Una mattina di fine luglio un vicino ha fatto alla madre di Maxi una richiesta che l’ha messa in agitazione: aveva bisogno di un materasso. “Per cosa ti serve?”, ha chiesto.
“Stanno occupando un terreno. Vado lì”, ha detto il vicino.
La donna ha capito che doveva fare in fretta. Non per lei, che da quindici anni vive in un pezzo di terra occupato nel quartiere di La Yaya, a Guernica, capoluogo del dipartimento Presidente Perón (uno dei tanti municipi dell’area metropolitana di Buenos Aires). Doveva sbrigarsi per il figlio, Maxi, 20 anni, padre di una bambina piccola e con un altro figlio in arrivo. Maxi è nato a Empedrado, nella provincia di Corrientes, nel nordest dell’Argentina. Spostamenti e traslochi sono sempre stati la norma per la sua famiglia fin da quando era bambino. Stavolta toccava a lui.
La madre lo ha accompagnato all’angolo tra Almirante Brown e Tesla, uno degli ingressi della nuova occupazione di Guernica, a sud di Buenos Aires. L’occupazione, cominciata il 20 luglio, coinvolge tremila persone ed è la più grande del paese. Maxi indossava una felpa della nazionale argentina, una maglietta nera, dei pantaloni lunghi e un paio di scarpe da ginnastica bucate. Prima di uscire si è messo una catenina della squadra di calcio River Plate. Ha camminato per mezz’ora, fino a quando un uomo gli si è avvicinato. “Sistemati lì”, gli ha detto. Era il nuovo quartiere della Lucha, in fondo al terreno di cento ettari. Maxi si è sdraiato su un telo di plastica, si è avvolto in una coperta finché si è addormentato sfinito dalla stanchezza e dal freddo.
“La prima notte è stata orribile, faceva molto freddo. Quando mi sono svegliato non sentivo più i piedi. Poi ho cominciato a muovermi, mi sono alzato e mi sono ripreso”, racconta un giorno di ottobre poco dopo che un giudice ha rinviato lo sgombero di Guernica, per ora a data da destinarsi. “Questa è la mia casa, è il mio quartiere. Non è più un’occupazione. Guarda: ci sono strade, gruppi di case, ognuno ha il suo spazio”, dice Maxi. La casa è tenuta su da quattro bastoni, le pareti sono teli di nylon e dentro c’è posto per un lettino. Sul letto è steso un telo di plastica nera, lo stesso che aveva usato la prima notte. Il pavimento, come quello di tutte le baracche, è di terra.
Oltre alla Lucha sono nati altri quartieri. Gli abitanti si sono organizzati e hanno suddiviso l’area in parti uguali: i lotti sono delimitati da elastici, corde o cavi sottili. Alcuni hanno una porta d’ingresso. I bagni sono pozzi circondati da una tenda dove entra a malapena una persona in piedi e sono disposti in modo da poter essere usati da due o tre famiglie insieme. Per ogni isolato sono stati eletti un delegato e un vice. Le assemblee di quartiere decidono ogni settimana cosa fare e come muoversi.
Santiago Nardín, un sociologo che lavora negli Stati Uniti, spiega: “Le organizzazioni sociali e politiche presenti a Guernica riducono i rischi legati alle prime fasi dell’occupazione, favoriscono meccanismi di coesione sociale e limitano gli episodi di violenza interna grazie ai delegati e alle assemblee che canalizzano i conflitti. Sono anche un freno ai tentativi di speculazione e di lucro”.
A Guernica si sono avvicinati i militanti di molte organizzazioni e movimenti sociali: Mtr-Votamos luchar, Fol, Olp, Resistir y luchar, Víctor Choque, Mulcs, Polo Obrero, Barrios de pie-libres del sur, Frente popular Darío Santillán. E insieme ai delegati dei quartieri hanno formato il coordinamento dei delegati e delle organizzazioni per il recupero delle terre di Guernica. All’inizio di ottobre il coordinamento ha organizzato una festa per risollevare l’animo degli abitanti, preoccupati dalla minaccia dello sgombero. Le occupazioni nell’area metropolitana di Buenos Aires sono diverse tra loro, spiega Nardín. “Nelle città di Quilmes e Matanza operano alcune reti importanti, legate alle occupazioni degli anni ottanta. Ancora oggi la chiesa è un punto di riferimento fondamentale. A Moreno le occupazioni sono cominciate in seguito ad alcuni conflitti con il comune. A Lomas de Zamora, sempre a sud di Buenos Aires, sono legate alle attività informali che caratterizzano l’economia della zona. Alle occupazioni più grandi, come Guernica, partecipano varie organizzazioni”.
Razionare l’acqua
Alan, 27 anni, non vuole saperne di organizzazioni esterne. Divide la casa con la moglie Silvia e i due figli, di 6 e 8 anni. Entrambi sono disoccupati e arrivano da Florencio Varela, nella provincia di Buenos Aires. “Abbiamo fatto tutto da soli, ci siamo organizzati e abbiamo diviso la terra in parti uguali. È vero, ci sono delle organizzazioni che vengono da fuori, ma si limitano ad aiutarci, a consigliarci e a portare qualche donazione. Nessuno ci dice cosa fare e cosa no”, afferma.
Subito dopo l’inizio dell’occupazione, il figlio maggiore gli ha detto in tono serio: “Papà, abbiamo un grosso problema. Qui non ci sono prese di corrente”. Qualche giorno dopo Alan ha speso mille pesos (circa 11 euro) per collegarsi al palo dell’elettricità che arriva da un quartiere vicino, nato a sua volta come occupazione. Grazie a quest’allaccio la famiglia può usare una lampadina e ha anche una presa per la corrente. Alcuni abitanti di Guernica non si allacciano all’elettricità perché non hanno soldi. Altri non lo fanno perché la minaccia dello sgombero li scoraggia dall’investire i pochi risparmi che hanno. Gli occupanti vivono in un costante stato d’incertezza: è la precarietà meno tangibile e allo stesso tempo più opprimente.
Per Alan e Silvia, che hanno lasciato la stanza in cui vivevano perché durante il lockdown l’affitto era aumentato da 7mila a 9mila pesos, non c’erano alternative. È la terza volta che cercano di stabilirsi in un terreno occupato. Negli altri due tentativi hanno sempre perso materassi, lamiere e vestiti. Non succederà di nuovo, sostengono.
“Dove vogliono che andiamo? Non abbiamo scelta, non possiamo permetterci un affitto. Siamo arrivati qui e vogliamo restarci. Per quanto tempo ancora dobbiamo girovagare? I miei figli mi dicono ‘andiamo a casa’. Per loro Guernica è casa. E anche per noi”, spiega Silvia. Poi aggiunge piangendo ma con un tono deciso che, se li cacceranno, si accamperanno sotto l’Obelisco, a plaza de la República, nel centro di Buenos Aires. Alan cerca di non pensare allo sgombero perché non vuole farsi vedere triste dai figli e da Silvia. “Se crollo per loro è più difficile”, sostiene.
È stato il fratello di Silvia a informarli dell’occupazione in corso a Guernica. Gli ha dato una mano in tutto: ha smontato la grondaia di casa e gli ha regalato dei pezzi di lamiera in modo che potessero usarli come pareti. Il tetto, come quello di molte case vicine, è un telo impermeabile azzurro. A un certo punto la polizia di Buenos Aires gli ha sequestrato l’auto.
“Si sono portati via perfino i bidoni dell’acqua”, racconta Alan, che fa due viaggi al giorno per andare a prendere l’acqua fuori dall’occupazione. L’acqua va razionata e i bidoni devono bastare per le necessità di tutta la famiglia: lavarsi, cucinare e bere.
Sorvegliati
Le denunce degli occupanti contro la polizia per furti, maltrattamenti e insulti si moltiplicano. I quattro quartieri sono circondati. Da una parte c’è un piccolo fiume che li separa da un campo, da cui un gruppo di agenti a cavallo ha provato a cacciarli. Ora su alcuni tronchi che fanno da ponte passano ragazzi, donne e uomini per andare a cercare la legna. A settembre di notte la temperatura scendeva anche sotto lo zero. Dall’altra parte, i proprietari di un quartiere residenziale di lusso hanno innalzato una recinzione di filo spinato e hanno chiesto l’installazione di un gabbiotto della polizia. A sporgere denuncia davanti al procuratore Juan Cruz Condomí Alcorta è stata la Bellaco, un’azienda che si occupa della costruzione di eleganti quartieri residenziali nella zona. Secondo l’agenzia delle entrate, la Bellaco deve al fisco provinciale circa un milione di pesos in tasse.
Gli altri punti di accesso sono rigidamente sorvegliati dalle pattuglie. Ma gli abitanti hanno giocato d’anticipo e all’inizio dell’occupazione hanno scavato diversi fossati per ostacolarle. Le forze di sicurezza non impediscono solo il passaggio di provviste, acqua e materiali edili, ma anche delle persone. In generale è difficile sapere con precisione quanta gente ci vive. Il censimento del ministero per lo sviluppo della comunità di Buenos Aires ha contato 2.344 lotti, 1.904 persone e 604 famiglie. Ma secondo gli occupanti, Guernica ha almeno 3.500 abitanti. “Molti non partecipano al censimento perché in passato Blanca Cantero, la sindaca del dipartimento Presidente Perón, ha denunciato chi si era registrato”, spiega Diego, 30 anni. A volte Diego lavora come imbianchino, ma dall’anno scorso non ha un impiego stabile. Ha una figlia di cinque anni che non vede quasi mai: fino a quando la situazione non si sarà stabilizzata preferisce non portarla a Guernica. Maxi si è tatuato il nome della figlia sul braccio sinistro: “A volte piango. Quando sto male guardo il suo nome per ricordarmi che tutto quello che sto facendo è per lei, perché abbia un pezzo di terra”, dice.
Chi lascia il suo lotto corre il rischio di perderlo. Alcuni vanno a lavorare o a trovare i figli. Quando Maxi, la domenica, va dalla figlia chiede una mano a Robelinda, la vicina. Più che una mano, le chiede se può buttare un occhio alla sua casa. E spesso si fa offrire qualcosa da mangiare.
Le idee chiare
Robelinda ha 37 anni e viene da Fiorito. Ha una figlia di 12 anni, uno di 18 e un’altra di 20. Il figlio lavora nell’edilizia e l’ha aiutata a sistemarsi nel modo più comodo possibile. La sua casa ha le pareti di lamiera e il tetto di plastica impermeabile come le altre, ma anche una sorta di salotto circondato da vari teli. Qui Maxi fa colazione tutte le mattine. A casa di Robelinda viene per mangiare anche Sabrina, che vive vicino insieme ai figli di 2, 3 e 5 anni. Sabrina è di Glew. Dorme nello stesso letto con i figli e per scaldarsi lascia il braciere nella baracca. “Quando le braci si spengono ci siamo già addormentati, e così riusciamo a riposare”.
Alla Lucha tutti sanno che Robelinda c’è sempre. Ad agosto è scaduto l’ordine di allontanamento per il suo ex compagno, poi un’amica le ha detto dell’occupazione. Ha le idee chiare: non tornerà a casa. “Quella era la casa del mio ex compagno. Se la tenga pure. Sono stata in tribunale mille volte, ma la causa non va avanti. Mia figlia piccola è ancora traumatizzata dalle violenze. Là non ci torno”, dice.
◆ Il governo argentino del presidente peronista Alberto Fernández ha decretato il lockdown il 20 marzo 2020. Le restrizioni sono state più volte prolungate e in parte restano in vigore ancora oggi. Al 21 ottobre i casi di covid-19 nel paese erano 1.018.999 e le vittime 27.100 (dati della Johns Hopkins university). Secondo l’istituto nazionale di statistica e censimenti (Indec), nel primo trimestre del 2020 il ** tasso di disoccupazione** è aumentato del 13,1 per cento. Le donne tra i 14 e i 29 anni sono il settore della popolazione più colpito dalla crisi economica. Il governo ha annunciato la sospensione degli sfratti e il congelamento degli affitti. Sono misure opportune ma insufficienti, anche perché non tengono conto del mercato informale. Washington Post, Indec
Secondo Nardín, “in parte queste occupazioni ci sono perché le persone non riescono più a pagare l’affitto, neanche in nero, e a stare in case sovraffollate, ancora di più con il lockdown. Non è solo una questione sanitaria (vivere in una baracca su un pezzo di terra non migliora molto la situazione in questo senso), ma anche di conflitti all’interno delle famiglie e di tensioni che si sono aggravate con il confinamento”.
Prima della pandemia Robelinda lavorava a Buenos Aires come collaboratrice domestica. Oggi è disoccupata. Per affittare una stanza a Fiorito le chiedevano 9mila pesos, quando il reddito familiare di emergenza (Ife) istituito dal governo per far fronte alla crisi è di 10mila pesos. Il pagamento dell’Ife è irregolare. Maxi, per esempio, lo ha ricevuto solo due volte. Il piano nazionale per il territorio urbano creato dal governo del presidente Alberto Fernández per risolvere questo tipo di conflitti, prevede la creazione di 10mila parcelle di terreno abitabili in tutto il paese nel 2020. Nonostante l’annuncio del piano e l’urgenza della situazione, non ci sono ancora date certe.
La sociologa e urbanista María Mercedes di Virgilio spiega: “La pandemia ha rallentato tutto. Il piano è molto recente e al momento non ci sono politiche per applicarlo. Ci vuole un’intesa con le provincie e con i comuni, e questo vuol dire altre tensioni”. Secondo Rubén Pascolini, sottosegretario per il diritto alla casa della provincia di Buenos Aires, “il deficit di abitazioni nella provincia riguarda circa 1,24 milioni di famiglie, che non sanno dove vivere”.
“Esistono leggi progressiste, per esempio quelle per l’equo accesso alla casa della provincia di Buenos Aires e per l’urbanizzazione e l’integrazione dei quartieri informali”, dice Di Virgilio. “Ma devono diventare operative ed essere finanziate nel bilancio. Da sole non bastano a dare una risposta efficace all’emergenza”.
Inoltre, spiega la ricercatrice, “il mercato informale è un problema grave, perché non permette di regolamentare gli affitti o le transazioni. Lì non valgono le regole del governo sul divieto di sfratto”.
Con solo un mese e mezzo di ritardo sul pagamento dell’affitto (nel periodo peggiore della pandemia) Gladys, i suoi quattro figli e i tre nipoti sono stati costretti a lasciare la loro casa di Claypole, nella provincia di Buenos Aires. Per la prima volta nella sua vita Gladys ha partecipato a un’occupazione. La sua nuova casa è piena di gente, tutti vogliono starle vicino. Ha organizzato da sola la mensa di La Lucha. A volte cucina a pranzo e per cena prepara solo un bicchiere di latte. A volte, invece, cucina la sera. Ma ogni giorno dà da mangiare a ottanta persone. Tra loro c’è anche Maxi.
“Ho sempre avuto una mensa. A Claypole, ovunque sono stata. Perché non dovevo farlo anche qui? Per me è tutto. Era questo o la strada”, racconta Gladys. Poi mi fa vedere le mani: “Guarda come sono”.
A quest’ora del pomeriggio, appena dopo le quattro, c’è ancora qualche avanzo del pranzo. Ci sono spaghetti, pomodoro, zucca, carote, patate e insalata. “Tutti danno il loro contributo. Alcuni portano la legna, altri della verdura, mia figlia piccola va a prendere l’acqua. Alcuni ragazzi girano per le macellerie della zona per vedere se ci regalano qualcosa. E alla fine, grazie alla collaborazione di tutti, riusciamo a mangiare”.
Al tramonto si alzano le pavoncelle con i loro versi acuti. Sono decine e attraversano i quartieri di La Unión, La Lucha, 20 de Julio, San Martín. In campagna si dice che questi uccelli gridano lontano dalle loro uova per depistare i predatori. ◆fr
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Questo articolo è uscito sul numero 1381 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati