Una maglietta di cotone è un capo d’abbigliamento piuttosto comune. Ma per il Benin, un piccolo paese sulla costa dell’Africa occidentale senza una tradizione manifatturiera, potrebbe rappresentare l’inizio di una rivoluzione industriale.
“Dai coltivatori alla moda”, afferma Ramakrishnan Janarthanan, responsabile dello sviluppo della Arise integrated industrial platforms, un gruppo industriale con sede a Dubai che sta investendo 550 milioni di euro nel settore tessile e dell’abbigliamento, insieme al fondo sovrano del Benin e a un consorzio di aziende locali che si occupano della sgranatura del cotone, cioè la fase della lavorazione precedente alla filatura. La maglietta, spiega Janarthanan mostrandone una, è fatta con il cotone coltivato, raccolto, sgranato, filato, tessuto e tinto in Benin: “È incredibile quanti processi precedano la produzione. Noi vogliamo controllare l’intera catena del valore”.
Il settore dell’abbigliamento, che impiega molta manodopera a basso costo dopo che i macchinari hanno prodotto filati e tessuti, è da tempo considerato uno dei gradini più accessibili sulla scala dell’industrializzazione, dato che attira lavoratori e lavoratrici dalle campagne, e mette i paesi sulla lunga strada per uscire dalla povertà.
Il Benin, con i suoi 13 milioni di abitanti, sta cercando di ottenere un risultato raggiunto da pochi altri paesi africani: trasformare in prodotti finiti le materie prime. Oltre al cotone, ci sono gli anacardi, la soia, il karité e perfino i capelli umani per le parrucche. Finora, come molti altri paesi poveri, è rimasto intrappolato in uno schema commerciale per cui vende a prezzi bassi le sue materie prime e poi importa i prodotti lavorati molto più costosi.
“L’industrializzazione fa parte della strategia per rendere il nostro popolo più prospero”, afferma il ministro dell’economia e delle finanze Romuald Wadagni, un ex consulente della Deloitte che il presidente Patrice Talon ha voluto nel suo governo proprio per spingere il paese nell’era industriale.
In Benin l’intero raccolto di cotone, circa 300mila tonnellate di fibre, è esportato allo stato grezzo, principalmente verso il Bangladesh, dove viene trasformato in vestiti per l’industria globale della fast fashion, che ha un giro d’affari di 1.500 miliardi di dollari. Secondo gli esperti del settore, vendendo il cotone non lavorato il Benin, il più importante produttore africano, perde più del 90 per cento del valore.
Nel libro The travels of a t-shirt in the global economy (John Wiley & Sons 2005) l’economista statunitense Pietra Rivoli ha definito il cotonificio e il laboratorio tessile “il pulsante di accensione dell’urbanizzazione, dell’industrializzazione e della successiva diversificazione economica”.
L’alto funzionario etiope Arkebe Oqubay ha guidato il tentativo riuscito – anche se ora in fase di stallo – di creare nel suo paese una produzione di calzature e vestiti destinati all’esportazione. Oqubay osserva che Regno Unito, Germania, Giappone, Corea del Sud e Cina hanno cominciato il loro viaggio verso un relativo benessere economico proprio dal tessile, un’industria che in tempi più recenti ha reso possibile il decollo di paesi come il Bangladesh (anche la Corea del Sud ha cominciato con le parrucche).
“Se un paese vuole industrializzarsi, l’abbigliamento è la via principale”, afferma Oqubay. Questo settore, aggiunge, richiede moltissima manodopera, quindi è l’unico con cui si possono creare i trenta milioni di nuovi posti di lavoro che, secondo le sue stime, servono ogni anno in Africa per dare un impiego a una popolazione di giovani in costante aumento.
Nel parco industriale di Glo-Djigbé, a nord di Cotonou, la capitale economica del Benin, dove lavorano già 12mila operai, sorge un’enorme fabbrica tessile. Dotata di aria condizionata, si estende su 160mila metri quadrati, l’equivalente di ventidue campi da calcio, ed è piena di file di macchinari ronzanti provenienti da Svizzera, Germania e Giappone.
Più di mille operai e operaie appena assunti tagliano e cuciono tessuti, che sono prodotti al ritmo di cinquanta tonnellate al giorno. “È esattamente uguale a qualsiasi altra fabbrica moderna nel resto del mondo”, dice Janarthanan.
“Oggi ci lavorano mille persone. Prima tutto questo non esisteva”, dice Letondji Beheton, direttore esecutivo dell’azienda che gestisce il parco industriale da 1.650 ettari, nato dalla collaborazione tra la Arise e il governo del Benin. “È così che si trasforma un paese”.
Passi indietro
Industrializzare l’Africa: è un mantra ripetuto da decenni. In realtà però molti paesi del continente hanno fatto dei passi indietro quando i loro fragili settori manifatturieri si sono arresi alla concorrenza globale, soprattutto quella della Cina. A peggiorare la situazione ci sono strade pessime, autorità portuali corrotte e inefficienti, la scarsità di energia, un alto costo del denaro e un’élite pronta ad arricchirsi con le materie prime o le licenze per l’import-export.
Secondo la Banca mondiale nei paesi dell’Africa subsahariana, esclusi quelli ad alto reddito, la percentuale del pil relativa al valore aggiunto manifatturiero è scesa dal 18 per cento del 1981 all’11 per cento del 2023. In Benin, che ha un pil pro capite di 1.400 dollari, non arriva al 10 per cento.
Pochi paesi africani sono riusciti a invertire la tendenza. Mauritius, nota meta turistica di lusso e importante centro di servizi finanziari, ha intrapreso il percorso che l’ha portato a trasformarsi da un paese povero in uno di reddito medio-alto proprio grazie al settore dell’abbigliamento. Oggi il suo pil pro capite supera gli 11mila dollari.
Il Botswana, un altro paese di reddito medio-alto, con un pil pro capite di 7.200 dollari, ha sfruttato il settore dei diamanti: invece di esportare le pietre grezze, ha stretto accordi sempre più vantaggiosi con l’azienda De Beers per assicurarsi che attività come il taglio e la rifinitura siano realizzate all’interno del paese.
Il Marocco ha sfruttato le ottime infrastrutture, la manodopera specializzata e la facilità di accesso ai mercati europei per mettere su un’industria automobilistica e aerospaziale competitiva.
In Benin, il presidente Patrice Talon – un ex imprenditore soprannominato il “re del cotone” per i suoi interessi in questo settore– vuole replicare queste storie di successo. La fabbrica tessile e di abbigliamento a nord di Cotonou, che produrrà anche lenzuola, asciugamani e capi di vestiario come polo e leggings, rientra in una strategia nazionale di industrializzazione che mira a quintuplicare la capacità manifatturiera del paese entro il 2030. I calcoli del ministero delle finanze dicono che il settore contribuisce al 9,8 per cento del pil, ma per più di due terzi è composto da attività artigianali. Le poche industrie presenti sono attive soprattutto nella filatura del cotone e contribuiscono ad appena il 3 per cento del pil.
Secondo gli esperti, se tutto il cotone prodotto nel paese fosse lavorato e trasformato in loco, aggiungerebbe in un colpo solo 12 miliardi di dollari all’economia del Benin, che oggi vale 17 miliardi di dollari.
Talon sostiene che alla classe politica e imprenditoriale beninese è mancata l’ambizione a industrializzarsi, perché era più facile guadagnare con il commercio. Molti si sono arricchiti con il contrabbando di prodotti attraverso i confini porosi con la Nigeria, un mercato importante di 220 milioni di abitanti.
“Hanno sempre preferito ricavare commissioni dal commercio di materie prime, ignorando la fase della trasformazione”, dice Talon. “Ma noi vogliamo cambiare le cose”. Il presidente, che è al suo secondo mandato e probabilmente sta pensando a un terzo, è stato criticato dall’opposizione per aver limitato le libertà civili e la democrazia. Ma il suo governo è stato apprezzato per l’atteggiamento pragmatico e favorevole alle imprese, paragonato da alcuni a quello del presidente ruandese Paul Kagame. Il governo ha semplificato la trafila burocratica per registrare una nuova attività, ha adottato procedure di rilascio del visto tra le più rapide del continente, ha offerto incentivi a investitori stranieri e ha migliorato le infrastrutture, come le strade, la rete elettrica e il porto di Cotonou.
Da quando Talon è diventato presidente, otto anni fa, l’economia del Benin è sempre cresciuta intorno al 6 per cento, anche malgrado la pandemia, uno dei risultati migliori del continente. Beheton, che gestisce la zona industriale di Glo-Djigbé, conferma che il presidente pensa soprattutto agli affari. “Se lo chiamo e gli dico ‘presidente, abbiamo un problema’, lui è sempre disponibile. Anche di notte”, dice con entusiasmo.
I direttori dell’impianto tessile dicono che il governo ha contribuito a eliminare molti ostacoli. Fornisce elettricità al costo competitivo di otto centesimi per chilowattora e ha creato un’agenzia per snellire le procedure di autorizzazione e coordinare diversi ministeri.
“Finalmente non dobbiamo più girare come trottole per cercare di evitare funzionari corrotti o problemi amministrativi”, dice Herbert Semassa Moutangou, responsabile marketing della zona industriale, parlando della quantità di timbri richiesti agli investitori.
Una scommessa
Gagan Gupta, fondatore e direttore esecutivo della Arise, investitore nel settore manifatturiero di undici paesi africani, si dice colpito dalla serietà del Benin. In diciotto mesi sono state costruite cinque fabbriche per trasformare l’intero raccolto locale di anacardi in prodotti confezionati. Prima gli anacardi erano esportati in Vietnam per la lavorazione e il confezionamento. Oggi il loro valore per l’economia del Benin è decuplicato.
Il settore tessile è una grande scommessa, afferma Gagan Gupta. È convinto che il Benin possa diventare un importante snodo tra i mercati in Europa, nelle Americhe e in Africa occidentale. Il cotone beninese cresce grazie alla pioggia, non è irrigato e la fibra grezza non deve viaggiare 45 giorni su una nave per arrivare nelle fabbriche in Asia, e altri 45 per tornare indietro. Questo significa che gli abiti “made in Benin” produrranno due terzi in meno di emissioni di gas serra.
Mentre l’Europa sta aumentando i costi d’importazione per le merci ad alta intensità di emissioni, il Benin potrebbe ricavarne un vantaggio. La fabbrica della Arise incorporerà nei suoi tessuti un pigmento che funzionerà come un codice seriale contenente informazioni sulla filiera, grazie alla tecnologia brevettata Fiber trade. Secondo Gupta, questo offrirà agli acquirenti garanzie su aspetti come la manodopera impiegata nella raccolta del cotone e l’uso di pesticidi.
La Arise sostiene che gli operai tessili del Benin hanno già raggiunto livelli di produttività paragonabili a quelli del Bangladesh e dello Sri Lanka e che ricevono stipendi simili, di circa 140 dollari al mese, fino a un terzo in meno rispetto a quelli cinesi. Alcuni settori dell’impianto industriale sono stati isolati e destinati a ospitare centri di formazione. In uno si vedono decine di lavoratori intorno a un istruttore in piedi davanti a un cartellone con scritto: “Addestramento per asciugamani di spugna”.
Gupta dice che la fabbrica ha già spedito ordini per camicie e pantaloni per The Children’s Place, un rivenditore di abbigliamento statunitense, e per Kiabi, una catena francese. Per gli asciugamani e la biancheria sono arrivate “espressioni di interesse” da Carrefour, El Corte Inglés, Walmart e altre grandi catene. Nella fabbrica si producono anche uniformi per l’esercito del Benin a un prezzo più basso rispetto a quello del precedente fornitore.
“Bisogna essere competitivi su scala globale”, conclude Gupta. “Altrimenti è tutta un’operazione di facciata”.
Ce la faranno?
Anche se la Arise raggiungesse i suoi obiettivi, entro la fine del 2026 lavorerà solo 40mila tonnellate di cotone, cioè il 13 per cento della produzione nazionale. Per processare l’intero raccolto, dovrà attirare investimenti necessari ad aprire circa 25 nuove fabbriche.
Oqubay, che ha gestito la spinta verso l’industrializzazione dell’Etiopia e ora insegna alla School of oriental and african studies (Soas) di Londra, non ha molta fiducia nel fatto che il Benin riuscirà a raggiungere i suoi obiettivi. Creare un settore manifatturiero dal nulla, sostiene, è molto difficile e per farlo servono prospettiva di scala, una forte determinazione e la capacità di cambiare continuamente strategia.
L’Etiopia, con una popolazione di 120 milioni di abitanti e una disponibilità di energia idroelettrica a buon mercato, ha fatto progressi nel settore dell’abbigliamento, del pellame e delle calzature, ma il suo successo è stato interrotto dalla guerra civile e dalla conseguente fine, nel 2022, del libero accesso al mercato statunitense sancito dall’accordo African growth and opportunity act (Agoa), un duro colpo per il paese.
Anche prima di arrivare a quel punto ci sono voluti anni di studi, sperimentazioni e false partenze per far decollare il settore. Oqubay ha dei dubbi sull’approccio della fabbrica integrata del Benin, affermando che è meglio avere investitori specializzati in filati e tessuti per creare economie di scala. “Da quel che so l’investimento in Benin è troppo piccolo, ma potrebbe essere un buon inizio”, dice. “Non esiste un’unica ricetta. Bisogna essere pragmatici”.
Il giornalista Joe Studwell, che sta scrivendo un libro sull’industrializzazione africana, non ha approfondito il caso del Benin. Ma, osserva, dopo aver ampliato il settore dell’istruzione, i paesi africani hanno finalmente raggiunto dei livelli di alfabetizzazione e una densità di popolazione tali da poter avviare l’industrializzazione, anche se molto in ritardo.
Un grosso problema, a suo avviso, è l’incompetenza di dirigenti e burocrati rispetto a quelli che hanno alimentato le rivoluzioni manifatturiere nei paesi asiatici.
Studwell ha studiato in modo approfondito i fattori determinanti del decollo industriale di molte economie asiatiche e secondo lui “alcuni stati africani sono ancora oggi in condizioni disastrose, perciò a trainare il cambiamento è il settore privato”. Come esempi cita la Bakhresa, un gruppo tanzaniano che lavora prodotti agricoli, e l’imprenditore nigeriano Aliko Dangote, le cui aziende hanno scalato la catena del valore, partendo da sale, farina e cemento per costruire infine una raffineria di petrolio da 20 miliardi di dollari, la più grande del continente.
Studwell afferma che si può industrializzare un paese senza uno stato forte, come nel caso della Cambogia, che ha attirato gli investimenti delle aziende cinesi a caccia di costi di produzione più bassi rispetto al loro paese. “Oggi la Cambogia esporta più di dieci miliardi di dollari di prodotti tessili all’anno, non per suoi meriti particolari ma perché ai cinesi serviva un posto dove produrre”.
Dani Rodrik, un economista di Harvard, è pessimista riguardo alle possibilità del Benin, o di qualsiasi altro paese, di replicare il successo industriale asiatico. In un’epoca di automazione, sostiene, nei paesi a basso reddito la manodopera avrà a disposizione meno posti di lavoro nel comparto manifatturiero. “La scala verso lo sviluppo sta diventando piatta”.
Ha-Joon Chang, economista sudcoreano che ha approfondito il tema dell’industrializzazione in Africa, non è d’accordo. Secondo lui i posti di lavoro nel settore manifatturiero non stanno sparendo. E fa riferimento a uno studio del ricercatore Nobuya Haraguchi dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale (Unido), da cui emerge che l’occupazione e il contributo in valore aggiunto al pil globale del settore manifatturiero non sono cambiati in modo significativo dagli anni settanta.
Chang nota una più forte ambizione dei governi africani a industrializzarsi: “C’è fermento. E tutto comincia con l’ambizione”.
Le fabbriche a Glo-Djigbé, in Benin, produrranno anche piastrelle in ceramica e, con un po’ di fortuna, assembleranno moto elettriche. Le aziende di imballaggi nel distretto hanno cominciato a produrre parte della plastica e del cartone necessari a spedire i prodotti finiti, anche se articoli apparentemente banali come bottoni, cerniere ed etichette sono importati dalla Cina e dall’India.
“Quando mi dicono che nessuno di questi paesi conterà un gran che, faccio sempre notare che all’inizio degli anni sessanta la Corea del Sud aveva meno della metà del reddito pro capite del Ghana”, dice Chang. Oggi è otto volte più ricca a parità di potere d’acquisto, a testimonianza di quello che secondo lui si può ottenere tramite l’industrializzazione.
Per Studwell niente impedisce ad alcuni paesi africani di seguire una traiettoria in stile asiatico. “Non mi aspetto che lo facciano tutti e cinquantacinque insieme”, dice. “Ma se ce la facessero anche solo in cinque, darebbero un esempio molto positivo”. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1584 di Internazionale, a pagina 55. Compra questo numero | Abbonati