Con più di 150 milioni di copie vendute, Il signore degli anelli di J.R.R. Tolkien è uno dei romanzi più popolari del ventesimo secolo, e continua a essere amato dagli appassionati di tutto il mondo. La storia, che ha definito un genere, narra di un improbabile eroe di provincia destinato a salvare il mondo dalla distruzione (e della affiatata e multietnica compagnia che lo accompagna nella sua missione) ed è diventata il modello per innumerevoli imitazioni nel fantasy e nella fantascienza, senza contare le numerose trasposizioni della saga in film, serie televisive e videogiochi di grande successo.

Se però giudicassimo Tolkien in base a chi ne rivendica con più forza l’eredità, dovremmo cominciare a preoc­cuparci. Il vicepresidente degli Stati Uniti JD Vance ha dichiarato che Tolkien non è solo il suo autore preferito, ma che “gran parte della mia visione conservatrice del mondo è stata influenzata da Tolkien quando ero ragazzo”. Vance ha chiamato la sua azienda Narya, da uno dei tre anelli del potere elfici, e il suo mentore Peter Thiel si è ispirato a Tolkien quando ha scelto i nomi per le sue aziende: Palantir technologies, Mithril capital, Lembas capital, Valar ventures e Rivendell one. Negli anni settanta la destra italiana si è rivitalizzata nei campi hobbit, un’esperienza formativa dell’adolescenza anche per l’attuale premier Giorgia Meloni. In molti altri paesi gruppi di estrema destra e movimenti radicali venerano Tolkien. Recentemente, il programma britannico antiterrorismo Prevent lo ha addirittura catalogato (insieme ad altri autori come C.S. Lewis e George Orwell), in modo alquanto ridicolo, come una sorta di droga di passaggio alla radicalizzazione.

Christian Dellavedova

Fin dalla nascita negli anni settanta del piccolo ambito accademico degli studi sulla fantascienza si è diffusa l’idea che la fantascienza sia di sinistra mentre il fantasy di destra. La fantascienza parla di futuro, di utopie che un giorno l’umanità potrà costruire, di scienza; il fantasy, invece, guarda indietro a un passato immaginario fatto di re, imperi, guerre e magia (cioè, in sostanza, assurdità). Se la fantascienza è rivoluzione, il fantasy è restaurazione. O almeno così sostengono i critici marxisti che negli ultimi cinquant’anni hanno esaltato la fantascienza e denigrato il fantasy. Le opere fantasy di alcuni autori (come quelle di China Miéville, M. John Harrison, Michael Moorcock o Ursula K. Le Guin, che sfuggono a una classificazione di genere letterario) sono considerate eccezioni a questa tendenza generale, ma anche quando si ammette l’esistenza del fantasy di sinistra, Tolkien resta quasi sempre come un esempio negativo. In Il desiderio chiamato utopia, del 2007, il critico letterario statunitense Fredric Jameson interpretava Tolkien come il campione di un sistema di “nostalgia reazionaria”: il climax della sua opera più celebrata, dopotutto, si intitola Il ritorno del re (Tolkien considerava Il signore degli anelli un unico libro, ma di solito è pubblicato in tre volumi).

Come si giustifica questa lettura nell’opera di Tolkien? A prima vista Il signore degli anelli è una storia intrisa di razzismo (la superiorità degli elfi, nobili e dalla pelle chiara, contrapposta all’inferiorità degli orchi, brutali e meticci), di colonialismo e imperialismo (il ritorno del re equivale alla restaurazione dell’impero) e di un sessismo profondamente reazionario (con un cast principale composto quasi esclusivamente da uomini). C’è anche una diffusa diffidenza verso la democrazia, le città, la modernizzazione, il progresso, il relativismo culturale e il materialismo, a favore della monarchia, dell’agricoltura, della staticità, delle fantasie sul bene contro il male e di un tradizionalismo che a tratti sfiora il fondamentalismo religioso (Tolkien aderiva al cattolicesimo precedente al Concilio vaticano II). Il signore degli anelli è ossessionato dalle rovine, dalle genealogie, dal diritto divino degli aristocratici e da una visione della storia come una tragica e interminabile caduta in disgrazia.

Eppure Tolkien ha anche molti ammiratori di sinistra. Alcuni vedono in lui un autore che esalta gli eroi della classe lavoratrice come Sam Gamgee rispetto al più agiato e aristocratico Frodo, che propone un’etica fondata sul sacrificio, sull’altruismo e sulla rinuncia al potere in favore dell’umiltà e della vita comunitaria, e che esprime un profondo disprezzo per i tiranni di ogni sorta. Un esempio emblematico è il capitolo “La purificazione della contea”, verso la fine del Ritorno del re, in cui i quattro hobbit tornano a casa e scacciano i fascisti che hanno occupato la loro terra durante la loro assenza. La risposta è una combinazione d’ironia, disobbedienza civile e resistenza gioiosa, e un’insurrezione di massa che culmina in uno scontro violento con decine di vittime tra hobbit e uomini.

Il critico di sinistra che cerca di spiegare la sua predilezione per Il signore degli anelli, però, affianca ai suoi motivi delle precisazioni. La rappresentazione di Tolkien dello spirito di corpo in tempo di guerra – che unisce individui di origini diverse per uno scopo comune – può essere assimilata alla solidarietà necessaria per affrontare il duro lavoro del cambiamento sociale. Questa forma di cameratismo, tuttavia, sembra esserci solo nei momenti di crisi profonda e, in ogni caso, si fonda spesso sulla logica dell’odio razziale condiviso e implacabile nei confronti degli orchi.

L’opera di Tolkien si caratterizza anche per una commovente visione ecologica e un profondo amore per la natura. I giardinieri, in tutte le loro forme, si rivelano la chiave ultima per il benessere umano. Ma quello di Tolkien è un ambientalismo profondamente tragico, che è quasi impossibile separare dal desiderio degli elfi di fermare il tempo in un mondo che li sta sopravanzando. La contea degli hobbit offre il barlume di una possibile “terza via” alternativa sia al capitalismo sia al comunismo, due sistemi che Tolkien disprezzava in ugual misura. In ultima analisi, però, gli hobbit riescono a mantenere il loro piccolo paradiso solo grazie all’aiuto della magia, e tutto lascia intendere che alla fine il loro mondo sarà brutalmente spazzato via per lasciare spazio al nostro.

Infine, in Tolkien c’è un bellissimo sentimento antimilitarista, fondato sul ripudio della glorificazione della guerra e il rifiuto di esaltarne la violenza. Anche qui, però, si tratta di un pacifismo a metà, che viene messo da parte nei momenti in cui gli eroi sono chiamati a impugnare la spada. Il protagonista centrale del Signore degli anelli, Frodo, passa gran parte del finale del libro a implorare gli altri di smettere di farsi del male, ma non viene mai ascoltato.

Ho letto Il signore degli anelli moltissime volte da quando l’ho scoperto alle scuole elementari; a vent’anni sono stato addirittura licenziato perché lo stavo leggendo invece di lavorare. Oggi tengo un corso su Tolkien almeno ogni due anni. La Marquette university, dove insegno, ha il privilegio di custodire gran parte degli scritti originali di Tolkien, comprese le bozze del Signore degli anelli e del suo predecessore, Lo Hobbit. Ho avuto la fortuna di poter utilizzare questo straordinario archivio direttamente in aula.

Fin dalla nascita negli anni settanta del piccolo ambito accademico degli studi sulla fantascienza, si è diffusa l’idea che la fantascienza sia di sinistra mentre il fantasy di destra

Attraverso queste riletture e il lavoro d’archivio, ho capito che Il signore degli anelli invita a un approccio dialettico, in cui bisogna cogliere i momenti di contraddizione interna per interpretare il libro in modo critico, controcorrente. Il lavoro del professor Robert T. Tally jr. – che, come me, è stato allievo di Fredric Jameson e continua ad apprezzare Tolkien – è esemplare in questo senso. Tally scava nel testo alla ricerca di una serie d’indizi che suggeriscono che il declino degli elfi non è poi così tragico, o che, in fondo, la ragione sta dalla parte degli orchi. Nei rari momenti in cui vediamo gli orchi senza filtri, esprimono anche loro il desiderio di mettere fine alla guerra, manifestando disprezzo per il signore oscuro Sauron che li comanda e per i suoi orrendi Nazgûl, gli spettri dell’anello. La pietà inattesa di Sam per un uomo che, almeno formalmente, è suo nemico, dà vita a uno dei passaggi più giustamente citati del libro: “Si chiese come si chiamasse quell’uomo e da dove venisse; e se fosse davvero malvagio nel cuore, o se fossero state delle menzogne o delle minacce a spingerlo in quella lunga marcia lontano da casa; e se, in fondo, non avrebbe preferito restare lì in pace”. Parte di ciò che ha mantenuto vivo l’interesse per Lo Hobbit e Il signore degli anelli negli ultimi ottantasette anni sono proprio queste asperità e questi pensieri non del tutto risolti.

Per me, però, la chiave sta nella cornice narrativa di entrambi i lavori. Lo Hobbit e Il signore degli anelli non si sono presentati come semplici romanzi, ma come documenti storici riscoperti da uno studioso anonimo e offerti al ventesimo secolo come una storia dimenticata di un passato remotissimo. La vicenda del Signore degli anelli proverrebbe da una copia di una copia di un antichissimo volume intitolato Il libro rosso dei confini occidentali, che sarebbe stato scritto dai protagonisti della saga dopo gli eventi narrati e poi annotato, corretto e ampliato da altri nel corso del tempo. Questa presunta origine si evince dal curioso e solenne prologo del libro e dalle oltre cento pagine di appendici pseudoaccademiche che lo accompagnano.

Anche se i film e i videogiochi tratti dai libri non tengono conto di questa cornice di riferimento, e molti lettori la ignorano completamente, è un aspetto centrale nel progetto che Tolkien aveva in mente. È una chiave di lettura che si fonda non su fatti certi e incontrovertibili, ma su una narrazione storica profondamente contestata, costruita su fonti frammentarie e su un lungo dibattito. In certi punti (per esempio nelle appendici) la prosa del Signore degli anelli smette di essere fiabesca e si trasforma in una riflessione su cosa ricordiamo, come lo ricordiamo e perché.

Forse è una conseguenza inevitabile della carriera accademica che condivido con Tolkien (prima di diventare il più celebre autore di fantasy del mondo, era noto soprattutto come studioso di Beowulf), ma oggi quando rileggo Il signore degli anelli mi sento sempre più attratto dall’aspra battaglia sulla storicizzazione che si svolge ai margini di questo curioso documento. Il romanzo stesso sembra suggerire che potrebbero esistere altri libri rossi, oltre a quello che ci è arrivato. La fantasia reazionaria di una battaglia tra il bene assoluto e il male assoluto, in cui il bene trionfa e il male viene sconfitto, non regge nemmeno all’interno delle mille pagine del romanzo. Al contrario, Il signore degli anelli ci offre un armamentario critico che si autosmentisce, che sabota costantemente il testo principale e c’invita a prestare attenzione ai silenzi, alle lacune, alle omissioni; a diffidare del narratore e a scavare nelle contraddizioni. “Storicizzare sempre”, diceva Jameson. In un modo strano, profondamente disomogeneo, Il signore degli anelli sembra dirci la stessa cosa.

A volte i miei studenti si mostrano delusi dal destino di Éowyn, la guerriera protofemminista che descrive l’eteronormatività come una gabbia e dice che preferirebbe morire piuttosto che vivere secondo il copione imposto dal patriarcato, salvo poi finire comunque sposata. In questi casi faccio notare che sono proprio le appendici a raccontarci come, secoli dopo gli eventi, si discutesse ancora del significato della sua vita. È nelle appendici che scopriamo che il re Aragorn una volta riportato sul trono non ha mai smesso di combattere guerre, e che la sua regina è morta infelice, consumata dal dolore e dalla follia. Questi momenti d’incertezza testuale si ritrovano anche nel corpo principale del romanzo: passaggi che saltano improvvisamente avanti di decenni o secoli, che rompono la prospettiva narrativa, che sollevano domande sulla realtà della saga che il narratore non è in grado di spiegare, o che descrivono eventi mai realmente testimoniati, ma comunque presentati come fatti storici.

È proprio la radicale ambiguità e indecisione del testo a spiegare non solo perché Tolkien continui a resistere nel tempo, ma anche perché così tanti lettori di sinistra riescano ancora ad amarlo, nonostante i numerosi e convincenti motivi per cui non dovrebbero farlo. C’è sempre un altro filo da tirare, un’altra possibilità inaspettata da considerare, insieme a quella angosciante che JD Vance e quelli come lui abbiano ragione: che abbiamo ragione anche io e Tally. Il libro stesso non prende posizione, i suoi personaggi trascorrono il secolo successivo cercando di capire cosa abbia significato davvero la guerra dell’anello. Ed è in questi momenti d’instabilità testuale che quest’opera, così stranamente intramontabile, mi sembra più provocatoria, più inquieta, più interessante, più viva. ◆ fas

Gerry Canavan è professore e presidente del dipartimento d’inglese alla Marquette university di Milwaukee, negli Stati Uniti. Questo articolo è uscito sulla rivista statunitense di critica politica e culturale Dissent con il titolo “Tolkien against the grain”.

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Questo articolo è uscito sul numero 1631 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati