U n pomeriggio di giugno Mwazulu Diyabanza ha comprato un biglietto d’ingresso al Musée du quai Branly di Parigi, il museo sul lungosenna che ospita i tesori delle ex colonie francesi. Poi, insieme ad altri quattro compagni, ha vagato per le sale che ospitano le collezioni africane, ammirando i tesori in mostra. Ma a un certo punto quella che era cominciata come una semplice visita al museo si è trasformata in una protesta. Diyabanza si è messo a denunciare i furti dell’epoca coloniale mentre uno dei suoi accompagnatori filmava il discorso e lo trasmetteva in diretta su Facebook.
In seguito, con l’aiuto di un altro del gruppo, ha rimosso con la forza un palo funerario dell’ottocento proveniente da una regione che oggi fa parte del Ciad e del Sudan e si è diretto verso l’uscita. Le guardie del museo l’hanno fermato prima che potesse varcare la soglia.
Il mese successivo a Marsiglia, sempre in diretta Facebook, Diyabanza si è impossessato di un manufatto custodito nel Museo delle arti africane, oceaniche e americane (Maaoa), prima di essere intercettato dalla sicurezza.
Poche settimane fa, insieme ad altri attivisti ha prelevato una statua funeraria congolese dall’Afrika museum di Berg en Dal, nei Paesi Bassi, ma è stato fermato dagli agenti.
Il 30 settembre a Parigi è cominciato il processo a Diyabanza, portavoce di un movimento panafricano che chiede un risarcimento per i danni fatti dal colonialismo, dalla schiavitù e dall’appropriazione culturale. Insieme ai quattro compagni che hanno partecipato all’azione del Musée du quai Branly, è accusato di tentato furto in un procedimento che probabilmente porterà alla sbarra anche la Francia, il suo passato coloniale e il fatto che nei musei del paese è custodita una quantità enorme di reperti (circa novantamila) del patrimonio culturale subsahariano.
“Ho dovuto pagare con i miei soldi per ammirare qualcosa che è stato sottratto con la forza e che appartiene al continente da cui provengo. Per questo ho agito”, mi ha detto Diyabanza qualche giorno fa a Parigi. Ha descritto il Quai Branly come “un museo che contiene oggetti rubati” e ha sottolineato che “nessuno vieta a una persona di recuperare le sue proprietà nel momento in cui se le trova davanti”.
Uno degli avvocati sostiene che le azioni di Diyabanza non dovrebbero essere considerate un furto, ma una presa di posizione politica
Nel 2017 il presidente francese Emmanuel Macron ha promesso di restituire gli oggetti africani custoditi nei musei del paese, incaricando due esperti di preparare un rapporto su come farlo.
Il rapporto, pubblicato nel 2018, sostiene che le opere portate via dall’Africa subsahariana in tempi coloniali dovrebbero essere restituite nel caso in cui siano state “sottratte con la forza o si presume siano state acquistate in modo disonesto o iniquo”, e solo se i paesi di origine le richiedono. Finora sono state annunciate 27 restituzioni, ma solo un reperto è stato riportato a casa.
Un gesto spontaneo
Secondo la targhetta che è esposta nel museo, il palo funerario del Quai Branly è il regalo di un medico ed esploratore francese che condusse diverse missioni etnologiche in Africa. Ma per Diyabanza e i suoi compagni tutti i manufatti del museo sono frutto di un esproprio. Durante il discorso trasmesso in diretta prima del suo arresto, l’attivista aveva dichiarato di essere “venuto per rivendicare le proprietà dell’Africa sottratte durante il colonialismo”.
Diyabanza, che a novembre sarà processato anche a Marsiglia, sostiene che il suo è stato un gesto spontaneo, non premeditato, e dice di aver scelto quel palo perché non era fissato alla piattaforma. “Andrò ovunque la nostra arte e il nostro patrimonio sono tenuti prigionieri. E li riprenderò”, ha aggiunto.
Diyabanza non è l’unico attivista a prendere di mira i musei occidentali. Il 16 settembre Isaiah Ogundele, 34 anni, è stato condannato da un tribunale di Londra per aver messo in atto una protesta in una sala del Museum of London dedicata alla schiavitù. Secondo un portavoce del museo la dimostrazione si è svolta a gennaio davanti alle opere africane prese in prestito dal British Museum.
Protesta visuale
Gli amministratori dei musei temono che azioni simili possano moltiplicarsi, creando il caos e compromettendo il dialogo tra Europa e Africa per la restituzione delle opere.
Dan Hicks, professore di archeologia contemporanea all’università di Oxford e curatore del museo universitario Pitt Rivers, che custodisce una nutrita collezione di manufatti di epoca coloniale, ha definito l’azione di Diyabanza al Quai Branly una “protesta visuale” fatta su misura per i social network, che comporta un rovesciamento dei ruoli: in nome dei popoli africani un oggetto è stato sottratto all’Europa.
Secondo Hicks l’episodio solleva interrogativi importanti “sulla cultura, i problemi razziali, la violenza, la storia e la memoria. Quando si arriva al punto che le persone sentono il bisogno di protestare, significa che stiamo sbagliando qualcosa. Se le opere che esponiamo offendono la sensibilità di qualcuno vuol dire che dobbiamo aprire le porte al dialogo”, sostiene Hicks.
Durante una recente visita al Musée du quai Branly ho notato che il palo funerario dell’ottocento era sparito dalla collezione. Un portavoce del museo non ha voluto rispondere quando gli ho chiesto che fine avesse fatto il manufatto, ma una guardia mi ha rivelato che è in fase di restauro. Le uniche tracce dell’opera erano alcuni fori sulla piattaforma dove di solito è esposta.
Il portavoce del Quai Branly ha dichiarato che il museo, che nel processo a Diyabanza si è costituito parte civile, condanna fermamente il gesto dei cinque attivisti.
◆ 1978 Nasce a Kinshasa, nella Repubblica Democratica del Congo.
◆ 2020 Insieme ad altri attivisti entra nel Musée du quai Branly di Parigi e in segno di protesta cerca di rubare un manufatto della collezione africana.
In tribunale Diyabanza e i suoi compagni sono difesi da tre avvocati. “Abbiamo portato alla sbarra il colonialismo e la schiavitù”, spiega uno dei legali, Calvin Job. “Stiamo conducendo una battaglia legittima contro accuse ingiuste”, aggiunge. Lo stato francese secondo lui “conserva nelle sue collezioni oggetti che sono il risultato di furti. Se ci sono dei ladri in questa storia, non si trovano certo sul banco degli imputati, ma dall’altra parte”. Hakim Chergui, un altro degli avvocati, sostiene che l’azione di Diyabanza non dovrebbe essere considerata un tentativo di furto, ma una dichiarazione politica.
Chergui è convinto che gli imputati saranno assolti, perché la Francia non persegue le persone sulla base delle loro idee: “Non parliamo di una banda di ladri che voleva rubare una statua per rivenderla al mercato nero. Queste persone hanno un messaggio politico, e attraverso l’azione militante vogliono sensibilizzare l’opinione pubblica”.
La difesa si appella a un precedente in cui un’esponente del gruppo femminista Femen è stata assolta dall’accusa di atti osceni dopo aver mostrato il seno in un museo delle cere e aver preso d’assalto una statua del presidente russo Vladimir Putin. Una corte d’appello ha stabilito che il comportamento della donna costituiva una protesta politica.
Gli oggetti del nonno
L’intervista che ho organizzato con Diyabanza e i suoi avvocati si è svolta in un caffè all’aperto nei pressi della stazione della metropolitana Rosa-Parks, nella zona nord della capitale francese. Diyabanza indossava una collana d’avorio, un berretto nero e una spilla con la forma dell’Africa.
Da bambino, nel paese che all’epoca si chiamava Zaire e oggi si chiama Repubblica Democratica del Congo, sua madre gli raccontò che nell’ottocento gli europei avevano rubato tre oggetti molto importanti – un bastone intagliato, una pelle di leopardo e un braccialetto – di proprietà di suo nonno, un governatore provinciale dello Zaire che aveva ricevuto quegli oggetti dal re del paese come simboli di potere e autorità. “Quel patrimonio è stato brutalmente estorto”, accusa Diyabanza. “La storia che mi raccontò mia madre ha plasmato il mio modo di pensare, mi ha instillato il desiderio di riportarlo a casa, prima o poi”.
Mentre parlava, un ciclista di passaggio che aveva visto dei suoi video sui social network l’ha riconosciuto e si è fermato per scambiare qualche parola. “Ti seguiamo, appoggiamo le tue idee e ti sosteniamo. Ma sta’ attento”, l’ha ammonito il ciclista, uno studente francese di matematica di origini nigeriane-beninesi. E ha aggiunto: “In linea di principio hai perfettamente ragione sul museo, ma quello non è il modo giusto di agire. Devi usare la legge per farti sentire. Altrimenti trasmetterai un’immagine negativa di noi africani e nessuno ti ascolterà”. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1379 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati