Le indiscrezioni hanno cominciato a circolare quasi contemporaneamente al virus. Le ipotesi su un’arma biologica scatenata da una potenza straniera ostile sono comparse ai margini dei social network cinesi lo stesso giorno in cui Pechino annunciavano lo scoppio di una misteriosa infezione. “Attenzione agli americani!”, scriveva un utente di Weibo (il Twitter cinese) il 31 dicembre 2019. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha denunciato subito un’epidemia di disinformazione sul covid-19, ma a un anno di distanza la teoria del complotto va avanti: ad alimentarla sono le autorità cinesi, che hanno tutto l’interesse a sollevare dubbi sull’origine di una pandemia che ha causato più di due milioni di vittime in tutto il mondo.

Da Pechino a Washington, da Mosca a Teheran, i leader politici e i mezzi d’informazione di stato hanno sostanzialmente fatto da megafono a teorie del complotto per loro politicamente convenienti. È stata però la Cina, finita sotto attacco per la gestione iniziale dell’epidemia, a diffondere per prima informazioni false sulle origini del nuovo coronavirus.

Secondo un’inchiesta dell’Associated Press realizzata in collaborazione con il Digital forensic research lab dell’Atlantic council, la voce di un coinvolgimento degli Stati Uniti nella creazione del sars-cov-2 è stata strumentalizzata ad arte dal governo di Pechino, diffondendosi dai recessi più oscuri di internet fino a raggiungere milioni di persone in tutto il mondo. Le conclusioni dell’inchiesta si basano sull’analisi di milioni di post e articoli pubblicati su piattaforme come Twitter, Facebook, VK, Weibo, WeChat, YouTube, Telegram.

Le autorità cinesi reagivano a una teoria molto diffusa, alimentata negli Stati Uniti da gruppi legati a QAnon, ma anche dall’emittente Fox News, dal presidente Donald Trump e da figure di rilievo del Partito repubblicano, secondo cui il covid-19 era stato creato in un laboratorio cinese. Secondo il ministero degli esteri cinese, Pechino ha cercato di ristabilire la verità difendendosi sui social network occidentali dalle forze ostili che volevano sfruttare politicamente la pandemia.

Il virus dell’informazione

Nel marzo del 2020, a soli tre mesi dalla comparsa del covid-19 in Cina, la convinzione che il virus fosse stato creato in laboratorio a scopi militari era molto diffusa. Secondo il Pew research center, uno statunitense su tre credeva che il nuovo coronavirus fosse nato in laboratorio, e uno su quattro che fosse stato fabbricato intenzionalmente. In Iran, le autorità rifiutavano gli aiuti sanitari stranieri sulla base di un presunto complotto legato ad armi biologiche. In tutto il mondo gruppi contro il lockdown e contro l’obbligo delle mascherine sostenevano che il covid-19 fosse una bufala e un’arma biologica, complicando gli sforzi della sanità pubblica.

“È come il sars-cov-2, è un virus dell’informazione”, spiega Kang Liu, docente della Duke university esperto di politica culturale e mezzi d’informazione cinesi. “Abbiamo una doppia pandemia: la malattia infettiva vera e propria e la pandemia della paura. La paura è la vera posta in gioco”.

Il 26 gennaio 2020 un abitante della provincia cinese della Mongolia Interna ha pubblicato un video in cui sosteneva che il nuovo virus era un’arma biologica progettata dagli Stati Uniti. Il video è stato visualizzato 14mila volte sull’app cinese Kuaishou prima di essere rimosso. L’uomo è stato arrestato, tenuto in carcere per dieci giorni e sanzionato per aver diffuso informazioni false. Il Quotidiano del Popolo, organo ufficiale del Partito comunista cinese, ha pubblicato la notizia all’inizio di febbraio, mostrando l’uomo in cella con il volto pixelato e i polsi e le caviglie ammanettati. Oltre a ricordare ai cittadini che con le fake news si rischiava l’arresto, l’articolo rientrava nella strategia dei mezzi d’informazione statali cinesi per smontare le ipotesi del complotto sul covid-19.

Sei settimane dopo, però, la stessa teoria è stata rilanciata dal ministero degli esteri di Pechino, ripresa da una trentina tra diplomatici e funzionari cinesi e amplificata dalla vasta rete internazionale di organi di stampa controllati dalla Cina. In quelle sei settimane le autorità cinesi sono state fortemente criticate dai cittadini. Uno dei motivi era la morte per covid-19, il 7 febbraio, di Li Wenliang, il medico che era stato punito per aver dato per primo l’allarme sull’epidemia. Le manifestazioni di dolore e di rabbia scatenate per la morte di Li sono state qualcosa d’insolito nello spazio pubblico rigidamente controllato della Cina.

Nel frattempo, esponenti di peso della politica statunitense, dal presidente Donald Trump ai deputati repubblicani, cominciavano a chiamare il covid-19 “il virus cinese”, accreditando alcune pseudoteorie che accusavano gli scienziati cinesi di avere creato il virus. Secondo i ricercatori del Center for responsible technology dell’Australia institute, seguaci di Trump o di QAnon hanno alimentato la disinformazione sui social network, ritwittando ripetutamente gli stessi contenuti in cui si sosteneva che la Cina aveva creato il virus per farne un’arma biologica.

Così Pechino è passata al contrattacco: il 22 febbraio il Quotidiano del Popolo pubblicava un servizio che dava credito a un’illazione secondo cui a portare il virus nel paese asiatico sarebbe stato l’esercito statunitense. La notizia è stata rilanciata in tutto il mondo attraverso una serie di inserti pubblicati su giornali come il finlandese Helsinki Times e il New Zealand Herald. Il quotidiano neozelandese spiega che ha un “accordo ad hoc con il Quotidiano del Popolo”, in base al quale ne segnala gli articoli come contenuti sponsorizzati e li sottopone a un controllo prima di pubblicarli. L’Helsinki Times invece ha un accordo di “scambio” di contenuti con il quotidiano di Pechino: gli articoli della testata cinese sono pubblicati come contenuti sponsorizzati ma senza controlli. “Siamo convinti che i mezzi d’informazione occidentali a volte sono di parte”, dice Alexis Kouros, il direttore dell’Helsinki Times. “Anche se il Quotidiano del Popolo è di proprietà statale, come la Bbc, riteniamo che sia un bene per i lettori sentire entrambe le campane”.

I messaggi provenienti dalla Cina sono stati amplificati da una serie di teorie complottiste che circolavano negli Stati Uniti

I canali del Cremlino

Per la sua controffensiva la Cina si è appoggiata alla strategia e alle infrastrutture di disinformazione russe, affidandosi a una consolidata rete di canali vicini al Cremlino attivi in occidente. “L’uno amplificava l’altro. È difficile dire quanto fossero controllati dall’alto e quanto invece fossero mossi da semplice opportunismo”, osserva Janis Sarts, direttrice del Centro di eccellenza della Nato per le comunicazioni strategiche (StratCom), che ha sede a Riga, in Lettonia. Per molto tempo la Cina sarà “l’avversario più formidabile per via delle capacità tecnologiche che è in grado di mettere in campo”, aggiunge.

A gennaio del 2020 i mezzi d’informazione statali russi hanno amplificato la teoria complottista contro gli Stati Uniti. Il 20 gennaio la Zvezda, organo ufficiale dell’esercito russo, scriveva che l’epidemia in Cina era collegata a un test sulle armi biologiche, citando come fonte Igor Nikulin, candidato alle elezioni quattro volte e sempre bocciato. Nikulin sostiene di aver collaborato con l’Onu per il disarmo in Iraq dal 1998 al 2003, anche in veste di consulente dell’ex segretario generale Kofi Annan. All’Onu, però, non c’è traccia di questa collaborazione. Lui dice che le prove potrebbero essere state distrutte e continua a sostenere che il covid-19 sia un’arma progettata dagli Stati Uniti. “Che altre prove servono?!”, ha scritto in un’email all’Associated Press (Ap).

Nei due mesi successivi, febbraio e marzo del 2020, sono apparsi su mezzi d’informazione filorussi più di settanta articoli in russo, spagnolo, armeno, arabo, inglese e tedesco in cui si appoggiavano teorie simili. Lo rivela un’analisi dell’Ap su un database raccolto da EUvsDisinfo, che monitora la disinformazione nell’Unione europea. Varie testate online identificate come filorusse hanno rilanciato la versione delle armi biologiche, dandole sempre maggiore diffusione e risonanza.

I politici russi si univano al coro e la teo­ria di Nikulin sull’esplosione della pandemia si trasformava: il virus era stato creato non per attaccare la Cina, ma per attaccare Trump. Nonostante le sue incoerenze e la sua discutibile buona fede, ad aprile Nikulin è apparso almeno 18 volte alla tv russa. Le autorità statunitensi accusano anche l’intelligence di Mosca di aver contribuito alla disinformazione sul ­covid-19.

La squadra dell’Oms che indaga sull’origine del sars-cov-2, Wuhan, Cina, 3 febbraio 2021 (Thomas Peter, Reuters/Contrasto)

Il 23 gennaio 2020 Pechino ordinava la più grande quarantena nella storia moderna, isolando decine di milioni di persone nell’epicentro dell’epidemia. La mattina dopo, verso le 11, Francis Boyle, una laurea a Harvard e una cattedra di diritto all’università dell’Illinois, ha inviato un “allarme mondiale” a trecento suoi contatti sostenendo, senza alcuna prova, che il coronavirus fosse un’arma biologica sviluppata dalla Cina in un laboratorio per la biosicurezza a Wuhan. Nelle settimane successive Boyle ha affinato la sua teoria: gli scienziati cinesi non avevano sviluppato il virus da soli, ma lo avevano preso da un laboratorio del North Carolina. “Si tratta chiaramente di un agente biologico bellico”, dichiarava Boyle al complottista Alex Jones in una puntata del programma televisivo Infowars il 19 febbraio. La teoria è stata ripresa da testate come il One America News Net­work, un’emittente trumpiana, e l’iraniana Press TV, oltre che da Global Research e dalla sua ex affiliata, la Strategic Culture Foundation, una rivista online che si spaccia per indipendente ma che secondo il dipartimento di stato americano è diretta dai servizi segreti russi.

Il 9 marzo 2020 un account pubblico dell’app cinese WeChat chiamato Happy Reading List postava un articolo in cui si sosteneva che l’esercito statunitense aveva creato il sars-cov-2 in un laboratorio a Fort Detrick, nel Maryland, e l’aveva diffuso in Cina durante i Giochi mondiali militari, una competizione internazionale per atleti militari che si era svolta a Wuhan nell’ottobre del 2019. L’account, poi sospeso, era stato registrato a maggio del 2019 da una donna dello Henan, nella Cina centrale, che non ha mai risposto ai nostri messaggi. Non è chiaro chi abbia scritto l’articolo, che si può ancora leggere su diversi account WeChat. Il giorno dopo quel post, sull’ormai defunto portale We the People della Casa Bianca, è apparsa una petizione anonima che invitava le autorità statunitensi a chiarire se il virus fosse stato davvero sviluppato a Fort Detrick. I mezzi d’informazione statali cinesi hanno dato ampio risalto alla petizione, che però è stata firmata solo da 1.426 persone, molte meno delle 100mila necessarie per avere una risposta dalla Casa Bianca.

L’11 marzo Larry Romanoff, un sedicente ex consulente di Shanghai, ha pubblicato su Global Research Canada un articolo che attingeva a piene mani al post di Happy Reading List, citandolo come fonte. “Molti articoli nascono in spazi controllati dalla Russia e poi vengono ripresi da Global Research, che li spaccia per suoi. Poi arrivano i mezzi d’informazione russi e scrivono che quelle cose le dicono gli analisti occidentali. Lo chiamiamo “‘riciclaggio informativo’”, spiega Sarts, la direttrice di StratCom. “Questi canali sono sempre stati molto utili alle attività di disinformazione russa e ultimamente anche a quelle cinesi”.

Il giorno in cui è stato pubblicato l’articolo di Romanoff, l’Oms ha dichiarato che era in corso una pandemia. Zhao Lijian, portavoce del ministero degli esteri cinese, ha passato gran parte del pomeriggio successivo a ritwittare video di cagnolini. Poi, a tarda notte, in tredici minuti ha postato una raffica di tweet che hanno dato il via a quello che è forse il primo esperimento di disinformazione globale online di Pechino. “Da quanto tempo il paziente zero circola negli Stati Uniti?”, scriveva Zhao. “Quanti sono i contagiati? In quali ospedali? Forse è stato l’esercito statunitense a portare l’epidemia a Wuhan. Siate trasparenti! Pubblicate i vostri dati! Gli Stati Uniti ci devono una spiegazione!”. La mattina dopo, Zhao invitava le sue centinaia di migliaia di follower su Twitter a leggere e far circolare l’articolo di Romanoff. Un’ora e mezza dopo citava di nuovo Global Research, rimandando i suoi follower a un precedente articolo di Romanoff in cui si metteva in dubbio l’origine del virus. Twitter ha messo un’etichetta per indicare la necessità di una verifica del tweet in inglese di Zhao che chiamava in causa l’esercito statunitense. Un post identico in mandarino non riportava nessun avviso. I tweet di Zhao sono stati letti in tutto il mondo, orientando il dibattito sul nuovo coronavirus. Secondo l’analisi del DfrLab, nelle sei settimane successive gli undici tweet di Zhao sono stati ripresi 99mila volte, in almeno 54 lingue. Gli account che citavano Zhao avevano complessivamente quasi 275 milioni di follower, anche se il numero comprende quasi certamente duplicazioni e account falsi. Illustri esponenti conservatori, tra cui Donald Trump Jr., hanno condiviso i tweet di Zhao. Il Global Times, tabloid vicino al Partito comunista cinese, e almeno trenta account diplomatici cinesi, dalla Francia a Panamá, si sono affrettati a sostenere Zhao. Anche il ministro degli esteri venezuelano e il corrispondente di Rt a Caracas – oltre ad alcuni account sauditi vicini alla famiglia reale – hanno condiviso i tweet del portavoce del ministero degli esteri cinese, in spagnolo e in arabo.

Contagio iraniano

Le accuse di Zhao hanno trovato una vasta eco nei forum di discussione di ­QAnon. La cassa di risonanza più grande, però, è stata proprio la Cina, anche se Twitter è bandito nel paese. Gli hashtag nei tweet di Zhao sono stati visualizzati 314 milioni di volte su Weibo. Lo stesso giorno in cui Zhao ha insinuato su Twitter che il virus era stato portato in Cina dall’esercito statunitense, il leader supremo dell’Iran Ali Khamenei ipotizzava che il covid-19 fosse il frutto di un attacco biologico. I mezzi d’informazione di stato iraniani hanno dato ampio spazio al messaggio di Khamenei, cercando conferme su fonti straniere. Tasnim News, per esempio, ha citato Nikulin, il sedicente esperto russo di armi biologiche, per suggerire che gli Stati Uniti avessero creato il virus in laboratorio con lo scopo di attaccare la Cina. Javan Online, invece, ha citato i tweet di Zhao per dimostrare che le autorità cinesi avevano le prove di un coinvolgimento di Washing­ton nello scoppio della pandemia.

In Iran i leader militari e religiosi hanno parlato ripetutamente del virus come di un’arma biologica statunitense. E i loro commenti sono stati amplificati dai mezzi d’informazione russi e ripresi in Cina, dove hanno alimentato ulteriori illazioni. La International union of virtual media ­(Iuvm), un network iraniano più volte sospeso da Facebook, Google e Twitter, ha attivato siti web e account di social network che accusavano gli Stati Uniti di aver fabbricato il virus e tessevano le lodi della leadership cinese. Khamenei ha di nuovo citato la teoria del complotto nel suo discorso annuale per il capodanno persiano, il 22 marzo, in quel caso per giustificare il suo rifiuto degli aiuti provenienti dagli Stati Uniti. “Magari quelle medicine sono un modo per diffondere il virus”, ha detto il leader supremo alla nazione. Mentre parlava, atterrava in Iran il primo di due aerei carichi di medici e attrezzature per un ospedale da campo da cinquanta posti letto di Medici senza frontiere (Msf). Il giorno dopo il ministero degli esteri iraniano ha postato su Twitter un articolo dell’emittente statale cinese Cgtn (ristampato da Global Research) che riprendeva ancora la tesi su Fort Detrick. Il 24 marzo il ministro della salute iraniano negava a Msf l’autorizzazione a fornire aiuti per la lotta al covid-19.

Dieci giorni dopo i primi tweet complottisti di Zhao, è intervenuto l’apparato dei mezzi d’informazione cinesi. “Perché l’Istituto militare statunitense di ricerca medica sulle malattie infettive di Fort Detrick nel Maryland, la più grande base per i test biochimici, ha chiuso nel luglio del 2019?”, chiedeva in un editoriale in mandarino il 22 marzo China Radio International. Nel giro di pochi giorni il pezzo è apparso più di 350 volte sugli organi d’informazione di stato cinesi, principalmente in mandarino, ma è stato pubblicato anche in inglese, francese, italiano, portoghese, spagnolo e arabo. L’articolo ha fatto il giro della Cina attraverso gli account social di poliziotti, magistrati, dipartimenti di propaganda, associazioni e leghe giovanili comuniste. L’hanno condiviso perfino sette strutture carcerarie nella provincia del Sichuan e cinque stazioni radio del traffico provinciale e municipale, oltre a una decina di account gestiti dalla tv di stato Cctv.

L’ambasciata cinese in Francia ha pubblicato l’articolo su Twitter e Facebook. Il contenuto è stato condiviso anche su YouTube, Weibo, WeChat e su alcune piattaforme video cinesi. Una versione di sette secondi è stata postata su Douyin, la versione cinese di TikTok. “Chiaramente mettere in giro teorie del complotto e fare disinformazione non ha quasi mai conseguenze negative per loro”, dice Mareike Ohlberg, del German Marshall Fund. Secondo l’Ap l’articolo di China Radio International ha avuto più di sette milioni di visualizzazioni e 1,8 milioni di commenti, condivisioni o reazioni. I numeri sono sottostimati, perché molte piattaforme non pubblicano le statistiche sul traffico e non tengono conto del pubblico televisivo o della circolazione in gruppi chiusi. I messaggi provenienti dalla Cina sono stati amplificati da una serie di teorie complottiste che circolavano negli Stati Uniti. Alla fine di marzo, George Webb, un complottista di Washington, ha accusato su YouTube una soldata dell’esercito statunitense di essere la paziente zero e di aver portato il virus da Fort Detrick a Wuhan durante i Giochi militari di ottobre. Il video è arrivato in Cina ed è stato ripreso dal Global Times. La donna, ingiustamente accusata, è stata minacciata di morte. Il video di Webb è stato rimosso da YouTube, ma è tuttora disponibile in Cina su Weibo, dove è stato visualizzato milioni di volte.

Ad aprile la Russia e l’Iran hanno abbandonato quasi completamente il complottismo, almeno nella comunicazione ufficiale. Entrambi avevano una preoccupazione più urgente: il numero sempre più alto di morti. La Cina, invece, ha continuato. Agli occhi del mondo, Pechino era responsabile dello scoppio della pandemia. Negli Stati Uniti c’era chi invocava una “tariffa pandemica” e la cancellazione del debito con la Cina. I repubblicani hanno perfino provato a introdurre una legge che avrebbe privato la Cina dell’immunità sovrana, così da permettere agli statunitensi di far causa a Pechino.

Da sapere
Ipotesi improbabile

◆ Ai primi di febbraio del 2021 la squadra di esperti incaricati dall’Organizzazione mondiale della sanità di indagare sulle origini del sars-cov-2 è stata in missione a Wuhan, in Cina. In attesa del rapporto ufficiale, Dominic Dwyer, membro australiano della squadra, racconta su The Conversation cos’hanno scoperto. Il virus è quasi certamente di origine animale ed è passato agli esseri umani, probabilmente da un pipistrello, attraverso una specie non identificata. Non tutti i primi 174 malati di covid-19 erano stati al mercato indicato subito come epicentro dell’epidemia, neanche il primo infettato nel dicembre 2019. Quindi, più che il luogo della prima trasmissione a un essere umano, il mercato è stato probabilmente un luogo di moltiplicazione dei contagi. L’ipotesi che il virus sia uscito da un laboratorio, hanno concluso gli esperti, è “molto improbabile”.


Quando le autorità australiane hanno chiesto di aprire un’inchiesta sulle origini e la diffusione del covid-19, l’ambasciatore cinese a Canberra, Cheng Jingye, ha lanciato una velata minaccia: “Magari la gente comincerà a dire: ‘Perché bere vino australiano? O mangiare carne australiana?’”. Un mese dopo, Pechino bloccava le importazioni da quattro grandi produttori australiani di carne bovina e imponeva una tariffa dell’80 per cento sull’orzo prodotto in Australia.

Le autorità e i mezzi d’informazione di stato cinesi hanno continuato a dare spazio alle teorie del complotto nate negli Stati Uniti. Il 16 maggio l’emittente statale Cgtn ha mandato in onda un documentario tendenzioso su Fort Detrick accompagnato da una musica angosciante, che è stato visualizzato più di 82mila volte sul canale YouTube della rete. Il documentario è stato riprodotto 378mila volte sulla piattaforma cinese Bilibili e in inglese, francese, spagnolo, arabo, indonesiano e filippino. L’ha trasmesso anche la Ntv, una rete televisiva di Houston rivolta agli immigrati dall’Asia meridionale, che non si è accorta che il contenuto era propaganda di Pechino. A luglio e agosto Zhao, il portavoce del ministero degli esteri, ha rilanciato la storia su Fort Detrick in una serie di tweet non segnalati con il bollino della necessità di verifiche.

Un buon affare

Il 14 gennaio 2021 una squadra dell’Oms è arrivata in Cina per indagare sulle origini dell’epidemia. Il giorno dopo, in uno degli ultimi provvedimenti dell’amministrazione Trump, il dipartimento di stato degli Stati Uniti ha pubblicato un documento secondo cui il virus sarebbe sfuggito all’Istituto di virologia di Wuhan, che – sempre secondo il rapporto – collaborava a progetti segreti con l’esercito cinese.

Il ministero degli esteri di Pechino ha liquidato l’accusa come “l’ultima follia di mister Bugiardo”.“Se gli Stati Uniti rispettassero davvero i fatti dovrebbero aprire al pubblico il laboratorio biologico a Fort Detrick, essere più trasparenti sui duecento laboratori biologici che hanno all’estero e permettere agli esperti dell’Oms di fare il tracciamento dell’origine del virus negli Stati Uniti”, dichiarava la portavoce Hua Chunying il 18 gennaio. Parole che hanno avuto una vasta risonanza in Cina.

La disinformazione sul covid-19 è stata un buon affare per il ministero degli esteri di Pechino. In Cina, Zhao e i suoi colleghi possono contare su una base di sostenitori sempre più ampia e anche i loro follower su Twitter sono aumentati in maniera esponenziale. Zhao da solo ne ha più di 879mila.

Qualcuno si chiede quanto tutto questo seguito sia reale e quanto sia il frutto di account falsi, ma secondo il ministero sono sospetti infondati. “Alimentare notizie false sulla pandemia equivale di fatto a diffondere un ‘virus politico’”, ha detto il ministero degli esteri cinesi all’Ap. “Le informazioni false sono il nemico comune dell’umanità e la Cina si è sempre opposta alla loro creazione e diffusione”. ◆ fas

Erika Kinetz è stata corrispondente da Shanghai dell’Associated Press, una delle più grandi agenzie di stampa internazionali. Quest’inchiesta è frutto della collaborazione con l’Atlantic council digital forensic lab, che si occupa di disinformazione.

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Questo articolo è uscito sul numero 1399 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati