No, non intendevo questo. Non mi riferivo alla devastazione, tantomeno alla calamità naturale. Basta che dai un’occhiata alle mie cicatrici per capire che non avrei niente di bello da dire sul terremoto. Solo un cretino ne parlerebbe bene o lo troverebbe eccitante. Mi riferivo a una donna, Xiang Qingkui.
Si sposò con Nian l’anno del terremoto, nel 1976, durante il capodanno. Nian, che di cognome faceva Bei, il nome completo era Bei Yunnian, era il nostro vicino di casa. Il secondo giorno dell’anno lunare ero ancora nel mondo dei sogni quando venne a svegliarmi: “Chunlei, su, andiamo a prendere la tua nuova zia”. All’epoca andavano di moda i matrimoni sobri, meno erano i fronzoli e più s’interpretava uno stile di vita sano. Nian era un quadro di partito in attesa di un avanzamento di carriera, perciò non osava certo sperperare in stravaganze. A dirla tutta, non ne avrebbe comunque avuto le possibilità.
Era un tipo alla buona. Dopo avermi fatto accomodare sul sedile posteriore di un risciò a pedali avuto in prestito, partì in direzione dell’ospedale per andare a prendere la sua sposa. Indossava una giacca a vento logora e delle scarpe da ginnastica che si erano sbiadite a forza di lavarle; solo la sciarpa rossa che aveva al collo era nuova.
Qingkui si era alzata prima di noi. Quando arrivammo, ci stava aspettando già da mezz’ora all’ingresso del dormitorio con il naso rosso per il freddo. Nian si tolse la sciarpa e la mise a lei coprendole bene la bocca e il naso, poi la fece accomodare sul sedile e prese la strada del ritorno. Il risciò sembrava volare sotto le pedalate di Nian, che di tanto in tanto si voltava verso di lei e le sorrideva con gli occhi stretti in due fessure.
Io e Qingkui stavamo faccia a faccia: non ci eravamo mai trovati così vicini. Osservavo le sue lunghe ciglia come lucide per l’umidità, le pupille più limpide del cielo azzurro e le fossette perennemente disegnate sulle gote arrossate. Che Qingkui fosse bella era risaputo, ma quel giorno era bellissima. Poi mi sarei accorto che le fossette le spuntavano solo quando sorrideva, a riprova del fatto che quel giorno non aveva mai smesso di farlo.
Più Nian andava veloce con il risciò e più il vento mi sferzava il volto. Faceva male. Mi strinsi nelle spalle, lei se ne accorse e tirò fuori un barattolino di crema protettiva dalla borsa. Ne estrasse una piccola quantità con un dito e me la spalmò sulla faccia.
“Ma tu guarda”, esclamò, “hai la pelle tutta screpolata dal gelo!”.
Le sue mani mi scorrevano sul viso come acqua calda. Era talmente piacevole che per poco non persi conoscenza e nella mia testa, d’improvviso, affiorò una parola: angelo. Qingkui era una fata arrivata dal cielo! Mi domandai perfino se i medici fossero chiamati angeli a causa sua. Ti confesso una cosa, non importa se mi prenderai in giro: dopo che mi aveva massaggiato la faccia in quel modo, non me la lavai per tre giorni, tiravo addirittura fuori la lingua per cercare di leccare la crema. Ero convinto che avesse il suo sapore.
Quel giorno ero ancora più raggiante di Nian. Ci fu un viavai di gente che veniva a mangiare le caramelle nuziali. Arrivavano per poi andarsene poco dopo. Io fui l’unico a rimanere tutto il giorno da Nian finché, scesa la sera, mi disse: “Guarda che mica ti sei sposato tu. Che hai da essere tanto contento? Su, tornatene a casa a dormire”.
Osservavo le sue lunghe ciglia come lucide per l’umidità, le pupille più limpide del cielo azzurro e le fossette perennemente disegnate sulle gote arrossate
Mi alzai a malincuore, prendendomela con la notte che era calata troppo presto. Spuntò dalla camera Qingkui con un quaderno con la copertina di plastica e mi disse: “Oggi è stata una giornata faticosa. Tieni, questo è un regalo per te”. Devi sapere che a quei tempi di quaderni di buona qualità come quello, con la copertina di plastica, non se ne vedevano tanti in giro. Mia madre faceva la casalinga e la famiglia viveva solo con lo stipendio di mio padre, quindi anche se l’avessi trovato, un quaderno del genere, non mi sarei mai sognato di comprarmelo. Il suo regalo, tuttavia, non mi fece affatto piacere. Mi sembrò un modo per mettermi alla porta: dopo averlo ricevuto, non avevo più scuse per rimanere lì.
In un batter d’occhio nel palazzo si sparse la notizia della bellezza mozzafiato di Qingkui: da paura, come si direbbe oggi. Quella sera stessa, i miei litigarono.
“Guarda la moglie che s’è trovato: bel fisico, bel seno, ed è pure un medico! I giovani d’oggi sì che sono fortunati!”, esclamò mio padre.
“Ma guarda come s’infervora per la moglie del vicino!”, sbottò mia madre.
“Lo so bene che non ti sei ancora fatto passare il vizio. Ma se ne vuoi una più bella, prima devi divorziare da me!”. Bisticciavano a bassa voce, pensavano che fossi sordo e non me ne accorgessi.
Qualche giorno più tardi anche Sun Jiawang, uno che abitava al secondo piano, ebbe una discussione con la moglie. Lei lo accusava di fissare Qingkui come un ebete, praticamente con gli occhi fuori dalle orbite. Sosteneva che l’aveva aspettata apposta al piano terra per aiutarla a portare su le zucche. Suo marito però non parlava sommessamente come i miei. La ricopriva di insulti in mezzo al ballatoio e tra le altre cose continuava a urlare: “Sì, mi piace! Che cavolo vuoi da me? Male che vada, ci separiamo!”. Io pensavo che avesse una bella faccia tosta a trattarla in quel modo. Ma ora so che lo faceva per farsi sentire da Qingkui, quella piazzata era studiata a tavolino. Un paio di mesi dopo lasciò la moglie. Trascorso qualche tempo, si mise a corteggiare Qingkui. Lo sentii con le mie orecchie confessarle che si era separato per lei.
Annotavo tutte queste cose sul quaderno che Qingkui mi aveva regalato, ma scrivevo soprattutto di lei. Del profumo della sua crema e delle sue dita morbide. Avrei voluto sposare una donna uguale a lei, avevo voglia di parlarle e di andare ogni giorno a casa sua a trovarla. Nel quaderno la disegnavo anche: i primi ritratti non le somigliavano, poi però presi la mano ed erano perfino più fedeli delle foto. Se non l’avessi ammirata al punto da voler fare anch’io il medico, forse sarei diventato un pittore o uno scrittore grazie al suo regalo. Chissà perché, dopo il suo arrivo le coppie del palazzo avevano cominciato a litigare, e quando meno te lo aspettavi da qualche finestra si sentivano piatti e scodelle che volavano. Era un casermone prefabbricato in cui l’isolamento acustico era praticamente inesistente. Spesso, quando Nian era via per lavoro, Sun Jiawang si piazzava a casa sua e non si schiodava. Allora Qingkui mi chiamava dall’altro lato della parete: “Chunlei, mi riporti l’album delle fotografie?”. Oppure: “Chunlei, Nian ha detto che rientrava stasera, giusto?”.
Non ricordo cosa fu a svegliarmi, fatto sta che mi ritrovai sveglio, avevo indosso solo le mutande. Mentre i miei scappavano fuori di corsa strillando, alle loro spalle un blocco di cemento si schiantò al suolo
Io rispondevo immediatamente e poi mi fiondavo lì facendo a gara con Sun Jiawang a chi rimaneva seduto più a lungo. Finché non toglieva il disturbo, non mi muovevo. Non era l’unico che si piazzava da lei. I nomi non li ricordo, ma appena Nian andava in trasferta, si presentava uno stuolo di uomini a farle visita. Era una bella seccatura: se non era Sun Jiawang, era Tizio; e se non era Tizio, allora era Caio. Ma chiunque fosse, Qingkui mi chiedeva puntualmente di tenergli compagnia, per evitare che le facessero delle avances. L’album delle foto con cui facevo la spola diventò così il pretesto per andare da lei. In genere, quando i tizi che le sbavavano dietro toglievano il disturbo, non avevo nessuna voglia di andarmene. Allora lei mi riscaldava dei panini al vapore preparati con le sue mani e, mentre mangiavo, tesseva le lodi di suo marito. Ascoltavo e pensavo che avrei voluto farmi mettere un’altra volta la crema, ma non era più stagione, ormai faceva caldo. Avevo la pelle del viso liscissima, senza la minima screpolatura: non avevo nessuna scusa. Così mi finsi malato e mi rifiutai di andare sia a scuola sia all’ospedale. Mia madre fu costretta a chiedere a Qingkui di venire a farmi un’iniezione. Non t’immagini la felicità che provai in quel momento! Avrei voluto essere sempre malato per farmi fare le punture da lei.
Ovviamente non era l’unico modo per stare a contatto con lei. Le portavo su l’acqua, mi insegnò a fare le iniezioni e la aiutavo a fare i gomitoli di lana. Poi mi piantavo di proposito sul ballatoio recitando la poesia Neve del presidente Mao. Se facevo errori di lettura, subito mi correggeva. A volte, a dire il vero, sbagliavo apposta la pronuncia di qualche carattere, ma non si accorse mai del mio trucchetto. Nian invece sì. Era un uomo intelligente, Nian. E mi diceva, dandomi dei colpetti sulla testa: “Furbetto! Se avessi la mia età a quest’ora Qingkui sarebbe tua!”. In cuor mio, gongolavo e la mia voce riverberava ancora più forte. L’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze estive arrivai primo alla gara di recitazione di poesie. Quando andai a mostrarle il premio, Qingkui esclamò: “Se non ti avessi dato una mano io, non avresti vinto un bel niente. Su, ti tocca offrire!”.
Visto che di soldi per invitarla a pranzo non ne avevo, le comprai un ghiacciolo. Tu non hai visto come lo mangiava! Era un’artista, come dite voi! Lo teneva in bocca più a lungo di chiunque altro: non lo mordeva come faremmo noi, lo leccava lentamente succhiandolo piano piano. Se si scioglieva troppo in fretta, se lo toglieva di bocca per fare una piccola pausa. Appena le gocce sul ghiacciolo si rapprendevano, se lo rinfilava in bocca e se lo rigirava finché non rimaneva solo il bastoncino. E prima di gettarlo via, succhiava un po’ anche quello. Mia madre diceva che bastava guardarla mangiare il ghiacciolo per capire che era una moglie che sapeva fare economia.
Dieci giorni dopo, la nostra Tangshan fu colpita da un terremoto di magnitudo 7.8 della scala Richter che sconvolse il mondo intero, di sicuro ne avete sentito parlare anche voi. Neppure se fossi morto potrei dimenticarmi quel momento: erano le 3 e 42 della mattina del 28 luglio 1976. Non ricordo cosa fu a svegliarmi, fatto sta che mi ritrovai sveglio, avevo indosso solo le mutande. Mentre i miei scappavano fuori di corsa strillando, alle loro spalle un blocco di cemento si schiantò al suolo. Era una questione di vita o di morte e, come detriti trascinati dalla corrente, lasciarono me, il loro unico figlio, in casa. Io non avevo nessuna fretta di mettermi in salvo, davvero. Non ero spaventato come loro. Era come se la mia vita non avesse valore o dovessi sacrificarla per qualcuno.
Mi rannicchiai in un angolino e aguzzai le orecchie per captare i rumori che arrivavano dall’altra parte della parete. Mi dicevo che magari avrei potuto lanciarmi al salvataggio di Qingkui, ma successe tutto troppo in fretta. Prima di avere il tempo di muovermi fui raggiunto dalle sue grida di terrore, seguite dal rumore assordante del pavimento che sprofondava. Era la fine. Non c’erano dubbi: Qingkui era rimasta sotto le macerie. Il palazzo prese a oscillare violentemente, come una persona disperata scossa dai singhiozzi. Fui scaraventato fuori dalla finestra e volai giù insieme a vetri, porte e calcinacci. Era un palazzo di tre piani, noi abitavamo al terzo. Stranamente dopo l’impatto a terra ero vivo, ma avevo schegge di vetro conficcate dappertutto. Quando mi alzai in piedi, sembravo un istrice con gli aculei di vetro. A rigore di logica avrei dovuto morire dal dolore, invece non sentivo nulla. Vedevo gente che si precipitava fuori sconvolta. Altri cadevano come pietre, schiantandosi con un tonfo al suolo per non rialzarsi più. Seguii la folla che correva tra le urla. Dopo una decina di metri mi voltai: il palazzo non c’era più.
Tra le grida e i pianti, chi chiamava il padre o la madre, chi cercava il figlio, chi la figlia. Sempre più persone confluivano nel campo sportivo. Anch’io avrei voluto chiamare i miei genitori, ma per quanto mi sforzassi non riuscivo a ricordare i loro nomi. Nemmeno loro chiamavano me. Mi chiedevo come faceva a essere morta Qingkui. Perché proprio lei, così bella e piena di vita? Mentre cercavo di rimuovere le schegge di vetro dalla gamba, lungo il polpaccio mi scese un rivolo di sangue caldo. Rinunciai. Meglio lasciare che se ne occupasse un medico, o mi sarei dissanguato.
Nessuno sapeva cosa fare, tantomeno io. All’improvviso si alzò un vocione che ci strillò di non farci prendere dal panico, perché il presidente Mao avrebbe inviato degli aerei in nostro soccorso. Quelle parole esplosero come una bomba provocando ancora più caos e disordine. Molti si chiedevano: “A cosa serve aspettare qui? Forza, di corsa verso la pista!”.
La folla si diresse all’aeroporto con me dietro. Gli altri avanzavano a passo sempre più spedito, io invece ero via via più lento. Il motivo non lo so. Dopotutto non provavo dolore: perché andavo così piano? Ora che sono medico me lo spiego: sicuramente era a causa delle schegge. Prova a immaginare: avevo una quantità di vetri triangolari, quadrati, di ogni forma conficcati nella carne! Ti assicuro che neppure Schwarzenegger in Terminator si sarebbe mosso velocemente con quegli affari piantati nella pelle.
In un batter d’occhio nel palazzo si sparse la notizia della bellezza mozzafiato di Qingkui: da paura, come si direbbe oggi. Quella sera stessa, i miei litigarono
Dopo un bel pezzo di strada i miei mi ritrovarono. Spaventati e felici al tempo stesso, mi accarezzavano il viso, mi davano pacche sulle spalle, squadrandomi per assicurarsi che fossi tutto intero. Solo quando si graffiarono le mani si accorsero che ero coperto di schegge. Mio padre avrebbe voluto caricarmi in spalla, ma temeva che si conficcassero più a fondo facendomi soffrire ancora di più. Mia madre avrebbe voluto abbracciarmi, ma non appena mi si avvicinò a braccia aperte avvertì lo scricchiolio dei vetri dentro la pelle. Era come se mi fossero cresciuti dei corni in testa e degli aculei sul corpo: appena mi sfioravi i vetrini trasparenti entravano ancora di più nella pelle senza pietà. Mia madre piangeva e mio padre sospirava. Cercavo di rassicurarli che non stavo soffrendo pregandoli di non badare a me. Ma non sentivano ragioni e rallentarono il passo per camminare al mio passo. Mio padre raccolse un bastone a tre piedi abbandonato da qualcuno e me lo diede. Mia madre mi spronava ad andare più veloce, dicendo che di quel passo non ce l’avremmo fatta a salire sull’aereo inviato dal presidente Mao.
La terra ricominciò a tremare. Ho scoperto dopo che quelle scosse sono le cosiddette “repliche”. La gente nel panico correva in massa. Mio padre avanzava sospinto dalla marea umana. Mia madre gridava: “Chunlei, su, sbrigati! Ti aspettiamo alla pista. Ti teniamo un posto sull’aereo”.
I sopravvissuti mi passavano accanto come un torrente in piena che inghiottì la voce di mia madre in un attimo. Io, che a differenza loro non avevo tanta paura di morire, proseguii con flemma lungo il ciglio della strada. Non so da dove prendevo il coraggio, fatto sta che non avevo il minimo timore di perdere la vita. Qingkui non c’era più: che senso aveva vivere?
Ora che sono dottore so che quando hai ferite ovunque e sei fradicio di pioggia, il rischio di prenderti il tetano è alto. Quando si dice che le disgrazie non vengono mai sole o che a nave rotta ogni vento è contrario! Che iella! Il temporale sopraggiunse senza preavviso e i superstiti si misero a correre sotto la pioggia. Le gocce cadevano sulle schegge conficcate nel mio corpo come se suonassero uno strumento musicale. Non sentivo dolore, anzi, mi piaceva il rumore della pioggia sui pezzi di vetro. Ancora oggi mi stupisco del mio coraggio di allora. A poco a poco la folla si diradò, rimanevano solo gli anziani, i malati e i feriti, tutta gente che camminava a fatica sotto la pioggia. D’un tratto sentii gridare: “Chunlei!”. Ci misi un bel po’ a capire che chiamavano me.
Ed era il marito di Qingkui, Nian. Un blocco di cemento gli aveva fratturato tibia e perone, e avanzava strisciando. Era coperto di fango e dalla ferita fiottava sangue. Gli diedi il bastone che avevo in mano e si rialzò in piedi. Reggendosi alla mia spalla, cominciò a camminare tentoni. Il sangue gocciava a terra e scorreva nelle canalette mescolandosi ai rivoli di pioggia. “Povera Qingkui, che brutta fine ha fatto! Sentivo le sue urla disperate!”, esclamai. Lui ritrasse la mano dalla mia spalla e, aiutandosi con il bastone, continuò saltellando su una gamba sola. Lo raggiunsi e rimanemmo entrambi in silenzio ad ascoltare il suono della pioggia sui frammenti di
vetro.
Lui avanzava a saltelli sempre più rapidi, finché non mi seminò. “Nian, aspettami!”, implorai.
“No”, mi rispose, “altrimenti non avrò più sangue!”. Era come tutti gli altri, aveva paura di morire: ma perché tutti avevano così tanta paura della morte? Non pensavano ad altro che a correre, senza voltarsi a guardare i loro cari che si erano lasciati dietro. Perché Nian non era rimasto con Qingkui? Un cane non abbandona un altro cane quando muore.
Mio padre raccolse un bastone a tre piedi abbandonato da qualcuno e me lo diede. Mia madre mi spronava ad andare più veloce, dicendo che di quel passo non ce l’avremmo fatta a salire sull’aereo inviato dal presidente Mao
“Tu vai, salvati!”, gli urlai come riacquistando lucidità, “io torno indietro da Qingkui!”.
Si fermò di botto e si girò verso di me: “Ma chi ti ha detto che è morta? Chi è stato?”.
“L’ho capito io dalle urla”, risposi. “Non è morta, è andata avanti”.
“Non è morta?”, domandai sbalordito. “Allora, perché non ti ha aspettato?”.
“Sono stato io a dirle di andare avanti. Ora la cosa importante è accaparrarsi un posto sull’aereo. Il presidente Mao ne ha inviati un numero limitato, una dozzina. Si salva solo chi riesce a prendersi un posto”, mi spiegò.
Dunque era andata avanti per quello, come mia madre. Siccome Qingkui era ancora viva, era viva… recuperai immediatamente le forze e raggiunsi Nian a passo spedito. Mentre calpestavamo le pozzanghere, mi parve di sentire Qingkui che urlava. Le urla venivano dal gruppo di gente che ci precedeva.
“È lei?”, domandai. Lui tese l’orecchio alcuni secondi, poi rispose: “Ci sta dicendo di sbrigarci!”.
Riprendemmo la marcia con tutte le forze e l’energia che avevamo in corpo. “Qingkui canta proprio bene!”, osservai.
Quando mi dimisero, tornai nel luogo dove era crollata la mia casa: c’erano blocchi di cemento armato sgretolati da cui spuntavano le barre d’acciaio. Mi misi alla ricerca del cadavere di Qingkui tra le macerie
“E quand’è che canta?”, chiese Nian. “Di sera, no?”, risposi.
“Mi vuoi dire che non l’hai mai sentita cantare? Di notte canta sempre lo stesso motivetto. Le dormi accanto e non te ne sei mai accorto?”.
“Ma non canta, mugola, geme. Quando ti sposi capirai: alle donne piace mugolare in quel modo”, mi spiegò lui.
“Tutte le canzoni sono belle, ma quelle di Qingkui sono le migliori in assoluto. Anche se non hanno le parole: sono belle e basta!”, confessai.
“Come la borsa dell’acqua calda sotto le coperte quando fa freddo. Ecco, in quel senso. Capito?”.
“E i suoi panini al vapore? Non sono buonissimi?”.
“Lascia stare: solo a parlarne mi è venuta l’acquolina in bocca”.
“Tua zia non ha difetti: le scarpe da ginnastica, per esempio, le lava così bene da farle tornare bianche. Pure meglio di mia madre! E poi profuma più di qualsiasi profumo. E i suoi occhi, le fossette, il collo candido e affusolato: non ha un difetto! Il vitino da vespa, il sedere sodo: tutti sostengono che mi darà un figlio sano e forte. Un indovino mi ha detto che vivrà almeno fino a ottant’anni, morirò prima io…”. Più parlava e più s’infervorava, ma a un certo punto scoppiò a piangere.
“Niente,” rispose, “la gamba mi fa un male tremendo”.
Camminammo in silenzio per un bel pezzo, i nostri passi erano sempre più pesanti. Poi mi disse: “Quando sarai grande, ti troverò una moglie altrettanto brava”.
“Io voglio Qingkui e nessun’altra!”, protestai.
“Scemo, lei è già mia. Colpa di tua madre che non ti ha messo al mondo prima!”, esclamò.
“Quando sarò grande, me la regali?”, domandai.
“Potreste almeno evitare di trasferirvi da un’altra parte, così saremo per sempre vicini di casa?”, lo incalzai.
“Ma se non abbiamo più una casa, è crollato tutto”, fece lui.
In quel momento mi ricordai che il palazzo era andato distrutto. “Davvero verranno a prenderci con gli aerei?”, chiesi.
“Il presidente Mao ha a cuore il popolo”, rispose.
“E il presidente Mao ci darà una casa nuova?”.
“Allora quando ce la daranno, dovrai lasciarmi vivere nell’appartamento accanto al vostro”.
Smise di piovere. All’orizzonte apparve una luce pallida. Tutte le volte che cercavo di mettermi carponi, lui mi spronava: “Ogni passo avanti è un passo in meno dall’aereo. Chissà, magari Qingkui è già riuscita a prenderci tanti posti. Magari in aereo ti fai una bella dormita sulle sue gambe”. Stavolta Qingkui mi avrebbe permesso di rannicchiarmi con la testa sulle sue ginocchia senza che dovessi fingermi malato. Quanto avrei voluto farmi un bel sonnellino sulle sue cosce! Quel pensiero mi spinse a continuare, un passo dopo l’altro, dietro a Nian. Eravamo vicini all’aeroporto, s’intravedeva una gran folla di gente. Quando finalmente la raggiungemmo Nian ebbe un collasso e cadde a terra con un tonfo, come un grosso albero. Si era dissanguato.
“Chunlei, se ce la farai, ti supplico di cercare la salma di Qingkui e di darle sepoltura al posto mio…”, furono le sue ultime parole.
Allora ebbi la certezza che Qingkui era morta. Nian l’aveva usata per spronare sia me sia se stesso a raggiungere l’aeroporto. Se non fosse stato per quel pensiero mi sarei accasciato a terra a metà strada e oggi non sarei qui a raccontarti questa storia. Ricordo la fitta al petto e le lacrime che sgorgavano a fiotti. Piangevo e, a poco a poco, insieme al pianto riapparve il dolore: mi bruciava dappertutto e sentivo male da morire. Vedevo per davvero delle fiamme su di me: erano i raggi del sole che illuminavano i frammenti di vetro conficcati nella mia carne. Sembravo trasparente e scintillavo. Nella luce del sole, si radunò attorno a me una folla, formando un cerchio. Le persone continuavano ad ammassarsi e il cerchio si faceva sempre più grande. Notai che nessuno indossava degli abiti e tutti tremavano dal freddo. Come avrei voluto che Qingkui fosse ancora viva, e fosse lì nuda tra la folla! Desideravo ardentemente vederla almeno una volta nuda.
Se ci pensi bene, i raggi del sole che illuminano una pista aerea piena di corpi nudi è uno spettacolo impressionante. È il simbolo della vita stessa. A notte fonda, per salvarsi la pelle, la gente era fuggita senza pensare a vestirsi. Tempo dopo qualcuno mi disse che non si era salvato praticamente nessuno di quelli che avevano cercato di vestirsi dopo la scossa: duecentoquarantamila persone.
Finalmente sentii un fragore provenire dal cielo, pensai che fossero gli aerei. Ma non feci in tempo a vederli perché le gambe diventarono molli e non mi ressero più. Quando caddi a terra, le schegge e i frammenti di vetro conficcati nel mio corpo si sparsero tutt’attorno. All’improvviso una mano, morbida come quella di Qingkui, mi trascinò a sé. Spiccai il volo sulla pista gremita di corpi nudi. Poi, altrettanto improvvisamente, la mano lasciò la presa e ricaddi al suolo.
Per fortuna non mi presi il tetano. Mi salvarono la vita in un ospedale da campo. Quando mi dimisero, tornai nel luogo dove era crollata la mia casa: c’erano blocchi di cemento armato sgretolati da cui spuntavano le barre d’acciaio. Mi misi alla ricerca del cadavere di Qingkui tra le macerie. Spostavo pietre e pezzi di cemento. Scavai a mani nude per tre giorni e a furia di scavare i palmi cominciarono a sanguinarmi. Di Qingkui, però, neppure l’ombra. Da allora, ci torno ogni 28 luglio. Tutti i sopravvissuti, decine di persone, fanno lo stesso. Se ne stanno lì in silenzio a piangere i cari che hanno perso. Non ho mai intravisto Qingkui tra la gente che viene a ricordare i defunti. Quando tutti se ne vanno, mi siedo sulle macerie e chiudo gli occhi, piano piano. E mi appare Qingkui accanto alla testata del mio letto che mi fa un’iniezione con le sue dita morbide. Siamo talmente vicini che vedo le sue lunghe ciglia come lucide per l’umidità, le pupille più limpide del cielo azzurro e le fossette perennemente disegnate sulle gote arrossate.
Scusami, ma ogni volta che arrivo a questo punto del racconto, non trattengo le lacrime. E appena cominciano a scendere, devo immediatamente riaprire gli occhi. Mi piacerebbe mettere il dvd in pausa e fissare per sempre quella scena nella mente. Ecco qui: oggi, a quarant’anni suonati, non mi sono ancora sposato. Ne ho viste tante di belle donne, ma nessuna bella come Qingkui. ◆
Dong Xi, nome d’arte di Tian Dailin, è uno scrittore e sceneggiatore originario della regione autonoma del Guangxi, nel sud della Cina. Nato nel 1966, vive a Pechino. Il titolo originale di questo racconto è Ni bu zhidao ta you duo mei (Non sai com’era bella). La traduzione è di Antonio Paoliello.
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Questo articolo è uscito sul numero 1390 di Internazionale, a pagina 70. Compra questo numero | Abbonati