccenda, se pensava qualcosa. Com’era finita lì? Era stata rieducata a sua volta prima di fare quel lavoro?
◆Lo Xinjiang è una regione autonoma dell’estremo occidente cinese, abitata tradizionalmente dagli uiguri, una minoranza musulmana e turcofona culturalmente legata all’area dell’Asia centrale. Negli ultimi vent’anni le autorità cinesi hanno incentivato l’immigrazione dei cinesi di etnia han, maggioritaria, nella regione autonoma, e hanno via via imposto misure per reprimere la cultura uigura, a cominciare dal divieto di usare la lingua nelle scuole. Dopo alcuni attentati compiuti da cittadini uiguri nel 2011 e gli scontri violenti tra han e uiguri scoppiati nel 2016 , la repressione della minoranza è diventata sistematica, con il divieto di praticare l’islam, la distruzione delle moschee e l’internamento di almeno un milione di persone in campi di rieducazione costruiti nello Xinjiang.
Al suo segnale ci alzavamo tutte in piedi di scatto urlando “Lao shi hao!” (buongiorno maestra). Questo saluto dava il via a undici ore di lezioni quotidiane. Recitavamo una specie di giuramento di fedeltà alla Cina: “Grazie al nostro grande paese. Grazie al nostro partito. Grazie al nostro caro Presidente Xi Jinping”. La sera, un’altra versione del saluto metteva fine alla lezione: “Auguro al mio grande paese di svilupparsi e avere un futuro luminoso. Auguro a tutte le etnie di formare un’unica grande nazione. Auguro buona salute al presidente Xi Jinping. Lunga vita al presidente Xi Jinping”.
Incollate alle nostre sedie, ripetevamo le lezioni a pappagallo. Ci insegnavano la gloriosa storia della Cina, una versione addolcita, ripulita dagli abusi. Sulla copertina del manuale che ci avevano dato c’era scritto “Programma di rieducazione”. Conteneva solo storie delle dinastie, delle loro conquiste e dei grandi traguardi raggiunti dal Partito comunista. Era ancora più politicizzato e fazioso dell’insegnamento nelle università cinesi. I primi giorni mi veniva da ridere. Pensavano davvero di spezzarci con qualche pagina di propaganda? Ma con il passare del tempo la spossatezza ebbe la meglio. Ero esausta, e la mia ferma determinazione a resistere vacillava. Dunque era questo il lavaggio del cervello: intere giornate passate a ripetere le stesse frasi idiote. Come se non bastasse, dovevamo fare un’altra ora di studio la sera, prima di andare a letto. Ogni venerdì avevamo una verifica scritta e orale. A turno, sotto lo sguardo dei dirigenti, recitavamo lo stufato comunista con cui ci avevano ingozzato.
Così la nostra memoria a breve termine diventava il nostro principale alleato e il nostro peggior nemico. Ci permetteva di assorbire e rigurgitare volumi di storia e dichiarazioni di leale senso civico per evitare le umiliazioni pubbliche che ci venivano inflitte dall’insegnante. Ma allo stesso tempo minava le nostre capacità critiche. Portava via i ricordi e i pensieri che ci legano alla vita. Dopo un po’, non riuscivo più a ricordare chiaramente i volti di Kerim e delle mie figlie. Ci facevano lavorare finché non diventavamo ottuse come animali. Nessuno ci diceva quanto sarebbe durata.
Nei campi di “trasformazione attraverso l’educazione”, vita e morte non hanno lo stesso significato. Centinaia di volte, quando i passi delle guardie ci svegliavano di notte, ho pensato che mi avrebbero uccisa. Quando una mano mi passava le forbici sul cranio e altre mani tiravano via le ciocche di capelli che cadevano sulle spalle, chiudevo gli occhi offuscati dalle lacrime pensando che la fine era vicina, che mi stavano preparando per la forca, la sedia elettrica, l’annegamento. La morte era in agguato a ogni angolo. Quando le infermiere mi afferravano il braccio per “vaccinarmi” pensavo che mi stessero avvelenando. In realtà ci stavano sterilizzando.
È stato allora che ho capito la strategia che usavano: non ucciderci a sangue freddo ma farci sparire lentamente. Tanto lentamente che nessuno se ne sarebbe accorto. Ci ordinavano di negare la nostra identità, di sputare sulle nostre tradizioni, i nostri valori. Di criticare la nostra lingua. Di insultare il nostro popolo. Le donne come me, uscite dai campi, non sono più quelle di prima. Siamo ombre. Le nostre anime sono morte. Volevano farmi credere che i miei cari, mio marito e le mie figlie, erano terroristi. Ero così lontana, così sola, così stanca e alienata che ho quasi finito col crederci. Sono stata detenuta a Baijiantan per due anni. In quel periodo intorno a me tutti – i poliziotti che venivano a interrogare le prigioniere, le guardie, gli insegnanti e i tutor – hanno cercato di farmi credere all’enorme menzogna senza cui la Cina non avrebbe potuto giustificare il suo progetto di rieducazione: che gli uiguri sono terroristi e quindi che io, Gulbahar, in quanto uigura in esilio in Francia, ero una terrorista. La propaganda, un’ondata dopo l’altra, si abbatteva su di me e con il passare dei mesi cominciai a perdere parte della mia salute mentale. La mia anima si frantumava e perdeva dei brandelli. Non li recupererò mai.
Una brava attrice
Durante gli interrogatori mi sono piegata sotto i colpi della polizia, al punto da confessare il falso. Sono riusciti a convincermi che prima avessi ammesso i miei misfatti prima sarei riuscita ad andarmene. Sfinita, alla fine ho ceduto. Non avevo scelta. Nessuno può combattere contro se stesso per sempre. Per quanto tu possa cercare di opporti instancabilmente al lavaggio del cervello, la sua opera insidiosa continua a scavare. Ogni desiderio e passione si spegne. Quali opzioni ti rimangono? Una lenta e dolorosa discesa verso la morte o la sottomissione. Se reciti la sottomissione, se fingi di perdere la battaglia psicologica contro la polizia, allora puoi almeno aggrapparti a quel briciolo di lucidità che ti ricorda chi sei. Non credevo a una parola di quel che dicevo. Facevo solo del mio meglio per essere una buona attrice.
Il 2 agosto 2019, dopo un breve processo davanti a poche persone, un giudice di Karamay mi ha dichiarato innocente. Ho a malapena sentito le sue parole. Ho ascoltato la sentenza come se non avesse nulla a che fare con me. Pensavo a tutte le volte che avevo proclamato la mia innocenza, tutte le notti passate a rigirarmi nel letto, furiosa perché nessuno voleva credermi. E pensavo a tutte le altre volte che avevo ammesso le cose di cui mi accusavano, tutte le false confessioni che avevo fatto. Mi avevano condannato a sette anni di rieducazione. Avevano torturato il mio corpo e portato la mia mente sull’orlo della pazzia. E ora, dopo aver rivisto il mio caso, un giudice aveva deciso che no, in realtà ero innocente. Ero libera di andarmene. ◆ gc
Questo articolo è un estratto del libro Rescapée du goulag chinois (Editions des Equateurs 2021) di Gulbahar Haitiwaji, con Rozenn Morgat.
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Questo articolo è uscito sul numero 1398 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati