Quando Marlene Dietrich salì sul palco dell’Esposizione universale di Osaka l’8 settembre 1970 e cantò Lili Marleen nel suo abito di seta, Jōtarō Shōji era tra il pubblico. Ragazzo di origini povere che si era trasferito nella grande città, aveva gli occhi che luccicavano mentre assisteva per la prima volta a un’esibizione in una sala concerti. Quel giorno, però, non era lì solo per vedere Marlene Dietrich: “Avevo lavorato nel cantiere dell’Expo, al padiglione ceco. Avevamo corso grandi rischi per completarlo in tempo. Alcuni erano morti”. Shōji era lì per salutare i compagni.

Dopo il concerto andò dietro le quinte, a Kamagasaki, il sudicio ghetto del quartiere di Nishinari dove vivevano gli operai impegnati nella costruzione dell’Expo: 25mila giovani stipati in dormitori squallidi. Lì s’infilò in una scatola di 50x170 centimetri: la sua stanza, come una bara. E con Lili Marleen in testa, pensò ai compagni morti in cantiere. “Dato che non avevano né soldi né assicurazione”, racconta l’uomo, che oggi ha settant’anni, “abbiamo fatto una colletta per pagare le loro urne funerarie”.

Affascinante e futuristica, l’Esposizione universale di Osaka del 1970 fu motivo di grande orgoglio per il Giappone, che si presentò al mondo con un volto moderno e ottimista. Tuttavia Kamagasaki, il grande mercato del lavoro a giornata a trenta chilometri dall’evento, rimase esclusa.

Il 13 aprile di cinquantacinque anni dopo, sempre a Osaka è stata inaugurata l’Expo 2025 su un’isola artificiale chiamata Yumeshima (isola dei sogni). E Kamagasaki è ancora lì, aggrappata al fianco meridionale della città, una delle più ricche dell’arcipelago. In questo rettangolo di duecento ettari dai contorni sfumati la povertà, che nel resto dell’arcipelago si percepisce a malapena, è ancora evidente. L’aspettativa di vita maschile è la più bassa del Giappone: circa 73 anni, rispetto a una media nazionale di 81. Quarta economia mondiale, il paese è anche caratterizzato da grande precarietà. Il 16 per cento della popolazione vive in povertà relativa (cioè ha un reddito che non arriva neanche alla metà di quello mediano).

Addentrandosi a Kamagasaki dalla stazione di Shin-Imamiya, s’incontrano anziani con barbe incolte. Molti camminano e brontolano, riempiendo la strada di mormorii. I loro corpi sono lenti, curvi, alcuni sostenuti da stampelle o accasciati su sedie a rotelle. Sono gli abitanti di Kamagasaki: persone senza dimora e pensionati logorati dal lavoro e respinti dalla loro epoca. “Devo essere uno degli ultimi sopravvissuti dell’Expo del 1970”, dice Motoharu Okamoto quando gli chiediamo di condividere i suoi ricordi. Ora vive proprio lì accanto. Aveva nove anni quando i genitori, non potendo sfamarlo, lo misero in un istituto, e quindici quando lasciò Kōchi, una regione povera nel sud dell’isola di Shikoku, per la grande Osaka. Nel 1967 era uno delle migliaia di manovali che dovettero abbattere una foresta di bambù, livellare una collina e scavare le fondamenta dell’Expo. “Guadagnavo 1.500 yen al giorno”, spiega il pensionato con sguardo gentile. “Giusto il necessario per vivere, tra il costo dell’alloggio e le ciotole di soba”. E per ubriacarsi: “La sera, dopo il lavoro, bevevamo e scommettevamo il resto dello stipendio a hanafuda (un gioco di carte). Questi sono i miei ricordi; abbiamo lavorato così duramente per l’Expo che non ne ho molti. Penso solo che la vita oggi sia più dura”.

Il parco dell’Expo 70, Osaka, 23 aprile 2025 (Kentaro Takahashi per M Le Magazine du Monde, 2)

Nel 1970 Okamoto non andò ad ascoltare Marlene Dietrich né ammirò il lavoro finito: “Era troppo costoso, non potevo permettermelo”. Non andrà a vedere neanche questa Esposizione universale, il cui tema – progettare la società del futuro, immaginare la nostra vita di domani – lo lascia perplesso.

Quasi tutti i colleghi di Jōtarō Shōji probabilmente sono morti. Insieme, oltre al padiglione ceco, hanno costruito il prestigioso padiglione giapponese: un gigantesco fiore di ciliegio metallico a cinque petali. Ma lui non ne va particolarmente orgoglioso. Preferisce raccontare la sua altra vita: quella con le immagini. Alla fine degli anni sessanta Shōji aveva risparmiato abbastanza per comprare una macchina fotografica e si era iscritto a una scuola di fotografia a Osaka. Diventato fotografo, aveva documentato la vita del ghetto. Doveva risparmiare per comprare la pellicola e si portava sempre dietro il materiale per stampare le foto nei retrobottega, “sempre in bianco e nero, come nei primi film di Godard, e perché era più facile farlo da soli”. Tra le sue fotografie, scattate tra il 1967 e il 1992, molti sono ritratti: “Ritraevo solo i miei amici; dovevo conoscere la persona prima di scattare”. Mostra un operaio in abiti anneriti. “Questo era il mio amico Enoken. C’è Ichimonji, un oyabun (padrino) alcolizzato, con un bel carattere. E c’è un ex agente di polizia che a Kamagasaki è diventato un vagabondo”. A volte la grana delle stampe è così grossa che sembra di guardare dei fantasmi.

Jōtarō Shōji non riusciva a guadagnarsi da vivere con le foto. La crisi del 1973 lo costrinse a tornare a lavorare nei cantieri.

Kanayo Ueda, Osaka, 23 aprile 2025  (Kentaro Takahashi)

I parchi si riempivano di tende, le strade di baracche di cartone. Il quartiere stava vivendo “la malinconia dei ‘trent’anni gloriosi’”, come Shōji chiama il periodo in cui scattò quelle immagini dal tono dantesco. In una si vedono, nella nebbia mattutina, sagome di operai accanto a due cani randagi “poi scomparsi, la gente non aveva più niente da mangiare”. A volte trascorreva la notte per strada. Lo ricorda con modestia, aggiungendo: “Se non hai mai dormito all’aperto, non puoi capire Kamagasaki”.

Cattiva fama

“Kamagasaki esisteva già prima del 1970, ma l’Expo l’ha trasformata”, spiega l’urbanista Toshio Mizuuchi nella hall di un hotel che un tempo era un bagno pubblico per operai. Mizuuchi vanta vent’anni di ricerche sul campo a Nishinari. Nel 1945 la zona era già etichettata come un covo di lavoratori poveri e piccoli delinquenti. L’ambientazione ideale per il regista Nagisa Ōshima, che nel 1960 girò Il cimitero del sole, un film che parla di una guerra tra bande sullo sfondo dello sfruttamento operaio e “ha contribuito all’immagine negativa” del quartiere. Kamagasaki è nata su un luogo dove si eseguivano le condanne a morte, il che non giova alla sua reputazione. “Dopo una rivolta dei suoi abitanti in seguito a un incidente stradale nel 1961, il municipio, volendo farne dimenticare il nome, lo cambiò in Airin (quartiere tenero)”, spiega Mizuuchi. “Ma tutti continuano a chiamarlo Kamagasaki”.

Nel 1965 la baraccopoli fu scelta per ospitare la manodopera reclutata per il gigantesco cantiere dell’Expo. Si trattava principalmente di dekasegi, migranti economici provenienti dalle zone rurali povere del Kyushu, dello Shikoku e di Okinawa. “Costruirono per loro dei dormitori, dōya, senza alcuna regolamentazione”, racconta il ricercatore . “In quelli soprannominati mammut, progettati per due-trecento persone, le stanze consistevano in un futon srotolato su un tatami”. Sempre meglio di una scatola grande quanto una bara. “Dopo l’Expo la zona si è politicizzata”, spiega Mizuuchi. “Nell’ottobre 1970 il municipio aprì un enorme mercato del lavoro giornaliero all’estremità settentrionale del distretto per impiegare tutti quegli operai. Allora i movimenti studenteschi a Tokyo e altrove in Giappone stavano finendo. Questo spinse una popolazione di attivisti di sinistra a spostarsi verso Kamagasaki”.

È uno di loro a raccontare il resto di questa storia. Minoru Yamada arrivò a Kamagasaki nel 1973 per conto del partito Shin-sayoku (Nuova sinistra). Decine di altri studenti fecero lo stesso. “Era un quartiere difficile. L’Expo aveva rafforzato il ruolo della yakuza, che estorceva denaro agli operai, e il nostro primo compito era combatterla fisicamente”, ricorda Yamada.

Kamagasaki diventò un rifugio per attivisti, compresi i gruppi violenti, che si sfidavano per strada o si nascondevano. Alcuni dei suoi compagni si unirono all’Armata rossa giapponese, la famigerata organizzazione armata di estrema sinistra. Yamada scelse la lotta sindacale per “le persone che non potevano vivere dignitosamente, che erano state abbandonate dalla società”. In quel periodo si rese conto che Kamagasaki aveva un ruolo nell’economia giapponese, era la valvola che regolava il lavoro non qualificato, “cosa che vale ancora oggi”. Alle elezioni locali e nazionali, questo settantenne libertario ormai vota per il Kōmeitō, partito buddista e conservatore che da anni governa in coalizione con il Partito liberaldemocratico: “È l’unico che ha parlato di problemi locali, di alloggi d’emergenza e di un reddito minimo garantito”.

Kamagasaki si è sempre svegliata presto. Chi cerca un impiego si presenta al mercato del lavoro prima delle cinque del mattino. Il ghetto comincia a risuonare, la sua colonna sonora è un misto di scampanellio di biciclette, gracchiare di corvi, schiamazzi di ubriachi e il tintinnio di un vecchio tram.

In questo giorno di fine aprile, di fronte a un grande edificio circondato da recinzioni metalliche, sede del centro di Airin per il lavoro e il welfare, un uomo parla al microfono denunciando le politiche contro la povertà perseguite dall’amministrazione municipale. Il partito populista Ishin no kai, che governa Osaka dal 2011, non parla ufficialmente della povertà che affligge Kamagasaki, ma promuove ampiamente la gentrificazione del quartiere. Il pubblico, una quarantina di lavoratori anziani che fumano e condividono il caffè, rimane in silenzio. Quando fu inaugurato, nel 1970, il ruolo di questo centro del lavoro era raccogliere offerte e candidati. Ma dalla crisi petrolifera del 1973 ospitava anche iniziative di assistenza sociale e serviva da rifugio per chi era rimasto senza casa.

L’uomo al microfono, Hiroshi Inagaki, che a ottant’anni guida il sindacato dei lavoratori giornalieri, lo frequentava molto perché “c’erano docce nel seminterrato, posti dove mangiare e dormire”. Quando nel 2019 è stato inaugurato un nuovo centro lì di fronte, centinaia di uomini si sono rifiutati di lasciare la vecchia sede, che era diventata un gelido atrio annerito dalla sporcizia. Finché nel dicembre 2024 la polizia l’ha evacuata. “Per distruggere i nostri ricordi. E fare spazio all’Expo”, dice l’uomo indignato con un sorriso.

Sotto i portici della metropolitana sopraelevata è il momento degli straccivendoli e dei mendicanti. Vestiti, sveglie, attrezzi arrugginiti, un’intera vita di seconda mano. Una rete di ferro si alza sui distributori automatici di alcolici, vietati quasi ovunque. Cento yen (61 centesimi di euro) per un bicchiere di saké, il doppio per una lattina di birra o di chuhai, una popolare bibita analcolica. I numerosi armadietti e le lavanderie a gettoni sono l’indizio di alloggi precari, come all’Apollo hotel, dove una notte su due tatami (tre metri quadrati) costa 850 yen (5,20 euro). Kamagasaki è rimasta il regno dell’arrangiarsi. Più avanti, una fila di persone lungo la vetrina di un negozio è in attesa di un pasto. Il quartiere non sarebbe sopravvissuto se non fosse per le tante organizzazioni di beneficienza che lì hanno trovato sede, tra cui chiese evangeliche, templi buddisti e una piccola comunità cattolica. “Morire soli e nell’anonimato è la paura principale degli abitanti, che non hanno più una famiglia”, spiega suor Utako, dell’associazione cattolica Furusato no ie. “È la paura di finire muenbotoke, come dicono i giapponesi, ‘morti senza appartenenza’”. Quindi, mentre il ruolo primario dei volontari è distribuire pasti, quello più importante rimane prendersi cura dei defunti, assicurando i riti funebri e la commemorazione. “Il municipio copre i costi della cremazione”, dice suor Utako, mostrando il colombario, una stanza stretta illuminata da lampade fluorescenti con loculi grandi come scatole da scarpe. Ce ne sono più di duecento, “dopo trent’anni a Kamagasaki credo di conoscerli tutti”. In una di queste, la numero 13, c’è la foto di un uomo robusto, calvo, con un occhio nero. “Era un operaio del cantiere dell’Expo, condivideva spesso i suoi ricordi, ne era orgoglioso”, dice la suora.

Finire la vita a Kamagasaki? Per Jōtarō Shōji era fuori questione, così nel 1992 tornò nella sua città natale, Yonago, a trecento chilometri da Osaka. Quando viene nell’ex ghetto, a cui è rimasto legato, l’anziano non manca mai di visitare il parco Sankaku. Si appoggia a una ringhiera per ammirarlo: un triangolo sabbioso, di sessanta metri per lato fiancheggiato da alberi e teloni di plastica. In passato era stato il teatro della strada, il luogo di manifestazioni, risse e scommesse. “Era un paradiso”, ci assicura. “La gente era povera, ma ardeva di vita”. Shōji è ancora innamorato dei suoi anni da bohémien.

Al contrario, Motoharu Okamoto si è rassegnato a invecchiare a Kamagasaki. Dopo aver gettato cemento e costruito ponti in tutto il paese, si è reso conto che da pensionato avrebbe ricevuto l’equivalente di 20mila euro (in Giappone, le pensioni sono spesso versate in un’unica soluzione). Così è tornato a Kamagasaki. “Con quei soldi sono riuscito a sopravvivere per due anni, poi ho vissuto per strada per tre. Ma non dormivo nel quartiere, avevo un posticino più in là”, confida l’ex operaio. Oggi sembra che il peggio sia passato. Si è trasferito in una casa di riposo vicino al ghetto, pagata con il sussidio sociale di 750 euro al mese riservata a chi ha più di 65 anni. “Siamo una cinquantina, c’è una sola donna”. L’appartamento in cui Okamoto finirà i suoi giorni misura l’equivalente di cinque tatami: otto metri quadrati. Non c’è molto, solo qualche piatto, qualche vestito. E un libro di poesie, le sue.

I parchi si riempivano di tende, le strade di baracche di cartone. Il quartiere stava vivendo “la malinconia dei ‘trent’anni gloriosi’”

Dieci anni fa Okamoto ha incontrato Kanayo Ueda, poeta e attivista sulla cinquantina, sempre in kimono, conosciuta in tutto il quartiere. Gestisce Cocoroom, uno spazio che è sia un ostello sia un’università popolare. In quel luogo atipico e libertario ha visto passare i poveri di Kamagasaki e ha ascoltato le loro storie. Alcuni le hanno lasciato un segno indelebile. Come il signor Ando, rimasto orfano dopo il bombardamento di Hiroshima, uomo furioso e solitario che imparò a scrivere per partecipare ai suoi laboratori di poesia. Kanayo Ueda tiene ancora lezioni di haiku, brevi poesie classiche in tre versi, che si dice siano in grado di riassumere una vita. Motoharu Okamoto le frequenta regolarmente. C’è una poesia di cui è orgoglioso e ce la legge:

“Il ciliegio selvatico

Perde le foglie silenziosamente.

Questa è la vita!”.

gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1618 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati