Abdul Tokhi è arrivato negli Stati Uniti dall’Afghanistan nel 2017. Un gruppo legato alla chiesa locale lo ha aiutato a trovare un appartamento a Corona, una città nell’Inland Empire, una regione di 70mila chilometri quadrati di deserti, montagne e terreni agricoli a est di Los Angeles, in California. La casa era arredata con mobili usati donati dai volontari, tra cui un tavolo, un divano e una vecchia tv. Il gruppo lo ha messo in contatto con un’agenzia interinale che gli ha trovato un lavoro come picker (addetto al prelievo della merce) in un magazzino di Amazon a Eastvale, una cittadina a 19 chilometri da Corona. Ha cominciato a lavorare per un salario di 12,25 dollari all’ora, mentre sua moglie si prendeva cura dei due bambini piccoli.

In Afghanistan Tokhi aveva lavorato nell’edilizia e nelle spedizioni, e a volte il datore di lavoro gli chiedeva di portare i soldi in banca per conto delle società appaltatrici. “I pagamenti erano in contanti, quindi era molto pericoloso”, racconta. “Rischiavo di essere derubato”. Ad Amazon, invece, si sentiva al sicuro e aveva alcuni benefit. Dopo un anno la sua paga è aumentata a 15 dollari all’ora; si è anche iscritto a un corso d’informatica in un’università pubblica locale. Due anni dopo, nel 2019, lavorava ancora come picker: prelevava gli articoli dagli scaffali e li preparava per la spedizione, sollevando fino a venti chili alla volta e mettendo a dura prova la sua schiena. L’affitto della casa era di 1.480 dollari al mese, e dopo aver preso lo stipendio gli restavano a malapena i soldi per le bollette, la spesa e il telefono cellulare. “Era faticoso”, racconta Tokhi. “Ma non m’importava. Avevo un lavoro e un buono stipendio”. Aveva perfino cominciato a farsi i primi amici statunitensi alla mensa del magazzino.

L’Inland Empire è il posto migliore per osservare la crescita inarrestabile di Amazon negli Stati Uniti. Nelle sue due contee, San Bernardino e Riverside, vivono 4,6 milioni di abitanti. Il primo magazzino di Amazon, chiamato Ont2, è atterrato qui come un’astronave nel 2012. All’inizio ci lavoravano solo tremila persone. Da allora Amazon è diventata il maggior datore di lavoro privato della regione, con 14 impianti e due hub logistici aerei. Il logo dell’azienda sfreccia sui furgoni e sui camion e vola in alto sugli aerei cargo. Nell’Inland Empire più di quarantamila persone lavorano nei magazzini Amazon come picker, imballatori, smistatori, scaricatori e manager, senza contare gli autotrasportatori indipendenti, i camionisti a contratto, i piloti e i tecnici aeronautici. La presenza dell’azienda nella vita della comunità si manifesta nei modi più diversi: qui Amazon, oltre a essere un datore di lavoro, è un canale tv, un negozio di alimentari, un sistema di sicurezza domestica e di raccolta di dati, una scuola superiore, un fornitore di servizi internet e un assistente personale.

A marzo 2020 Gavin Newsom, il governatore della California, ha ordinato il lockdown in tutto lo stato. Con la chiusura delle attività economiche, il tasso di disoccupazione nell’Inland Empire si è impennato. A pochi chilometri dal centro logistico Amazon di Eastvale, vari negozi che prima erano sempre pieni di clienti hanno cominciato a tagliare il personale. Ristoranti, alberghi e teatri si sono svuotati. Ma intanto Amazon annunciava l’assunzione di centomila lavoratori in tutto il paese, per soddisfare l’aumento degli ordini in un momento in cui la carta igienica e la candeggina andavano a ruba. L’azienda ha aumentato temporaneamente di due dollari all’ora il salario d’ingresso, ha offerto una serie di bonus ai nuovi assunti e ha potenziato il suo servizio di consegna della spesa a domicilio. Solo in California ha assunto 22mila nuovi dipendenti, più di ottomila nell’Inland Empire. Amazon è diventata la principale fonte di reddito per molti lavoratori del commercio al dettaglio rimasti disoccupati, che hanno dovuto adattarsi a una gestione iperottimizzata dei magazzini per la massima efficienza logistica. Nel magazzino a Eastvale, chiamato Lgb3, Tokhi ha notato che i nuovi dipendenti erano aumentati all’improvviso. Le persone che era abituato a vedere durante il suo turno erano sparite. Erano rimaste a casa perché avevano paura di ammalarsi di covid-19? O forse si erano già ammalate? Molti suoi colleghi che si facevano le stesse domande hanno cercato una risposta su Face­book. Tokhi, come altri dipendenti di Amazon, ha cambiato la sua immagine del profilo, inserendo un cerchio arancione con la scritta: “Non posso stare a casa… lavoro per Amazon”. Il 28 marzo 2020 su un gruppo Facebook riservato agli addetti al magazzino un utente ha chiesto se qualcuno aveva sentito parlare di un dipendente del magazzino Lbt3 positivo al sars-cov-2: “Vorrei una conferma attendibile”, ha scritto”. Un altro ha risposto: “Ho sentito solo che ha fatto il test, non c’è niente di confermato. Se vi risulta qualcosa di diverso fatemelo sapere perché mercoledì, dopo che me lo hanno detto, non sono andato a lavorare”.

Su un altro gruppo Facebook, chiamato Ie Amazonians Unite, una petizione pubblicata a nome dei dipendenti del magazzino di Eastvale chiedeva la chiusura dell’impianto “per almeno due settimane”. I lavoratori chiedevano anche un congedo retribuito durante la sanificazione della struttura, tamponi gratuiti, un’indennità di rischio, un contributo per l’assistenza all’infanzia e vari tipi di sussidi.

Trimestre d’oro

Man mano che aumentavano i casi di
covid-19 nei magazzini della zona, cresceva anche la preoccupazione per la sicurezza e la qualità del lavoro. Una donna ha scritto: “Lavoro al magazzino Lgb3 e ho già firmato, ho un bambino di nove mesi e i miei genitori mi pagano l’affitto. Mio padre è sopravvissuto a un tumore al quarto stadio, il suo sistema immunitario è molto debole. La cosa che mi preoccupa”, ha continuato, “è che Amazon sembra fare solo il minimo indispensabile. Tutti questi nuovi assunti che entrano nel magazzino si accalcano intorno agli istruttori perché il rumore delle macchine è troppo forte e non riescono a sentirli”.

Amazon ha risposto alle richieste concedendo un permesso non retribuito a chi non se la sentiva di andare a lavorare. “È una stronzata, devono pagarci per due settimane”, ha commentato un dipendente. “Devono sanificare il magazzino. Anche le nostre vite contano”.

Mentre negli Stati Uniti milioni di persone chiedevano il sussidio di disoccupazione, Amazon vedeva i suoi profitti schizzare alle stelle e continuava ad assumere nuovi magazzinieri, ingegneri e corrieri. Tra gennaio e ottobre del 2020 l’azienda ha assunto 427.300 nuovi dipendenti in tutto il mondo. Negli Stati Uniti ha intenzione di aprire mille nuovi impianti nelle periferie delle città, per soddisfare le richieste di consegna in giornata, e di assumere migliaia di lavoratori per Amazon Fresh, il servizio di consegna di prodotti alimentari. Nessun’altra azienda nella storia – nemmeno la Walmart, la prima società privata per numero di dipendenti negli Stati Uniti – ha assunto tante persone in un solo anno. A dicembre Amazon aveva 1,3 milioni di dipendenti nel mondo. Nel quarto trimestre del 2020 ha registrato ricavi dalle vendite per 125,6 miliardi di dollari, il fatturato trimestrale più alto di sempre.

In posti come l’Inland Empire le opportunità di lavorare come picker e smistatori di magazzino sono diventate praticamente infinite. Per molte persone che prima della pandemia facevano tanti lavoretti per arrotondare, Amazon è diventata improvvisamente l’unica fonte di guadagno. Spesso il lavoro è fisicamente spossante, con le quote di produzione che dettano i ritmi. Per scansionare fino a 300 articoli all’ora, alcuni lavoratori scelgono di non andare in bagno o si fanno male. Il contratto di lavoro prevede l’assistenza sanitaria e un piano pensionistico, ma la velocità di ricambio del personale è talmente alta che molti lavoratori non restano abbastanza per beneficiarne.

Protesta per chiedere condizioni migliori per i lavoratori di Amazon. New York, dicembre 2019 (Gabriele Holtermann-Gorden/Pacific Press/Alamy)

Mentre il virus si diffondeva, le bacheche online si riempivano con le offerte di lavoro di Amazon. “Sembra veramente che Amazon sia l’unica scelta possibile”, dice Sheheryar Kaoosji, direttore generale del Warehouse worker resource center, un’organizzazione non profit locale creata per migliorare le condizioni dei lavoratori. E se non è Amazon, “è un altro magazzino dove le condizioni sono le stesse”.

Spesso i nuovi assunti chiedevano consigli nei gruppi Facebook. Quelli che prima della pandemia lavoravano nel settore alimentare o nel commercio al dettaglio chiedevano aiuto soprattutto per gestire lo stress fisico: nei magazzini di Amazon ci si china di continuo, si sta per molto tempo accovacciati, si sollevano pesi e si percorrono chilometri. “Cercano scatole per tutto il giorno. Non sono abituati a chinarsi così spesso, e all’improvviso si spezzano”, dice Brian Freeman, avvocato specializzato in risarcimenti sul lavoro che ha rappresentato 78 dipendenti di Amazon nell’Inland Empire. I lavoratori più anziani davano consigli basandosi sulla loro esperienza: scarpe con una suola più morbida, le calze a compressione, ibuprofene (prima dei turni, durante le pause e poi dopo il lavoro). Raccomandavano curcuma per le infiammazioni, bagni caldi ai sali di epsom e boccette di olio essenziale per i dolori muscolari.

Punto di rottura

Quando gli addetti dei magazzini hanno cominciato ad ammalarsi di covid-19, il tono delle chat è cambiato, lasciando spazio all’esasperazione. “Nessuno ci ha informato del secondo caso fino a due settimane dopo la segnalazione”, ha scritto un utente del gruppo dei lavoratori di Amazon su Facebook. “Ora abbiamo un terzo caso, sono passate quasi due settimane e non siamo ancora stati informati ufficialmente. Se non fosse che condividiamo le informazioni sul gruppo Facebook, non lo avremmo nemmeno saputo”.

Ma a un certo punto è successa una cosa inaspettata: anche chi non si era mai lamentato delle condizioni di lavoro o non si considerava un attivista ha cominciato a parlare. Fino a quel momento Amazon era sempre riuscita ad arginare l’organizzazione dei lavoratori convocando riunioni contro i sindacati a cui i dipendenti erano tenuti a partecipare. E, pur riconoscendo formalmente il diritto di iscriversi a un sindacato, cercava di convincere i lavoratori che facendolo avrebbero chiamato in causa un intermediario non necessario.

Il covid-19 ha segnato un punto di rottura. Alcuni lavoratori non erano più disposti a fare concessioni a un’azienda che metteva a repentaglio la loro sicurezza e, forse, la loro vita. “Il modo in cui ci trattano non è etico né corretto”, ha scritto un dipendente ad aprile del 2020, esortando i colleghi a presentare un reclamo alla Occupational safety and health administration, l’agenzia governativa che si occupa di sicurezza sul lavoro. “Ok, ci hanno dato il congedo illimitato non retribuito”, ha scritto un altro, “ma diciamoci la verità: vale la pena di morire per questo?”. Un dipendente del Texas ha aggiunto: “Dobbiamo sindacalizzarci a livello nazionale, per farci sentire sia sulla salute sia sulle condizioni di lavoro”.

Preoccupati per la salute, a marzo alcuni dipendenti di un magazzino Amazon a Staten Island, a New York, si sono rifiutati di lavorare. Il giorno dopo i lavoratori della Whole Foods (azienda del settore alimentare di proprietà di Amazon) si sono messi in malattia in segno di protesta, chiedendo pulizie più frequenti e il congedo retribuito per i lavoratori in quarantena.

“Qui la gente si sta facendo questa domanda: sto rischiando la mia vita per accontentare una persona che ha ordinato un vibratore?”, osserva Mario Vasquez, un sindacalista di Teamsters local 1932, che rappresenta principalmente i lavoratori del settore pubblico nell’Inland Empire. “La gente sta prendendo coscienza di questa contraddizione sconvolgente e si chiede se ne valga la pena”.

Sul gruppo Facebook Amazon ware­house associates un utente ha pubblicato un articolo sui lavoratori di un centro logistico Amazon in Italia che sono riusciti a ottenere nuove misure di sicurezza e una pausa in più al giorno. “Peccato che non abbiano chiesto più soldi, ma almeno si sono difesi”, ha scritto. Un altro utente ha commentato: “Troppe persone spaventate sono disposte ad accettare qualsiasi schifezza solo perché si sono convinte di non avere potere. Ma noi siamo centinaia di migliaia, loro sono solo pochi dirigenti”.

Nelle città aziendali del passato “il datore di lavoro era una sorta di grande fratello”

Nella primavera del 2020 i lavoratori si sono fermati nei magazzini Amazon di New York, Detroit e dell’Illinois. Il 21 aprile gli addetti ai magazzini hanno lanciato “uno sciopero nazionale”: più di 300 persone in almeno cinquanta stabilimenti si sono messe in malattia. Il 24 aprile si sono messi in malattia anche i lavoratori del reparto tecnologico, in segno di protesta contro il licenziamento di alcuni dipendenti e il trattamento riservato dall’azienda agli addetti al magazzino.

In queste settimane circa seimila lavoratori di Amazon in Alabama stanno votando sulla proposta di formare il primo sindacato interno nei venticinque anni di storia dell’azienda (il voto si concluderà il 29 marzo). Ma anche se dovessero decidere di farlo, la domanda rimane: le proteste straordinarie causate dal covid-19 si trasformeranno in un movimento sindacale radicato? “Improvvisamente i lavoratori hanno cominciato a organizzarsi”, osserva Ellen Reese, docente di sociologia all’università della California a Riverside, che sta conducendo studi sugli addetti dei magazzini di Amazon nell’Inland Empire. Non è scontato, però, che questo processo porti a una sindacalizzazione di massa, perché molti dipendenti, anche quelli di lunga data, rischiano di perdere il posto al minimo passo falso. “I lavoratori vengono licenziati anche per piccoli dettagli, o perché la loro produttività è scesa o magari perché sono svogliati”, dice Reese.

Questa precarietà è evidente nell’Inland Empire, dove da ottobre del 2020 Amazon ha assunto altri 7.500 lavoratori stagionali. “C’è questa specie di sottoclasse permanente di lavoratori che sono sempre sul filo del rasoio, che siano temporanei o assunti con contratti più lunghi”, dice Kaoosji. “Hai sempre il fiato sul collo. Se parli o se provi a organizzarti, ci sono un centinaio di persone fuori dalla porta pronte a prendere il tuo posto”.

Nel 2016, quando Amazon ha annunciato l’apertura del suo primo centro di distribuzione a Eastvale, la città aveva quasi 64mila abitanti ed era in grande espansione. La rivista Money all’epoca scriveva che Eastvale sembrava un “giocattolo nuovo di zecca”. Nel 2018 anch’io e la mia famiglia ci siamo trasferiti qui, spaventati dai prezzi esorbitanti delle case a Los Angeles. All’epoca Eastvale aveva pochi anni di vita. C’erano diverse buone scuole e i quartieri erano pieni di grandi case beige, pannelli solari e strade senza uscita quasi identiche tra loro. “Abito laggiù”, diceva mia figlia, indicando una strada. “No, aspetta, laggiù”, e indicava un altro isolato. Oggi la grande maggioranza dei residenti non lavora per Amazon, ma ci sono tantissimi pendolari che vivono in altre parti dell’Inland Empire e vengono a Eastvale per lavorare.

Una manifestazione a Bessemer, in Alabama, 20 febbraio 2021 (Erik McGregor, Sipa Usa/Alamy)

Troppi infortuni

I magazzini Amazon di Eastvale hanno più di seimila dipendenti (e quasi mille robot) e sono tra i più grandi centri Amazon del mondo. I problemi di sicurezza erano chiari anche prima della pandemia. Dalle registrazioni delle chiamate al 911 (il numero d’emergenza negli Stati Uniti) risulta che ad aprile del 2017 una dipendente di Amazon ha subìto una sospetta commozione cerebrale dopo che “una grossa scatola le era caduta in testa”. L’anno successivo un uomo di poco più di trent’anni è rimasto intrappolato tra due macchine nel reparto di produzione. “Il soggetto ha una gamba rotta”, si sente dalla registrazione della chiamata al 911.

Allatha Faruq, che nel 2018 lavorava nel magazzino di Eastvale, racconta che AmCare, il pronto soccorso interno di Amazon, era sempre pieno di dipendenti distesi a pancia in su che si massaggiavano i muscoli con spray antidolorifici o cuscinetti riscaldanti al mentolo, ingurgitavano ibuprofene o facevano stretching. Lei aveva continui mal di testa e ci andava spesso. Guardava i colleghi e pensava: “Questo è un problema”. Ogni volta che andava all’AmCare, vedeva colleghi diversi con i malanni più disparati. Molti non li aveva mai incontrati. “Cominci a capire quante persone si infortunano”.

Freeman, l’avvocato del lavoro, si è occupato del suo primo caso Amazon nell’Inland Empire nel 2014. Man mano che i magazzini aprivano, le chiamate dei dipendenti infortunati aumentavano, racconta. Quando i suoi clienti dicevano di essersi fatti male, i superiori li invitavano ad “andare prima all’ambulatorio interno”, dove il personale medico valutava e annotava la gravità delle lesioni e poi, in caso di necessità, consigliava l’intervento di un medico esterno.

Dal 2012 sono state aperte 301 indagini federali contro Amazon, che hanno accertato 59 violazioni sul posto di lavoro. A livello statale la Cal/Osha (la divisione californiana della Occupational safety and health administration) ha aperto 37 procedimenti contro Amazon nello stato e ha riscontrato 12 violazioni, ma è stata anche molto criticata per non aver indagato abbastanza sui casi di covid-19. Un’inchiesta dello scorso anno del sito Reveal ha esaminato più di 150 centri Amazon in tutti gli Stati Uniti e ha scoperto che nel 2018 e nel 2019 il tasso di infortuni nel magazzino di Eastvale superava di quattro volte la media nazionale.

Di recente l’azienda ha intensificato gli sforzi contro le attività sindacali

Amici dei robot

Alla fine di marzo Amazon ha confermato che un addetto al magazzino di Eastvale era risultato positivo al sars-cov-2 e la sera stessa ha comunicato ai dipendenti che c’era un secondo caso. Sono state subito fissate nuove regole: distanziamento fisico di un paio di metri, pranzi e pause scaglionate e salviette per disinfettare le postazioni di lavoro. Poco dopo l’azienda ha cominciato anche a misurare la temperatura all’ingresso.

Quando ha saputo del secondo caso, Tokhi si è spaventato e si è sentito indifeso. Temendo di ammalarsi, è andato all’AmCare, dove ha trovato due operatori sanitari che indossavano la mascherina. “Potete darmi una mascherina, per favore?”, ha chiesto. Gli hanno risposto che le mascherine erano solo per il personale sanitario. “E noi? Non siamo esseri umani?”, avrebbe voluto rispondere Tokhi. Ma ha tenuto i suoi pensieri per sé. Il fatto che i casi confermati nel centro di distribuzione di Eastvale fossero solo due non lo convinceva. “Qualcuno diceva che erano sette, altri parlavano di cinque”, racconta. I lavoratori erano tormentati dai dubbi. L’azienda assicurava che ogni nuovo caso di covid-19 sarebbe stato comunicato e che gli ambienti venivano regolarmente sanificati, ma Tokhi era scettico. A che serve pulire se il virus è nell’aria? Per stare più tranquillo, puliva la sua postazione a fondo, facendo attenzione a non trascurare niente e strofinando bene tutti i bottoni e i monitor. “Tenevo tutto pulito nel raggio di un metro”, racconta.

Per un anno i residenti di Eastvale si erano battuti contro la costruzione dei magazzini di Amazon. Citavano il caso dell’area residenziale intorno all’aeroporto di San Bernardino, dove la qualità dell’aria è peggiorata per colpa dell’inquinamento provocato dai camion e dai treni che trasportano le merci di Amazon. Nonostante questi sforzi, il primo magazzino di Amazon è spuntato praticamente da un giorno all’altro. Enormi bulldozer e gru hanno tirato su le pareti davanti agli occhi increduli dei residenti. L’intera operazione è stata completata in un solo weekend, con i pannelli allineati come gigantesche tessere del domino. Poco dopo è stato costruito un altro magazzino identico. Visibili entrambi dall’Interstate 15, la strada che attraversa l’Inland Empire, i due centri di distribuzione di Eastvale brillano al sole: 185mila metri quadrati delimitati da pannelli di colore grigio e verde lime. “Prima che mi candidassi molti dei miei amici non sapevano nemmeno dove fosse Eastvale”, dice la sindaca della città, Jocelyn Yow. Ormai ha imparato che quando parla di Eastvale deve dare Amazon come punto di riferimento.

Anno dopo anno al posto delle mucche al pascolo sono spuntate file ordinate di case, quasi tutte dotate di campanelli Ring e dispositivi Alexa, prodotti da Amazon. Nel 2017 la Lennar, una delle più grandi imprese edili del paese, ha avviato una collaborazione con Amazon e oggi vende smart homes, case intelligenti, in 51 comunità dell’Inland Empire. Vivere a Eastvale significa convivere con Amazon.

Protesta contro Amazon a Seattle, novembre 2020 (David Ryder, Bloomberg/Getty Images)

La città, così come quelle vicine, ha indubbiamente beneficiato dell’aumento dell’occupazione e del gettito fiscale, ammette Todd Rigby, ex sindaco di Eastvale e oggi consigliere comunale. “Qui abbiamo un detto: il loro successo è anche il nostro successo”. Ma il futuro è incerto, perché Amazon sta affidando alle macchine molti compiti che prima erano svolti dai lavoratori. “Abbiamo approvato quei progetti convinti che sarebbe aumentata l’occupazione”, dice Rigby. “Ma più automatizzano, meno posti di lavoro ci saranno”.

L’Industrial technical learning center (InTech) ha aperto nell’Inland Empire lo stesso anno in cui a Eastvale è stato costruito il primo magazzino Amazon. È uno dei centri di formazione pensati per preparare la comunità al giorno in cui le fabbriche automatizzate del gigante dell’e-commerce sostituiranno i mestieri tradizionali. Durante una sessione di InTech a cui ho partecipato, gli studenti hanno imparato a riparare i bracci meccanici e a programmare le macchine. “È vero che il lavoro manuale non qualificato sta sparendo per via dei robot, ma si tratta di un tipo di lavoro che la maggior parte delle persone non vuole fare per tutta la vita”, dice Jon Fox, coordinatore delle attività di formazione di InTech. L’obiettivo della scuola è trasferire competenze alle nuove generazioni e spiegare che la manifattura e la logistica possono rappresentare “un ottimo sbocco professionale a lungo termine”, dice Fox, “con stipendi più che dignitosi”. I posti di lavoro nella programmazione e nella riparazione probabilmente non compenseranno tutti quelli che andranno persi a causa dell’automazione, aggiunge, “ma si creeranno nuove possibilità d’impiego”.

Amazon dice d’incoraggiare questi programmi di formazione, come tutte le iniziative che possono aiutare i dipendenti ad acquisire competenze per trasferirsi in altri settori, anche se questo potrebbe significare perdere lavoratori che troverebbero altrove condizioni migliori. Nel 2019 l’azienda ha annunciato un investimento di 700 milioni di dollari per riqualificare circa centomila dei 300mila dipendenti negli Stati Uniti entro il 2025, aiutandoli a diventare tecnici o programmatori. Diversi lavoratori impiegati negli stabilimenti di Amazon di Eastvale, però, mi hanno detto che non hanno intenzione di tornare a scuola mentre devono occuparsi dei figli e fanno fatica a pagare le bollette. L’opportunità, secondo loro, è soprattutto per i dipendenti più giovani e più flessibili.

A San Bernardino, a trenta chilometri dal campus di InTech, un gruppo di studenti del liceo Cajon ha frequentato l’Amazon logistics and business management pathway, uno degli otto corsi professionali promossi da Amazon. Gli alunni della Cajon, una scuola pubblica, provengono quasi tutti da famiglie a reddito medio e basso. Molti di loro hanno amici, familiari o vicini di casa che lavorano o hanno lavorato per Amazon.

Ho visitato il campus prima che la pandemia fermasse la didattica in presenza: dieci studenti sedevano ai tavoli di lavoro in un’aula progettata a immagine e somiglianza di Amazon: su una parete, il logo gigante dell’azienda sorrideva da uno striscione giallo e verde, con le frasi “ossessione per il cliente” e “risultati di consegna” dipinte su sfondo giallo. Su una lavagna un insegnante aveva scritto “progetto finale di logistica”, e la lezione del giorno era sui “14 princìpi della leadership” di Amazon. Ogni studente indossava una polo con il logo dell’azienda. Erano tutti orgogliosi di essere associati ad Amazon e mi hanno detto di aver già visitato molte volte i suoi magazzini.

Il progetto, mi ha spiegato una portavoce dell’azienda, prevede tutoraggi sulla robotica, formazione per insegnanti e crediti universitari trasferibili. Magari qualcuno userà l’esperienza nella logistica fatta alle superiori per laurearsi in economia o in gestione aziendale, permettendo ad Amazon di assumere più persone del posto. “Invece di andarsene a Los Angeles dopo il liceo, gli studenti potranno rimanere qui a lavorare”.

Tutto sotto controllo

La presenza di Amazon nell’Inland Empire fa pensare alle città aziendali che esistevano negli Stati Uniti tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento: posti dominati dalle industrie del carbone, dell’acciaio, del legname o delle fibre tessili in cui un’unica azienda amministrava e controllava un’intera comunità: dagli alloggi all’istruzione, dalla sanità al commercio al dettaglio, dai parchi alle chiese. All’inizio del novecento la città di Austin, in Minnesota, ruotava completamente intorno alla Hormel, un’azienda che si occupa del confezionamento della carne. La Hormel “controllava ogni aspetto della vita dei lavoratori, dai problemi familiari alle loro scelte in cabina elettorale”, scrive Hardy Green in The company town.

Nelle città aziendali del passato, spiega Green, “il datore di lavoro era una sorta di grande fratello: controllava o addirittura sostituiva il governo, riscuoteva gli affitti sugli alloggi di proprietà dell’azienda, dettava le abitudini di acquisto (possibilmente nei negozi aziendali), decideva dove le persone dovevano pregare e come potevano trascorrere il tempo libero”.

Con il passare degli anni, e soprattutto durante la grande depressione, le città aziendali diventarono importanti centri del movimento sindacale. Nel 1936 la General Motors (Gm), che aveva le sue fabbriche più importanti a Flint, nel Michigan, era la più grande casa automobilistica degli Stati Uniti e l’azienda più ricca del paese, con 262mila dipendenti e 57 stabilimenti tra Stati Uniti e Canada. Nel suo libro There is power in a union, Philip Dray scrive che Flint “era una città aziendale: gli operai, i rappresentanti eletti, perfino i giornali erano sempre stati fedeli all’azienda che dava lavoro a mezza città”. All’epoca il presidente della Gm probabilmente “non aveva capito fino a che punto gli operai delle catene di montaggio nei grandi stabilimenti automobilistici fossero frustrati per i crescenti livelli di automazione e i ritmi massacranti che non tenevano conto delle loro esigenze”. Il 30 dicembre del 1936 gli operai di due impianti della Fisher Body a Flint (di proprietà della Gm) “smisero semplicemente di lavorare” durante un picco di produzione, scrive Dray. “Era la prima volta che gli operai scioperavano occupando la fabbrica, una strategia che mandava particolarmente in crisi il settore automobilistico, basato sul flusso continuo di produzione”.

Da sapere
Le proteste in Italia

◆ Il 22 marzo 2021 in Italia c’è stato uno sciopero nazionale dei lavoratori di Amazon, proclamato da Filt Cgil, Fit Cisl e Uiltrasporti. È la prima mobilitazione al mondo che coinvolge tutta la filiera dell’azienda. Le principali rivendicazioni riguardano la verifica dei carichi di lavoro, la contrattazione dei turni, il corretto inquadramento professionale del personale, la riduzione dell’orario di lavoro dei driver (addetti alle consegne), la concessione dei buoni pasto, la stabilizzazione dei contratti a tempo determinato e dei lavoratori interinali e il blocco del turnover continuo. Inoltre i lavoratori chiedono un’indennità per aver continuato a lavorare durante la pandemia, quando gli ordini dei clienti e i profitti dell’azienda sono aumentati. Secondo i sindacati, la rete di Amazon in Italia dipende da 40mila lavoratori, tra cui 9.500 persone che lavorano nei magazzini e 19mila driver (che non sono assunti direttamente dall’azienda statunitense). In solidarietà con i lavoratori, la Federconsumatori ha invitato i suoi soci a non fare acquisti su Amazon in previsione del 22 marzo. Secondo i sindacati, l’adesione media allo sciopero è stata del 70-75 per cento, con livelli più alti a Genova, Piacenza, Bologna e Milano. The Guardian,
il manifesto


Come gli scioperi negli impianti della Gm all’epoca della grande depressione, il movimento operaio di oggi nasce da una crisi nazionale. Ellen Reese e i suoi studenti dell’università della California a Riverside hanno intervistato 47 tra dipendenti ed ex dipendenti di Amazon nell’Inland Empire, chiedendogli di descrivere le loro condizioni di vita e di lavoro. Da quando è cominciata la pandemia, Reese ha notato picchi di attività sindacale che rispecchiano i modelli storici. Anche durante la grande depressione, quando la disoccupazione era ai massimi, i lavoratori si organizzavano, “pur sapendo che rischiavano di essere licenziati o sostituiti”.

Il primo voto sulla sindacalizzazione in un magazzino di Amazon negli Stati Uniti ha coinvolto un piccolo gruppo di dipendenti in Delaware, nel 2014. I “no” hanno vinto nettamente. I lavoratori, ha spiegato Amazon, hanno preferito mantenere un rapporto diretto con l’azienda. Secondo i rappresentanti sindacali, invece, il voto sarebbe stato influenzato dalle attività antisindacali e dalle pressioni dei dirigenti.

Negli anni scorsi l’Inland Empire team­sters local 1932 è stato contattato da diversi dipendenti di Amazon, ma i tentativi di creare un sindacato non sono mai decollati. Ogni volta che sui gruppi Facebook riservati ai dipendenti salta fuori il tema dell’organizzazione sindacale, gli utenti cominciano a discutere. Alcuni esortano i colleghi a difendere i loro diritti, altri rispondono che iscriversi al sindacato non serve a niente.

Da sapere
Vendite record
Fatturato di Amazon, miliardi di dollari (Fonte: Amazon)

Negli ultimi mesi l’azienda ha intensificato gli sforzi per arginare l’organizzazione sindacale. Nel 2020 Amazon ha pubblicato una serie di annunci di lavoro rivolti ad “analisti di intelligence” che avrebbero dovuto monitorare “potenziali minacce legate all’organizzazione del lavoro” (l’azienda ha subito fatto cancellare gli annunci, sostenendo di averli pubblicati per errore). Ad aprile è uscito un rapporto da cui risulta che la Whole Foods usa tecnologie basate sulle mappe di calore per monitorare le attività sindacali dei dipendenti. Recentemente, su un gruppo Facebook riservato agli addetti al magazzino di Amazon, una dipendente ha postato lo screenshot di un messaggio, secondo lei inviato dall’azienda: “Se non sei convinta di firmare qualcosa, hai il diritto di non firmare. Quando firmi una tessera del sindacato deleghi il sindacato ad agire come tuo unico rappresentante. Vogliamo metterti in guardia: rinuncerai al tuo diritto di parlare per te stessa”.

A livello nazionale, però, molti lavoratori hanno cominciato a mettere da parte i dubbi e a esprimere la loro insoddisfazione nei confronti di Amazon. She­heryar Kaoosji del Warehouse worker resource center dice che le organizzazioni dei lavoratori ricevono sempre più spesso richieste dai dipendenti preoccupati per la salute e la sicurezza: “Ancora non sappiamo se Amazon ci darà i guanti e le mascherine. Vogliamo sapere quali sono i nostri diritti. Come ci tuteliamo?”. Visto che non ricevevano risposte o sostegno dall’azienda, i lavoratori hanno scelto una strategia più aggressiva. Kaoosji li ha aiutati a presentare un reclamo per chiedere la verifica delle condizioni di sicurezza e dei protocolli covid nel magazzino di Eastvale. I dipendenti di un magazzino di Hawthorne hanno fatto lo stesso poco tempo dopo.

I primi scioperi

I magazzinieri di Eastvale accusavano l’azienda di non fare abbastanza per rispettare le misure di distanziamento fisico o per proteggere i dipendenti dal virus, sottolineando che a molti lavoratori era stato fornito solo un panno detergente antibatterico durante il turno e che dovevano “provvedere da soli a sanificare le apparecchiature toccate dai lavoratori dei turni precedenti, tra cui scanner, schermi touch, tastiere, carrelli e altri macchinari di magazzino”. I dipendenti, si legge nel reclamo, non avevano guanti usa e getta e, almeno fino alla settimana del 6 aprile 2020, non avevano mascherine tranne che nei casi accertati di malattia. Più di 400 lavoratori del magazzino di Eastvale hanno aderito a una petizione di Amazonians united chiedendo condizioni migliori. Hanno firmato solo con il nome: Akemi, Alberto, Andrea, Brandon, Bryan, Carissa, Christian, Derek, Destiny, Esmerelda, Essence, Faith, Faye, Freddy, Guadalupe, Gwendolyn, Hector, Hollie, Iesha, Iris…

Poi sono arrivati i primi scioperi. A ottobre circa trenta dipendenti di Amazon in Minnesota si sono fermati per protestare contro il licenziamento di un collega che aveva chiesto condizioni di lavoro migliori. Sono stati i primi negli Stati Uniti a convincere i dirigenti di Amazon a negoziare, e da allora quel magazzino è diventato un punto di riferimento per le proteste.

Da sapere
Manodopera globale
Dipendenti di Amazon nel mondo (Fonte: Amazon)

A novembre la coalizione Make Amazon pay, composta da lavoratori, attivisti e politici, ha pubblicato online un elenco di richieste: più sicurezza e stipendi migliori, fine della sorveglianza, l’impegno dell’azienda ad azzerare le emissioni di anidride carbonica entro il 2030, cancellazione dei contratti con i produttori di combustibili fossili e interruzione dei rapporti con i dipartimenti di polizia e le autorità per l’immigrazione. Tra le richieste c’era anche la libertà di associazione per i dipendenti di Amazon e l’impegno dell’azienda a pagare le tasse. Una settimana dopo la coalizione ha scritto una lettera aperta a Jeff Bezos, fondatore e amministratore delegato di Amazon, firmata da 401 politici di 34 paesi.

È stato allora che il movimento sindacale in Alabama ha preso slancio. Nell’estate del 2020 il Retail, wholesale and department store union (il sindacato dei lavoratori del commercio all’ingrosso e al dettaglio) è stato contattato da alcuni dipendenti dello stabilimento Amazon di Bessemer, un quartiere operaio alla periferia di Birmingham. Stuart Appelbaum, il presidente del sindacato, spiega che i lavoratori di Amazon erano preoccupati per i ritmi brutali di lavoro, il rischio di infortuni, i problemi di salute e sicurezza legati al covid-19, lo stress e la fatica. Hanno influito anche le manifestazioni antirazziste organizzate da Black lives matter: molti dipendenti dell’impianto di Bessemer sono neri, come del resto la maggior parte dei leader locali del sindacato. “Erano stufi di come venivano trattati; si sentivano privati della loro umanità”, spiega Appelbaum. A metà gennaio del 2021 i lavoratori e i volontari hanno raccolto tremila firme a favore della sindacalizzazione.

Nelle ultime settimane Amazon ha affisso volantini antisindacali nei bagni e ha distribuito ai dipendenti spille con la scritta “Vota no” . Ha perfino creato un sito contro il sindacato, DoItWithoutDues.com, e ha cercato senza successo di impedire che i lavoratori potessero votare a distanza. Nonostante questi stratagemmi, i lavoratori dell’Alabama sembrano aver imboccato la strada della sindacalizzazione. “Immaginate quanto deve essere grave la situazione se la gente è disposta a fare un passo del genere, nonostante tutto”, sottolinea Appelbaum.

Mascherine e tamponi

Se questa presa di coscienza politica è stata impressionante a livello nazionale, è stata ancora più straordinaria vista da vicino, a partire dai singoli lavoratori. Ho cominciato a parlare con Tokhi a marzo del 2019. A distanza di un anno, dopo qualche settimana dall’inizio della pandemia, il suo tono era completamente cambiato. “Ad Amazon non importa niente dei diritti”, mi ha detto. “Se non vuoi lavorare, quella è la porta. Hanno un sacco di gente che lavora per loro. Non gli importa niente se lavori lì per cinque anni, per dieci o per un mese”.

Da sapere
Le differenze con l’Europa

◆ L’8 febbraio del 2021 i circa seimila lavoratori del magazzino Amazon di Bessemer, in Alabama, hanno cominciato a votare per decidere se formare un sindacato interno. Sarebbe la prima volta nei venticinque anni di vita dell’azienda. Le operazioni di voto si concluderanno il 29 marzo 2021. Se almeno la metà dei votanti si schiererà a favore, i lavoratori potranno negoziare un nuovo contratto con Amazon sotto la supervisione del Retail, wholesale and department store union, l’organizzazione che rappresenta i dipendenti del commercio al dettaglio e dei grandi magazzini, ottenendo condizioni di lavoro migliori. “Il voto di Bessemer potrebbe avere effetti a cascata, portando i dipendenti degli altri magazzini di Amazon a ribellarsi contro i ritmi di lavoro particolarmente duri imposti dall’azienda”, scrive Vox. “Anche questo spiega il motivo per cui Amazon ha cercato in vari modi di ostacolare le operazioni di voto”.

◆ Negli Stati Uniti l’organizzazione sindacale funziona in modo diverso rispetto all’Europa. Mentre da noi esistono sindacati che firmano contratti collettivi di lavoro che si applicano a intere categorie di lavoratori, negli Stati Uniti la contrattazione avviene prevalentemente a livello delle singole aziende, dove i lavoratori possono decidere se formare un sindacato. Questo spiega perché i diritti e le condizioni di lavoro variano molto da una fabbrica all’altra e perché in molte aziende non c’è rappresentanza sindacale. Negli ultimi decenni la percentuale di statunitensi iscritti al sindacato è diminuita costantemente: a metà degli anni cinquanta era intorno al 60 per cento, oggi è al 10 per cento, e al 6,4 per cento nel settore privato.


Più di una volta la moglie di Tokhi lo ha implorato di non tornare al lavoro. “Ma lei lo sa che non posso restare a casa”, dice. “Se sto a casa come faccio a pagare l’affitto, l’assicurazione dell’auto, le rate della macchina? Ho un sacco di spese”. L’affitto continua ad aumentare, e ci sono cento dollari in più al mese da pagare per l’acqua e le altre utenze. Recentemente Tokhi ha comprato un’auto per andare al lavoro: paga 400 dollari al mese più l’assicurazione, 336 dollari per tre mesi. “A volte non ce la faccio”, dice. “Non riesco a pagare tutto. Chiedo agli amici di prestarmi i soldi”.

Amazon si è impegnata a sanificare a fondo gli ambienti e a introdurre regole più stringenti per il distanziamento sociale nei suoi magazzini. A Eastvale hanno anche cominciato a distribuire le mascherine. Man mano che passano le settimane, Tokhi mi aggiorna sulla situazione. “Adesso danno la mascherina a tutti”, dice. “Alcuni se la portano da casa, va bene lo stesso. Me ne danno una al giorno. La uso per una giornata e poi la butto via”.

Di recente una portavoce di Amazon mi ha detto che un po’ alla volta l’azienda sta modificando le sue misure di sicurezza. Sta facendo tamponi ai dipendenti in tutti gli stabilimenti del paese (con cadenza settimanale per quelli della California), distribuisce mascherine e ha messo dei segni sul pavimento per favorire il distanziamento fisico. Ha introdotto una tecnologia di “assistenza a distanza”, che contrassegna le persone con un alone rosso sui monitor se non mantengono una distanza di almeno un metro e ottanta. In tutti i magazzini sono stati messi degli “ambasciatori del distanziamento fisico” per controllare i lavoratori, oltre a quantità abbondanti di disinfettante per le mani e lavandini mobili a scomparsa. In compenso, a giugno è stata eliminata l’integrazione di due dollari all’ora per tutti i dipendenti, e molti lavoratori sono tornati al salario base di 15 dollari. A ottobre l’azienda ha annunciato che quasi ventimila dipendenti nei magazzini statunitensi e nei negozi Whole Foods sono risultati positivi o sospetti positivi al covid-19. Lo stesso mese la Cal/Osha ha multato (per 935 dollari) il magazzino di Eastvale per violazione dei protocolli sul coronavirus dopo un’indagine avviata da una denuncia dei lavoratori. Amazon ha presentato ricorso, sostenendo di aver seguito le linee guida delle autorità sanitarie statunitensi e di aver investito nella formazione dei dipendenti in materia di salute e sicurezza. La California sta tuttora indagando sui protocolli per il covid-19 di Amazon nello stato e a dicembre del 2020 il procuratore generale della California si è rivolto a un tribunale per chiedere ad Amazon di rispondere a una serie di citazioni in giudizio rimaste in sospeso.

Con l’avvicinarsi delle feste di fine anno, alcuni lavoratori si sono lamentati su
Facebook per i turni durante la festa del Ringraziamento (a novembre) e a Natale. Un utente ha scritto: “Mi chiedo se non ci convenga sindacalizzarci. Sembra che facciano di tutto per calpestarci e per ignorare i nostri diritti”. Poi ha postato un altro commento: “Personalmente non so se iscriversi a un sindacato sia una buona idea, ma per come stanno le cose non credo possa far male”.

Più di recente alcuni utenti hanno parlato del referendum in Alabama. “E fu così che vennero tutti licenziati e sostituiti lo stesso giorno”, ha scherzato un utente.

Nessuna scelta

Tokhi, che a dicembre ha avuto il suo terzo figlio, lavora ad Amazon da tre anni e guadagna 16,75 dollari all’ora. Poco tempo fa si è trasferito dal magazzino di Eastvale a un altro stabilimento, sempre nell’Inland Empire, perché voleva passare allo smistamento delle merci, che secondo lui è meno impegnativo rispetto al prelievo. Dice che ora il covid-19 gli fa meno paura ed è soddisfatto dei disinfettanti extra, dei guanti, delle pulizie, delle misure di distanziamento fisico e dei tamponi settimanali. Mettere da parte dei soldi con il solo stipendio di Amazon, però, è impossibile. Ha smesso di frequentare i corsi universitari, almeno per ora, e si è trovato un secondo lavoro: consegna da mangiare per DoorDash. Per il momento non ha intenzione di andarsene da Amazon. “Non ho scelta”, dice. “Devo continuare”. ◆ fas

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Questo articolo è uscito sul numero 1402 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati