Il 31 luglio 2024 sull’isola dei Fagiani, un pezzetto di terra nel fiume Bidasoa, che segna il confine tra Francia e Spagna nei Pirenei baschi, si è svolta una curiosa cerimonia. Un gruppetto di persone è sceso da alcuni gommoni per incamminarsi verso un monumento, l’unica costruzione sull’isola. La maggior parte di loro indossava le candide uniformi delle marine francese e spagnola.
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Davanti al monumento si sono tenuti discorsi e sono state deposte corone di fiori. È stata ammainata la bandiera spagnola per issare al suo posto il tricolore francese. È stato persino suonato l’inno dell’isola – ebbene sì, ne ha uno, pur essendo disabitata. L’atmosfera era al contempo solenne e gioiosa, proprio come l’anno precedente e quelli ancora prima. Ogni 31 luglio la Francia riprende la sovranità sull’isola dei Fagiani, sei mesi dopo averla restituita alla Spagna.
L’isola è l’unico esempio al mondo di condominio temporale, un territorio condiviso da più paesi con sovranità alternata. L’autorità è affidata a turno ai comandanti di marina francese e spagnolo di stanza a Bayonne e San Sebastián, che portano il curioso titolo di “viceré”. Nel 2022, per la prima volta, è stata nominata una viceregina, la francese Pauline Potier. Al momento di assumere le sue funzioni, Potier ha sottolineato che lo strano destino dell’isola era ben più che una curiosità: “È un simbolo del successo della diplomazia sulla guerra”.
L’isola dei Fagiani è indivisa dal novembre 1659. Fu qui che venne negoziato e firmato il trattato dei Pirenei, che mise fine a decenni di guerra tra Francia e Spagna. Grandi diplomatici come il cardinale Mazzarino e don Luis Méndez de Haro sedettero insieme per mesi per discutere i termini della pace, tra cui anche il nuovo confine tra i due regni, quello che ancora oggi attraversa i Pirenei.
Il trattato dei Pirenei fu un trionfo di moderna diplomazia. Fu il coronamento della pace di Vestfalia, l’accordo continentale che concluse un secolo di guerre devastanti in Europa. La più brutale era stata la guerra dei trent’anni, che tra il 1618 e il 1648 provocò otto milioni di morti. Il continente era stato messo a ferro e fuoco dalla Svezia alla Spagna, e un terzo della popolazione tedesca era scomparso. Ma la diplomazia era riuscita a mettere fine alle ostilità.
Quello che successe in Vestfalia continua a plasmare il modo in cui gestiamo le relazioni internazionali, oggi su scala globale. La politica planetaria è ancora agli inizi, ma il suo formato resta invariabilmente diplomatico: l’accordo di Parigi sul clima del 2015, per esempio, è stato negoziato da delegati nazionali. E se la storia della diplomazia ci insegna qualcosa, è che le istituzioni, di fronte a sfide esistenziali, possono cambiare e reinventarsi. Guardando al passato possiamo trovare non solo degli insegnamenti, ma anche un po’ di speranza.
La diplomazia moderna nacque nell’Europa del primo settecento, e da lì si diffuse in tutto il mondo. Naturalmente non c’è nulla di intrinsecamente “occidentale” o “europeo” nella diplomazia. Per millenni, paesi e civiltà si sono impegnati in trattative formali con altri paesi e civiltà. Le città-stato mesopotamiche concludevano trattati di pace intorno al 2500 avanti Cristo (aC). I faraoni egizi mandavano emissari per negoziare la pace con gli ittiti nel 1259 aC. Le città-stato greche del primo millennio aC avevano araldi e consoli onorari per la rappresentanza all’estero. All’incirca nello stesso periodo, in Cina si sviluppava un sofisticato sistema diplomatico tra i regni rivali dell’epoca degli Stati combattenti (475-221 aC). In India, nel terzo secolo aC, l’imperatore Ashoka usava la diplomazia per diffondere il buddismo in tutto il subcontinente. Anche i regni maya e inca si affidavano a emissari per tutelare i loro interessi nelle regioni circostanti, e come loro i romani, i vichinghi, gli arabi e il Vaticano.
Eppure, nell’Europa del settecento successe qualcosa di particolare. Gli inviati diplomatici non rappresentavano più solo il loro re, imperatore, sultano o faraone, ma qualcosa di nuovo e infinitamente più astratto: lo stato. E fu questa versione della diplomazia ad affermarsi nell’epoca moderna.
Quando Geoffrey Chaucer fu inviato come emissario in Italia tra il 1372 e il 1378, di fatto si trattò di un viaggio d’affari per conto di Edoardo III. Il re cercava di ottenere un prestito dai fiorentini, un porto dai genovesi e una nuora dai milanesi.
Ma quando il cardinale Richelieu, primo ministro francese sotto Luigi XIII, istituì il primo ministero degli esteri moderno, negli anni venti del seicento, il principio fondativo non era il tornaconto del sovrano ma la ragion di stato, cioè l’interesse nazionale. Il concetto era stato introdotto pochi decenni prima da Niccolò Machiavelli a Firenze, e Richelieu lo applicò alla guerra dei trent’anni. Pur essendo cattolico, scelse di sostenere gli svedesi protestanti contro gli spagnoli cattolici – una mossa cinica che fece della Francia la potenza dominante in Europa.
Per Richelieu, lo stato moderno era un’organizzazione politica con un forte potere centralizzato che deteneva la sovranità esclusiva su un territorio chiaramente definito. Per mantenere uno scrupoloso equilibrio di potere con altri stati bisognava inquadrare diplomatici altamente qualificati in un corpo professionale permanente, con ambasciatori che restavano all’estero per anni. Solo così avrebbero potuto raccogliere tutte le informazioni rilevanti e impegnarsi in quella che Richelieu chiamava la négociation continuelle.
Il modello messo a punto da Metternich fu presto replicato altrove
La sua idea gettò le fondamenta per il sistema di stati sovrani formalizzato nel 1648 con la pace di Vestfalia. In questo primo atto della storia diplomatica, che durò fino all’ottocento, i negoziati si svolsero soprattutto su base bilaterale: la Francia con la Spagna, la Svezia con la Russia, la Polonia con il Sacro Romano Impero. Diplomazia significava definire i confini, mantenere gli equilibri di potere e proteggere gli interessi nazionali. Era diffidenza rivestita di buone maniere.
Naturalmente questo nuovo sistema non scongiurava tutte le guerre, ma era sempre più apprezzato come alternativa al conflitto armato. Un buon sovrano, scriveva nel 1716 il diplomatico francese François de Callières, non deve “ricorrere alle armi per sostenere o rivendicare i suoi diritti finché non ha tentato ed esaurito la via della ragione e della persuasione”. Come molti altri esponenti dell’illuminismo, auspicava un ordine mondiale basato sulla ragione e il dialogo piuttosto che sulla religione e la guerra.
Il secondo atto
Un altro capitolo cominciò con il botto. Nel 1814 il ministro degli esteri austriaco, il principe Klemens von Metternich, era convinto che la diplomazia dovesse ripartire da zero. Dopo la rivoluzione francese e le guerre napoleoniche il vecchio ordine era chiaramente tramontato. Le pigre conversazioni bilaterali tra aristocratici imparruccati non bastavano più. Conquistando l’Europa continentale, Napoleone aveva infranto il vecchio equilibrio di potere, e c’era bisogno di una diplomazia radicalmente nuova, costruita sul consenso tra i governi europei.
Metternich fu per il secondo atto della diplomazia quello che Richelieu era stato per il primo. Era un conservatore a cui premeva soprattutto la stabilità, e preferiva la monarchia a qualunque tipo di avventura rivoluzionaria. Non si spingeva lontano come Immanuel Kant, che aveva proposto di realizzare una pace duratura creando una federazione di stati liberi, ma sosteneva l’idea che la cooperazione diplomatica internazionale fosse la chiave di volta della stabilità politica in Europa.
Il secondo atto vide emergere il multilateralismo come fondamento della diplomazia moderna. Tra il 1814 e il 1815 il congresso di Vienna riunì delegazioni delle cinque grandi potenze e di altri dodici paesi per affrontare le conseguenze del periodo napoleonico. Insieme disegnarono una nuova mappa dell’Europa e costruirono un delicato equilibrio che sarebbe stato sorvegliato dal cosiddetto concerto d’Europa, un accordo per la consultazione multilaterale senza precedenti che sarebbe durato fino alla prima guerra mondiale. Se il mondo cambiava, doveva cambiare anche la diplomazia.
Il modello messo a punto da Metternich fu presto replicato altrove. La conferenza di Berlino del 1884-1885 riunì 14 stati europei con ambizioni imperiali per discutere le regole della colonizzazione dell’Africa. Le convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907 videro decine di paesi negoziare le regole della guerra. Il multilateralismo non equivaleva necessariamente all’internazionalismo. In questa fase era più una forma di “nazionalismo internazionale”: il concetto di ragion di stato rimaneva essenziale, ma se quell’ideale si poteva raggiungere con il dialogo multilaterale, tanto meglio.
Questo periodo di intensificati scambi dette anche inizio alle esposizioni universali (la prima si tenne a Londra nel 1851) e ai moderni giochi olimpici (Atene 1896). Era multilateralismo per le masse: intrattenimento competitivo in cui i paesi europei si sfidavano tra loro.
La prima guerra mondiale mise fine al concerto d’Europa, ma non alla diplomazia multilaterale. Il trattato di Versailles del 1919 approfondì il modello di Metternich. Il multilateralismo divenne la norma e assunse una forma permanente con la Società delle nazioni, un primo tentativo di istituzionalizzare il dialogo internazionale che nella pratica si rivelò piuttosto inefficace. Dopo la seconda guerra mondiale il multilateralismo fu adottato in modo ancora più deciso, e le Nazioni Unite furono il suo esito più importante. L’Onu doveva riuscire dove la Società delle nazioni aveva fallito: mantenere la pace mondiale. Negli anni cinquanta Henry Kissinger scrisse che, nell’epoca della minaccia nucleare, era “naturale” guardare al congresso di Vienna, “l’ultimo grande tentativo riuscito di risolvere le controversie internazionali tramite una conferenza diplomatica”.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, le istituzioni multilaterali fiorirono: l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, l’Organizzazione mondiale della sanità, l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura, la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale. A livello regionale nacquero la Comunità europea, l’Unione africana, l’Associazione delle nazioni del sudest asiatico, il Mercosur, il movimento dei paesi non allineati e molti altri.
L’ascesa del multilateralismo non segnò la fine della diplomazia bilaterale, perché i paesi continuarono a impegnarsi in negoziati reciproci. C’era una notevole sovrapposizione tra i due approcci: le grandi conferenze internazionali si concentravano sulle discussioni multilaterali nelle sessioni plenarie, ma lasciavano spazio ai colloqui bilaterali durante le pause, le colazioni e le cene di lavoro.
La diplomazia bilaterale classica si diffuse a livello globale, con la decolonizzazione e la fine della guerra fredda. Quello che era stato lo stile diplomatico occidentale servì da modello per molti nuovi regimi africani, asiatici ed est-europei. I membri dell’Onu passarono da 51 nel 1945 a 193 nel 2024, aggiungendo un nuovo livello di dialogo diplomatico.
In qualche modo funzionava. Con tutti i suoi limiti, la diplomazia del secondo atto ha contribuito a un mondo più sicuro. Negli ultimi trent’anni ci sono state meno guerre tra stati e le loro vittime annuali sono calate rispetto al secolo precedente, malgrado i recenti conflitti in Ucraina, Etiopia, Sud Sudan e Medio Oriente. Il risultato non è certo perfetto ma, come ha detto una volta l’ex segretario generale dell’Onu Dag Hammarskjöld, le istituzioni multilaterali non sono state create “per portarci in paradiso, ma per salvarci dall’inferno”. Quell’obiettivo minimo in qualche modo è stato raggiunto. Il fatto che nel dopoguerra non ci siano stati conflitti nucleari è un successo per cui la diplomazia multilaterale merita più credito di quanto le sia riconosciuto.
Non fu un caso se il classico modello di negoziazione multilaterale è stato scelto quando, a partire dagli anni settanta e ottanta, è emersa una minaccia alla pace mondiale del tutto nuova: il cambiamento climatico. Come ci si poteva salvare da quell’inferno? Nel 1988 fu istituito il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc), seguito nel 1992 dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che fu firmata da 166 paesi e oggi ne conta 198. Il suo massimo organo decisionale è la conferenza annuale delle parti (Cop), che ha prodotto il protocollo di Kyoto del 1997 e l’accordo di Parigi del 2015.
La politica climatica internazionale è quindi l’erede diretta di quattro secoli di storia diplomatica. Dal seicento e dal settecento (primo atto) ha ereditato il concetto di stati sovrani; dall’ottocento e dal novecento (secondo atto) la volontà di impegnarsi in un dialogo multilaterale. Ma così la ragion di stato – l’interesse illuminato della politica mondiale antropocentrica – è stata messa al centro della nascente geopolitica planetaria. E questo non poteva non avere conseguenze.
Acque inesplorate
“È un pacchetto storico per accelerare l’azione sul clima”, ha detto il presidente Sultan Ahmed al-Jaber alla fine della Cop28 a Dubai, nel dicembre 2023. “Abbiamo un riferimento ai combustibili fossili nel nostro accordo finale. Abbiamo contribuito a ristabilire fede e fiducia nel multilateralismo. E abbiamo dimostrato che l’umanità può unirsi per aiutare l’umanità”.
L’accordo è stato salutato come “una vittoria diplomatica” dal New York Times, “un’intesa epocale” da Le Monde e “un consenso storico d’importanza decisiva” dall’agenzia cinese Xinhua. La ragione principale era una riga che esortava i paesi a cominciare “un progressivo allontanamento dai combustibili fossili”. Un linguaggio così esplicito era una novità assoluta in 28 anni di Cop.
C’era qualcosa di bizzarro in quell’entusiasmo. Perché c’erano voluti quasi trent’anni per riconoscere qualcosa che la scienza aveva dimostrato da tempo? I negoziatori sapevano da decenni che il cambiamento climatico è dovuto alle attività umane, che i combustibili fossili causano più del 75 per cento delle emissioni di gas serra, e che perfino un riscaldamento modesto ha gravi conseguenze. Sapevano anche che il 2023 era stato l’anno più caldo mai registrato. Allora perché si sono limitati a “esortare” i paesi ad “allontanarsi” dai combustibili fossili “entro il 2050” in modo “ordinato”, senza impegni vincolanti?
La risposta è semplice: davanti a interessi nazionali divergenti e alle pressioni delle industrie, il multilateralismo tradizionale si è dimostrato assolutamente inadeguato ad affrontare crisi planetarie di lungo periodo. Nonostante la stabilità e la cooperazione che un tempo riusciva a garantire, la diplomazia moderna non è in grado di misurarsi con minacce sostanzialmente nuove. Il secondo atto è finito, ma il terzo non è ancora cominciato. Dall’inizio del nuovo millennio siamo bloccati in un lungo intervallo, con la diplomazia in pausa mentre il dramma della Terra si aggrava. E il cambiamento climatico è solo una delle tante sfide cruciali. Gli scienziati hanno individuato nove limiti planetari, sei dei quali sono già stati superati. Oltre al clima, ci sono i cambiamenti nell’uso del suolo e delle acque dolci, il crollo della biodiversità, le alterazioni dei cicli dei nutrienti e la diffusione di nuove sostanze come i pfas , gli ogm e le microplastiche. L’acidificazione degli oceani sta raggiungendo un punto critico. Queste minacce sono evidenti, eppure nessuna è stata affrontata con un’adeguata azione internazionale.
Il sistema Terra sta entrando in acque inesplorate, ma la diplomazia continua a comportarsi come se fossimo in territorio conosciuto. Siamo impreparati alle tempeste che ci aspettano e poco disposti a riprogettare la nave. È di nuovo il 1814, ma senza l’immaginazione di Metternich.
Al di là della logica della raison d’état, abbiamo l’urgente necessità di sviluppare il principio della raison de Terre
Quando si prova a ripensare le relazioni internazionali, di solito tutto si riduce a un altro infruttuoso dibattito sull’indispensabile ma mai realizzata riforma del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Quando lo sguardo è istituzionale, la soluzione è istituzionale. Il multilateralismo è ostacolato dalla sua incapacità di rinnovarsi, mentre l’ordine mondiale postbellico si sta disgregando a vista d’occhio.
Proprio quando l’umanità dovrebbe unirsi per affrontare la sua sfida più impegnativa – salvaguardare i sistemi da cui dipende la vita sul pianeta – siamo più divisi e meno intraprendenti che mai. Le guerre regionali destabilizzano le vecchie strutture di potere, i cambiamenti geopolitici creano nuove fratture e gli accordi internazionali si sgretolano.
Ogni anno che passa, l’Onu sembra somigliare al mondo del 1945 più che a come potrebbe essere nel 2045 – e presto potrebbe seguire la stessa sorte della Società delle nazioni. Le Cop diventano ogni volta più grandi, ma anche più inefficaci: l’influenza dell’industria dei combustibili fossili non smette di crescere. Al vertice del 2023 a Dubai hanno partecipato 2.456 lobbisti del settore: quattro volte più dell’anno precedente. Il loro numero superava tutte le delegazioni di istituzioni scientifiche, comunità indigene e paesi vulnerabili messe insieme. La presidenza era occupata dall’amministratore di una grande azienda petrolifera, il già citato Sultan Ahmed al Jaber. “Abbiamo deciso di non fingere più nemmeno”, ha commentato l’ex vicepresidente statunitense Al Gore, chiedendo di riformare le istituzioni internazionali “in modo che le persone di questo mondo, compresi i giovani di questo mondo, possano dire: ‘Ora siamo noi i responsabili del nostro destino. Salveremo il futuro e daremo speranza alla gente. Possiamo farlo!”.
Eppure non succede niente. Mentre Metternich dopo Napoleone seppe reinventare la diplomazia, noi sembriamo incapaci di rispondere ai bisogni urgenti della vita su un pianeta in fiamme.
Il motivo per cui gli strumenti del passato non bastano più è che il compito è diventato radicalmente diverso. La crisi planetaria con cui dobbiamo misurarci non è una guerra ordinaria, e neppure una guerra mondiale o una minaccia nucleare globale. È un tipo di complessità del tutto nuovo. È di origine antropica, ma la sua soluzione non può essere antropocentrica. È diventata una realtà fisica in sé, con dinamiche proprie in continua accelerazione, con forze centrifughe che catapultano conseguenze oltreumane al di là delle loro cause umane.
Ed è qui il cuore del problema: il sistema Terra è in piena emergenza, ma la stiamo affrontando con le solite soluzioni del mondo umano. Non stupisce che i concetti esistenti – sovranità nazionale, ragion di stato, diplomazia multilaterale e il cosiddetto coinvolgimento degli stakeholder (un eufemismo per i contatti con i lobbisti) – risultino così dolorosamente insufficienti. L’Onu è stata fondata per gestire i conflitti tra paesi, non per risolvere il conflitto tra l’umanità e il pianeta. Un’organizzazione orizzontale non può risolvere un problema verticale.
Dove abbiamo sbagliato? Da qualche parte lungo la strada della politica postbellica abbiamo cominciato a presumere che “istituzioni internazionali” fosse sinonimo di “governance globale” e che questo bastasse. Abbiamo dimenticato che la parola internazionale significa proprio questo: inter-nazionale, alla lettera “tra nazioni distinte”. Era questa la logica alla base delle conferenze di Vienna, Berlino o l’Aja. Ma il pianeta è più che una somma di paesi. Aggrapparsi al modello multilaterale è come cercare di governare uno stato con un’assemblea di sindaci. Non stupisce che gli imperativi campanilistici continuino a prevalere sulle esigenze planetarie.
Come può la sovranità nazionale restare il fondamento delle relazioni internazionali di fronte a sfide globali colossali? Cosa può esserci di “estero” nella “politica” quando sulle questioni più esistenziali il mondo è più interconnesso che mai? Lo stesso concetto di “politica estera” appare sempre più privo di senso nell’era della planetarietà. La distinzione tra affari interni ed esteri risale a un’epoca in cui la finzione geofisica delle frontiere determinava in larga misura le società storiche. Ma gli eventi meteorologici estremi, l’acidificazione degli oceani, l’innalzamento dei mari, l’esaurimento delle risorse idriche, le migrazioni di massa, le pandemie globali e l’intelligenza artificiale fuori controllo se la ridono dei confini politici tra stati-nazione. Non significa che dobbiamo cancellare del tutto le frontiere, ma solo che dobbiamo cominciare a pensare a livelli di diplomazia che non siano guidati dalla sovranità. Al di là della logica della raison d’état, abbiamo l’urgente necessità di sviluppare il principio della raison de Terre: un approccio universale che dia la priorità agli interessi del sistema Terra rispetto a tutte le considerazioni nazionali.
L’invenzione della sovranità
Invocare un ridimensionamento della sovranità nazionale a prima vista sembra un’eresia: significa mettere in discussione il fondamento granitico di quattro secoli di diplomazia moderna, che ancora oggi costituisce la base dell’Onu. Non è la stessa Carta delle Nazioni Unite ad affermare che le relazioni tra i paesi devono “basarsi sul principio della sovrana uguaglianza di tutti i suoi membri”? Un principio nobile, certo, ma il risultato è che non siamo più in grado di vedere il mondo se non come un colorato puzzle di stati.
Eppure questa è una realtà molto recente. L’idea che la Terra sia nettamente divisa in un mosaico di stati-nazione, ciascuno impegnato a difendere la propria sovranità, è relativamente recente. In Children of a modest star (2024), i politologi Jonathan Blake e Nils Gilman sottolineano che nel 1945 metà della popolazione mondiale non viveva in uno stato-nazione, ma in un territorio sotto mandato, una colonia, un protettorato o un possedimento d’oltremare. È solo dalla metà degli anni sessanta che quasi tutta la popolazione terrestre vive in stati moderni, grazie alla decolonizzazione. Le colonie dovevano diventare paesi, il dominio straniero doveva cedere il passo all’indipendenza, e tutte queste nuove nazioni dovevano essere trattate come uguali. Ideali meravigliosi, ma che portarono anche all’assolutizzazione del principio di sovranità. Quello che in realtà era uno sviluppo relativamente recente e arbitrario – il mondo come puzzle di stati autonomi – fu scolpito nella pietra e presentato come eterno.
Siamo a un bivio. Se la diplomazia vuole avere un peso nell’era della planetarietà, il modello multilaterale dev’essere aggiornato
Oggi l’Unione europea dimostra che è possibile aggiungere un livello decisionale al di sopra degli stati-nazione senza negare le dinamiche nazionali. Perché non dovrebbe essere possibile su scala globale? L’Europa non è certo perfetta, ma ha dato ai suoi membri un peso che da soli non avevano. Perché una struttura di governance globale leggermente meno volontaristica dell’attuale Onu dovrebbe essere impensabile per definizione? Perché restiamo aggrappati a un modello orizzontale obsoleto che si dimostra sempre più inadatto ai problemi globali?
Sulle questioni planetarie l’umanità è molto meno divisa di quanto si tende a pensare. Un sondaggio su larga scala condotto nel 2024 dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo insieme all’università di Oxford rivela che l’80 per cento degli abitanti della Terra vuole che il proprio paese si impegni di più contro il cambiamento climatico. Con oltre 73mila persone intervistate in 77 paesi che insieme rappresentano l’87 per cento della popolazione mondiale, è la più ampia indagine di opinione pubblica sul clima mai realizzata. I risultati sono illuminanti: nell’80 per cento dei paesi dove è stato condotto il sondaggio la maggioranza era più preoccupata per il cambiamento climatico rispetto all’anno precedente; il 79 per cento pensava che i paesi più ricchi avrebbero dovuto sostenere i più poveri nella lotta contro il cambiamento climatico; e l’86 per cento riteneva che i loro governi avrebbero dovuto collaborare per affrontare la crisi climatica.
Se una grande maggioranza dell’umanità desidera questi risultati, perché una grande maggioranza dei diplomatici non riesce a ottenerli? Il divario tra le aspettative dei cittadini e ciò che la diplomazia riesce a ottenere è davvero sconcertante. Il mondo ha già fatto propria la raison de Terre, ma qual è la sfera pubblica in cui gli abitanti del mondo possono esprimersi in quanto tali? La risposta è sconfortante: da nessuna parte. La vecchia scuola della diplomazia multilaterale ha sequestrato il dibattito globale sul clima. Fazioni di parte con interessi consolidati, come le lobby finanziarie e industriali e le grandi organizzazioni della società civile hanno accesso ai negoziatori della Cop più facilmente rispetto ai miliardi di persone comuni che vedono in gioco il loro futuro.
Parlare e ascoltare
È proprio per questo che nell’ottobre 2021 si è tenuta la prima Assemblea globale, un’iniziativa informale che ha attirato l’attenzione del segretario generale dell’Onu António Guterres e del presidente della Cop26 Alok Sharma. Con l’aiuto di un database della Nasa sulla densità della popolazione umana, gli ideatori del progetto hanno generato un campione casuale di cento punti su una mappa del mondo. In corrispondenza di ciascuno di questi punti hanno cercato un referente locale che selezionasse da quattro a sei cittadini comuni, contattandoli per strada o porta a porta. Per ottenere un equilibrio in termini di età, genere, distribuzione geografica, livello di istruzione e atteggiamento nei confronti del cambiamento climatico, da un bacino di 675 candidati è stato estratto un gruppo di cento partecipanti. Gli organizzatori hanno ammesso che il campione era troppo piccolo per essere rappresentativo della popolazione mondiale, ma era solo un progetto pilota e aveva a disposizione meno di un milione di dollari.
Ma quel gruppo sembrava un buon ritratto del mondo. C’erano 18 indiani, 18 cinesi, cinque statunitensi, quattro indonesiani, tre brasiliani, pachistani e nigeriani, due rappresentanti per Russia, Bangladesh, Filippine e Repubblica Democratica del Congo, e altri 38 paesi avevano un esponente ciascuno. In linea con le statistiche globali, più della metà aveva meno di 35 anni, due terzi vivevano con meno di 10 dollari al giorno, oltre un terzo non aveva mai usato un computer in vita sua, un terzo non era mai andato a scuola e il 10 per cento non sapeva né leggere né scrivere. Sedici persone appartenevano a una comunità indigena e sei erano rifugiati.
I partecipanti all’assemblea globale hanno preso il loro compito molto sul serio, e questa esperienza li ha fatti sentire più forti
In undici settimane i partecipanti hanno passato insieme 68 ore online, in sedute plenarie e in sessioni ristrette. Tra loro c’era Li Shimao, un ragazzo cinese di Wuhan che studiava commercio internazionale e non si era mai interessato al cambiamento climatico. Durante le sessioni ha incontrato Mohamed Salem, un anziano allevatore di capre dell’isola di Socotra, in Yemen, che doveva percorrere sessanta chilometri per connettersi a internet. Mohamed ha raccontato a Li e al resto dell’assemblea che le sue capre soffrivano per le continue siccità e la sua terra si inaridiva. Madeleine Kiendrebeogo, una giovane collaboratrice domestica della Costa d’Avorio, ha potuto confrontarsi con Chom Chaiyabut, che viveva nelle foreste della Thailandia meridionale.
Queste persone comuni provenienti da tutto il pianeta hanno avuto accesso a informazioni, traduzioni e altri aiuti per esprimere e amplificare le voci delle loro comunità. Hanno preso il loro compito molto sul serio, e questa esperienza li ha fatti sentire incredibilmente più forti. “Prima mi sentivo come se fossi sotto un grande albero”, ha commentato Chaiyabut. “Ora è come se fossi sulla cima dell’albero.”
Ma soprattutto, insieme hanno elaborato la Dichiarazione dei popoli per il futuro sostenibile del pianeta Terra, un appello a “realizzare una Terra florida per tutti gli esseri umani e le altre specie, per tutte le generazioni future”. La dichiarazione raccomandava di sostenere l’accordo di Parigi, quindi non si poneva in antitesi al multilateralismo classico, ma lo usava come punto di partenza, mostrando più ambizione e creatività. Invocava un’equa distribuzione delle responsabilità sulla base delle emissioni storiche e delle capacità; iniziative climatiche inclusive che consentissero ai paesi vulnerabili di partecipare ai processi decisionali; l’inserimento dei diritti ambientali nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo; la protezione giuridica della natura contro l’ecocidio; un’educazione climatica approfondita per tutti; una transizione energetica equa, con il sostegno ai paesi poveri e una responsabilità condivisa tra cittadini, governi e aziende per garantire un futuro sostenibile. In dodici settimane avevano realizzato più che la Cop in trent’anni.
Alla fine Chaiyabut ha dichiarato: “Gli ideali dell’Assemblea globale mi fanno sperare che l’umanità riesca ad affrontare con successo la crisi climatica. Sono sicuro che possiamo farcela, perché credo che condividiamo tutti lo stesso amore per il nostro pianeta”. Anche il segretario generale dell’Onu Guterres ha celebrato l’iniziativa, dichiarando che era “un modo concreto per dimostrare come si può accelerare l’azione grazie alla solidarietà e al potere delle persone”.
Immaginiamo che un’assemblea globale dei cittadini come questa diventi parte integrante delle Cop. Dopo una fase preparatoria online, che potrebbe coinvolgere diversi milioni di persone, un campione casuale di mille individui, rappresentativo della diversità del mondo, parteciperebbe alla conferenza. E immaginiamo che sia autorizzata a deliberare, non solo nella zona verde aperta a visitatori e attivisti, ma anche nella zona blu, il cuore del convegno, dove si svolgono i lavori ufficiali. E che abbia accesso alle migliori conoscenze scientifiche sul cambiamento climatico e le sue cause. Ascolterebbe anche politici nazionali, organizzazioni della società civile, rappresentanti delle aziende, capi religiosi e comunità indigene. Alla fine presenterebbe le sue raccomandazioni ai leader del mondo. Avrebbe bisogno di quasi trent’anni per affermare l’ovvio, cioè che dobbiamo uscire da questo incubo fossile il prima possibile? Molto probabilmente no. Porterebbe la protezione planetaria a un livello completamente diverso, ben oltre i patetici mercanteggiamenti degli interessi nazionali e industriali alle conferenze annuali della Cop. Dimostrerebbe che, al di sopra della diplomazia bilaterale e multilaterale, può esistere un altro livello: la diplomazia planetaria.
I tempi sono maturi
La proposta di includere un’assemblea globale dei cittadini al cuore della diplomazia climatica è meno utopistica di quanto sembri. Idee simili stanno guadagnando terreno a livello internazionale. Questa, almeno, è la conclusione che ho tratto da una conferenza svoltasi a Oxford nel luglio 2024, intitolata “Un’assemblea globale permanente dei cittadini: aggiungere le voci dell’umanità alla politica mondiale”.
Qualche mese dopo è uscito un saggio di Laurence Tubiana e Ana Toni, intitolato The case for a global climate assembly. Le due autrici non sono delle figure di secondo piano. Tubiana è stata una delle principali negoziatrici dell’Accordo di Parigi, e Toni è la segretaria per il cambiamento climatico del ministero dell’ambiente brasiliano e la principale responsabile della Cop30 che si terrà a novembre a Belém, in Brasile.
Anche secondo loro la diplomazia attuale non è all’altezza del compito e serve il coinvolgimento di persone comuni. Citano come esempi le assemblee nazionali di cittadini estratti a sorte in Irlanda e in Francia, e i processi partecipativi in Brasile. È stato dimostrato che i cittadini scelti a caso prendono decisioni con più libertà e sono meno condizionati dagli interessi di parte rispetto alle élite politiche, arrivando a conclusioni più ambiziose e coerenti. Secondo Tubiana e Toni è ora di replicare questo modello su scala globale: “Abbiamo bisogno di un’assemblea globale dei cittadini per le persone e il pianeta, che riunisca individui da ogni paese, non solo per tracciare un percorso collettivo, ma per reinventare la nostra politica e incoraggiare una valutazione etica globale”.
Le due autrici sono convinte che i tempi siano maturi: negli stati del G20 il 62 per cento delle persone sostiene la proposta di queste assemblee, in paesi come Brasile, India, Indonesia, Messico e Sudafrica la cifra sale a più del 70 per cento, e in Kenya raggiunge l’80 per cento.
La loro conclusione è ovvia quanto audace: “Alla Cop30 e oltre, dobbiamo prevedere uno spazio dedicato ad ascoltare ogni voce e a garantire che la transizione non sia solo rapida ma anche equa. Per questo il Brasile si impegna a fare della Cop30 la Cop del popolo, e a dare a ogni persona della Terra l’opportunità di partecipare alla costruzione del nostro futuro comune”.
Questo primo tentativo di integrare un’assemblea globale di cittadini in un vertice internazionale sul clima dovrà affrontare ostacoli considerevoli. Il Brasile ha una lunga tradizione di processi partecipativi, ma è anche un esportatore di petrolio che nel febbraio 2025 ha aderito all’Opec+, l’organizzazione dei paesi petroliferi.
Stavolta l’assemblea centrale sarà preceduta da assemblee comunitarie in tutto il mondo. Sono state coinvolte organizzazioni di ogni continente, con particolare attenzione alle forme di conoscenza non occidentali.
Nel terzo atto della diplomazia abbiamo bisogno di spazi in cui il mondo possa parlare dei problemi del mondo. La gestione del clima globale richiede importanti scelte etiche sul futuro del pianeta che non possono essere affidate solo ai negoziatori nazionali. Per esempio: come distribuiremo la quantità di gas serra che possiamo ancora emettere? I paesi ricchi potranno continuare come sempre, dal momento che le loro economie sono ad altissima intensità di carbonio, o gli ultimi milioni di tonnellate dovrebbero essere destinati ai paesi più poveri, che ne hanno bisogno per il loro sviluppo?
Ancora più importante sarà il dibattito sulla geoingegneria. Con il pianeta che si avvicina a punti di svolta irreversibili e il rischio che il clima resti fuori controllo per secoli, dovremmo guadagnare tempo spruzzando particelle di solfati nella stratosfera per riflettere i raggi solari e far calare le temperature? Questo potrebbe creare un inverno artificiale, dando all’umanità qualche anno in più per rimboccarsi le maniche. È troppo pericoloso provare? O il pericolo più grave è che i governi rinuncino agli altri sforzi, visto che possono raffreddare la Terra semplicemente spargendo polvere? Sono scelte così fondamentali per il mondo che un campione ampio e rappresentativo degli abitanti del pianeta dovrebbe almeno avere l’opportunità di dire la sua.
Le grandi questioni non mancano. Solo per citarne qualcuna: l’umanità dovrebbe esprimersi su materie come pfas e microplastiche, oppure questi argomenti possono continuare a essere decisi a porte chiuse dalle élite politiche ed economiche? La Luna dovrebbe essere aperta allo sfruttamento dei suoi minerali e dell’energia solare e, se sì, a quali condizioni? E che dire di Marte e dell’uso crescente dello spazio interplanetario? Chi stabilisce se e quando l’esplorazione spaziale può diventare sfruttamento spaziale?
Oltre l’occidente
La domanda è semplice: come diavolo salveremo la Terra? Vogliamo continuare a osservare in silenzio lo spettacolo degli ultimi decenni, credendo che questo sistema sia l’unico possibile? Oppure trarre ispirazione dai sondaggi globali e dagli esperimenti che dimostrano come le persone comuni vogliono molta più azione e possono svolgere un ruolo cruciale?
Siamo a un bivio. Se la diplomazia vuole avere un peso nell’era della planetarietà, il modello multilaterale dev’essere aggiornato. Proprio come il bilateralismo dell’ancien régime fu radicalmente trasformato dai cataclismi del periodo napoleonico, così oggi il multilateralismo dev’essere profondamente rinnovato per adattarsi alle catastrofi del nostro tempo.
La grande domanda, quindi, non è se la diplomazia cambierà, ma come. Per quattrocento anni è stata al servizio dello stato-nazione; in futuro dovrà essere al servizio della Terra. Per cominciare a muoversi in questa direzione, deve mettere il prima possibile la voce degli abitanti del pianeta al centro delle sue decisioni cruciali – non per sostituire i negoziati, ma per integrarli, così come il multilateralismo di Metternich arricchì il bilateralismo di Richelieu.
Alla Cop o all’assemblea generale delle Nazioni Unite questi consessi potrebbero diventare essenziali per riflettere sul bene comune e sul lungo periodo, offrendo un quadro etico per le iniziative future. Idealmente, le loro raccomandazioni dovrebbero avere valore legale e diventare parte integrante del processo. Perché siano efficaci, bisognerà prevedere un meccanismo per dargli un seguito. Potremmo ispirarci alle prime assemblee di cittadini istituzionalizzate, come quella della comunità germanofona del Belgio, il primo luogo al mondo dove il parlamento eletto è affiancato da un’assemblea permanente di cittadini estratti a sorte. Ogni volta che questa formula delle raccomandazioni, i politici eletti sono obbligati a rispondere.
Qualunque sia la sua forma precisa, la diplomazia del terzo atto richiederà un allentamento della raison d’état a favore della raison de Terre. Può sembrare una prospettiva visionaria quanto la “federazione di Stati liberi” di Kant nel 1795, ma due secoli dopo l’idea del filosofo tedesco si è concretizzata, in particolare nell’Unione europea. L’Unione mostra anche come le voci degli stati e dei cittadini possono essere integrate nel processo decisionale internazionale, con il suo delicato equilibrio di poteri tra governi nazionali e parlamento transnazionale.
Ma il terzo atto della diplomazia non dovrebbe fissarsi troppo sugli esempi europei. Negli ultimi quattrocento anni ci siamo ispirati fin troppo all’occidente. Nel contesto attuale potrebbe essere più istruttivo rivisitare le antiche tradizioni della diplomazia non occidentale, largamente oscurate dal sistema vestfaliano degli stati sovrani.
La diplomazia classica cinese, per esempio, era basata sul concetto di tianxia, “tutto ciò che è sotto il cielo”, che abbracciava l’intero mondo fisico di terre, mari e mortali. Valori confuciani come ren (benevolenza), yi (correttezza) e xin (affidabilità) continuano a ispirare i diplomatici cinesi e potrebbero dimostrarsi ancora validi per delineare i contorni di una democrazia planetaria. Allo stesso modo potrebbe essere utile il concetto indiano di vasudhaiva kutumbakam, un’espressione sanscrita che significa “il mondo è una sola famiglia”: proviene da una delle Upanishad scritte tra l’800 e il 500 aC ed è stato il tema della presidenza indiana del G20 nel 2022-2023. L’Indonesia ha inserito la pratica tradizionale del musyawarah-mufakat — deliberazione e creazione del consenso a livello dei villaggi — nella filosofia fondativa della sua democrazia. Il concetto africano dell’ubuntu — “io sono perché noi siamo” — è un forte richiamo all’interconnessione umana e al legame universale tra tutti gli esseri viventi. Nel Sudafrica post-apartheid ha ispirato nuove forme di giustizia che hanno privilegiato la guarigione collettiva rispetto alla punizione individuale. Le idee e i valori contano, perché influenzano le istituzioni con cui lavoriamo. Per avere successo, quindi, la diplomazia del terzo atto avrà bisogno delle migliori idee che il mondo può offrirci.
C’è anche un chiaro bisogno di più giustizia demografica. Cina, India e Indonesia sono tre dei quattro paesi con più abitanti: insieme rappresentano più del 38 per cento della popolazione mondiale. E nel 2050 un quarto del pianeta sarà africano, perché la popolazione del continente salirà a 2,5 miliardi. Sembra arrivato il momento che alcuni dei loro princìpi filosofici e spirituali contribuiscano a determinare la politica globale del futuro. Diversi anni fa ho percorso l’alta via dei Pirenei, un tracciato lungo ottocento chilometri dall’Atlantico al Mediterraneo che segue sentieri in quota rimanendo quanto più possibile vicino al confine franco-spagnolo, stabilito tanto tempo fa sull’isola dei Fagiani. Salendo e scendendo le creste di granito e calcare, mi sono trovato più volte a maledire i negoziatori che avevano disegnato una linea sulla mappa senza essersi mai spinti lassù di persona. Ma l’escursione era magnifica, e mi ha dato il tempo per riflettere sulla bellezza e la fragilità del mondo.
A un certo punto, la realtà del cambiamento climatico mi è piombata addosso con violenza indimenticabile. Ero accampato davanti alla parete nord del Vignemale, la vetta più alta del versante francese. Al tramonto, il silenzio del paesaggio è stato improvvisamente rotto quando una sezione del ghiacciaio orientale della montagna è venuta giù in una nube di polvere e sassi. Il fragore era sovrannaturale e profondamente inquietante. Nei giorni seguenti non ho mai smesso di riflettere sull’accaduto. Ho cominciato a intuire che c’era qualcosa di profondamente sbagliato in un sistema mondiale basato solo sulla sovranità nazionale. Se il crollo del ghiacciaio del Vignemale aveva dimostrato qualcosa, era che i vizi privati non portano a virtù globali.
Tornato a casa mi sono reso conto che c’era un qualcosa di cartesiano nella diplomazia di stile occidentale che ha dominato il mondo. Richelieu stava ridisegnando la politica estera della Francia nello stesso periodo in cui Cartesio scriveva il suo Discorso sul metodo (pubblicato nel 1637). Entrambi ponevano il sé al centro della loro logica. Quello che per Cartesio era il cogito, per Richelieu era la ragion di stato: un punto di vista centrale da cui andava dedotto tutto il resto.
Questa coincidenza temporale forse non era un caso: solo pochi anni prima, Galileo Galilei aveva dimostrato che al centro della danza planetaria non c’era la Terra ma il Sole. Cartesio e Richelieu inventarono la metafisica e la politica autocentrica quasi per compensare qualcosa — dal geocentrico all’egocentrico, per così dire. Subito dopo che la Terra era stata detronizzata dal centro del Sistema solare, l’autocentrismo si radicò nel cuore della filosofia e della diplomazia occidentali, e ci è rimasto fino a oggi.
Ora è tempo di sviluppare un nuovo modello geocentrico — non in senso astronomico, ma filosofico: una consapevolezza che ponga il sistema Terra al centro del nostro modo di pensare e agire, e che consideri la raison de Terre la chiave di volta della governance globale. Rifacendosi a un ampio ventaglio di tradizioni filosofiche e spirituali, questa consapevolezza geocentrica può guardare oltre gli interessi delle generazioni attuali e le preoccupazioni strettamente umane per abbracciare il futuro lontano e la vita più che umana. Una prospettiva di questo tipo è già stata auspicata dall’assemblea globale, quando ha chiesto all’unanimità “una Terra prospera per tutti gli esseri umani e le altre specie, per tutte le generazioni future”. Più di quanto ci rendiamo conto, siamo già passati dall’illuminismo all’età dell’interconnessione. È tempo di progettare una diplomazia adatta a questa nuova realtà. È tempo di una governance planetaria. ◆gc
David Van Reybrouck è uno storico belga. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Revolusi. L’Indonesia e la nascita del mondo moderno (Feltrinelli 2023).
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Questo articolo è uscito sul numero 1630 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati