Ci sono premi per i migliori film dell’anno, ma non per i migliori video di TikTok. Peccato, perché il 2024 ha sfornato piccoli capolavori. Come quello di @yojairyjaimee: una ricostruzione impeccabile, lunga un minuto, di un discorso surreale di Kanye West del 2009 (quando ancora non si faceva chiamare Ye). O i dodici secondi di @accountwashackedwith50m: fragole ricoperte di cioccolato viste attraverso gli occhi di un sassofonista r&b. O ancora @notkenna: sette secondi di un cane che, grazie a effetti speciali molto casalinghi, sembra volare su un manico di scopa. Queste gemme di internet sono gli “zaffiri dell’istante” di cui parla la poeta Patricia Lockwood: lampi di luce strani e ipnotici.
|
|
Podcast | |
Questo articolo si può ascoltare nel podcast di Internazionale A voce.
È disponibile ogni venerdì nell’app di Internazionale e su internazionale.it/podcast
|
|
Meglio non fissarli troppo a lungo, però. Ogni video è uno sprazzo di espressività, ma un’immersione prolungata su TikTok è come un fuoco d’artificio sparato in faccia per ore. Di certo non fa bene, no? Già nel 2010 il giornalista Nicholas Carr lanciava l’allarme in Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello (Raffaele Cortina 2010), finalista al premio Pulitzer. “La rete”, scrive Carr, “sembra mandare in frantumi la mia capacità di concentrazione e di contemplazione”. Nel libro parla della sua crescente difficoltà nel leggere testi lunghi. Racconta anche di un brillante studente di filosofia, un borsista del prestigioso programma Rhodes, che non leggeva libri, ma raccoglieva informazioni su Google. E conclude: “Sembra che questa sia la regola, non l’eccezione”.
Da allora la questione ha dato vita a un intero filone di saggistica: Come diventare indistraibili di Nir Eyal (Lswr 2020), L’attenzione rubata di Johann Hari (La Nave di Teseo 2023), Deep Work. Concentrati al massimo di Cal Newport (Roi 2020), Come non fare niente di Jenny Odell (Hoepli 2021). Ora Carr è tornato con Superbloom, che non parla solo di distrazione, ma di tutti i danni psicologici causati dalla rete. Parla di “frammentazione della coscienza”, di un mondo “reso incomprensibile dalle informazioni”.
Leggendo questi libri è difficile non preoccuparsi. Ma dopo il secondo o il terzo sorge un dubbio: non c’è sempre chi si allarma per il potere disorientante di qualcosa, dai pianoforti ai manifesti troppo colorati? Non c’è, in effetti, un lungo passaggio nel Fedro di Platone in cui Socrate sostiene che la scrittura rovinerà la memoria delle persone? Il mio preferito è Nathaniel Hawthorne, che in un saggio allarmista del 1843 metteva in guardia contro l’arrivo di una tecnologia così potente da privare le generazioni future della capacità di conversare in modo maturo. Prevedeva che avrebbero cercato angoli isolati invece di spazi condivisi, che i loro discorsi sarebbero degenerati in aspri dibattiti e che “ogni rapporto umano” sarebbe stato “congelato da un freddo fatale”. Di cosa si preoccupava Hawthorne? Dell’arrivo della stufa di ferro, destinata a sostituire il camino.
Carr e compagnia risponderebbero: è vero, in passato ci si è preoccupati per fenomeni che, a posteriori, sembrano innocui; ma davvero basta questo a tranquillizzarci? Le tecnologie digitali scatenano molta più dipendenza di quelle passate. Si potrebbe perfino interpretare il malcontento di un tempo come la misura di quanto le cose siano peggiorate. Forse avevano ragione quelli che temevano, per esempio, la tv. Se ora sembra inoffensiva, è solo perché i mezzi di comunicazione attuali sono decisamente più dannosi.
Sono passati quindici anni dall’uscita del libro di Carr Internet ci rende stupidi? e oggi abbiamo quello che forse è il più raffinato contributo al dibattito, The Sirens’ call di Chris Hayes, conduttore del canale Msnbc. Hayes riconosce la lunga storia di questi allarmi. Alcuni sembrano ridicoli con il senno di poi, ammette, come quello degli anni cinquanta sui fumetti. Eppure altri sembrano profetici, come i primi avvertimenti sul fumo. “Lo sviluppo globale, onnipresente e cronico dei social network è più simile ai fumetti o alle sigarette?”, chiede Hayes. Bella domanda.
Se prendiamo sul serio gli scettici, quanta parte dell’argomentazione catastrofista resiste? Abbastanza, secondo Hayes, da farci preoccupare sul serio. “Abbiamo un paese pieno di megafoni, un muro schiacciante di suono, le luci abbaglianti di un casinò aperto 24 ore su 24 che ci lampeggiano in faccia, tutto fa parte di un sistema progettato nei minimi dettagli per distogliere la nostra attenzione a scopo di lucro”, scrive. Pensare con lucidità e conversare in modo ragionevole in queste condizioni è “come cercare di meditare in uno strip club”. La sua argomentazione è ragionata, informata e inquietante. Ma è convincente?
Luci sfavillanti
La storia è costellata di lamentele sulla distrazione. Luci sfavillanti e spogliarelli non sono un problema di oggi. Tuttavia, ciò che merita attenzione nei dibattiti passati su questo tema è che erano, in effetti, dibattiti. Non tutti credevano che il cielo stesse crollando, e chi non era d’accordo sollevava domande rilevanti: stiamo dando la nostra attenzione a qualcosa che lo merita? Chi ci guadagna davvero?
Domande simili emersero nel settecento con l’ascesa di una nuova merce dirompente: il romanzo. Se oggi ci si lamenta della nostra incapacità di affrontare romanzi lunghi, un tempo questi libri erano considerati l’equivalente intellettuale del cibo spazzatura. “Catturano l’attenzione così a fondo e offrono un piacere così intenso che la mente, una volta abituata, non può più sopportare la durezza del vero studio”, si lamentava il sacerdote anglicano Vicesimus Knox. Thomas Jefferson, terzo presidente degli Stati Uniti, avvertiva che una volta caduti sotto l’incantesimo dei romanzi, “questa massa di spazzatura”, i lettori avrebbero perso la pazienza per le “letture sane”. Ne sarebbero usciti con una “fantasia gonfia, un giudizio malfermo e un disgusto per tutte le vere occupazioni della vita”.
Gli scrittori popolari avevano un’opinione diversa, come spiega la professoressa d’inglese Natalie M. Phillips nel suo libro Distraction (2016). Si chiedevano se un’attenzione costante e ininterrotta fosse davvero salutare. Forse la mente aveva bisogno di vagare un po’ per svolgere il suo lavoro. The rambler (1750-1752) e The idler (1758-1760), due raccolte di saggi dello scrittore britannico Samuel Johnson, esaltavano proprio questo tipo di erraticità mentale. Johnson passava continuamente da un libro all’altro, senza mai finirli. Quando un amico gli chiese se avesse effettivamente terminato un libro che diceva di aver “sfogliato”, rispose: “No, signore, voi leggete i libri dall’inizio alla fine?”.
Come mascotte della multifocalità, Phillips propone Tristram Shandy, l’eroe di Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo di Laurence Sterne, pubblicato tra il 1759 e il 1767. Il romanzo si apre con il concepimento di Tristram. L’improvvisa interruzione della madre – “Dimmi, caro, non hai dimenticato di caricare l’orologio?”– proprio al culmine dell’atto sessuale del padre lo condanna a una distrazione congenita.
Perfino il suo nome è il risultato di un’attenzione frammentata. Doveva chiamarsi Trismegistus, ma la domestica incaricata di comunicarlo al curato si distrasse, dimenticando tutto tranne la prima sillaba. Tristram racconta questa sfortunata vicenda in un intreccio di digressioni, punteggiate da tratti di frenesia. In nove volumi distratti, non riesce mai a raccontare la sua vita. Eppure, i lettori trovano affascinanti i suoi pensieri sfrenati. Forse li trovavano anche liberatori, suggerisce Phillips, dato che le autorità tradizionali tendevano a esigere un’attenzione granitica. “Cos’è necessario per pregare nel modo corretto?”, chiedeva un catechismo anglicano molto usato. “Una concentrazione assoluta, senza distrazioni”. Nel suo dizionario Samuel Johnson notava che to attend (essere presenti) aveva più significati. Il primo, concentrarsi su qualcosa, era legato al secondo: servire qualcuno, come un domestico. Un recente studio sull’attenzione negli Stati Uniti nell’ottocento, Thoreau’s axe di Caleb Smith, mette bene in evidenza questo punto. Nel corso dei secoli gli intellettuali hanno cercato di contrastare la distrazione, ma gli appelli più insistenti all’attenzione sono stati rivolti a subordinati, studenti e donne. “At-tenti!”, gridano i comandanti militari per far rigare dritto i soldati. Le arti dell’attenzione sono una forma di autodisciplina, ma anche un modo per disciplinare gli altri.
Nell’ottocento alcuni cominciarono a nutrire sospetti verso le forme intense di concentrazione richieste dalla vita industriale. Lo psichiatra Jean-Étienne Dominique Esquirol introdusse una nuova diagnosi, la “monomania”, distribuita con la stessa disinvoltura con cui oggi si parla di Adhd, il disturbo da deficit dell’attenzione. Esquirol la considerava un problema emblematico della modernità. Herman Melville la rese centrale in Moby Dick, dove la fissazione del capitano Achab per una balena bianca lo porta alla rovina. Anche l’ipnosi, una forma estrema di concentrazione, diventò un argomento di dibattito.
Fu Paul Lafargue, genero cubano di Karl Marx, a trasformare quest’ansia per l’attenzione in un manifesto politico. Concentrarsi sul proprio lavoro e reprimere gli istinti naturali, sosteneva Lafargue negli anni ottanta dell’ottocento, non era una virtù. Piuttosto, significava “fare la parte della macchina” per conto degli oppressori. La coscienza rivoluzionaria significava reclamare “il diritto a essere pigri”. Lavoratori di tutto il mondo, rilassatevi.
Un interruttore
Immagino una resistenza lafarguiana, in cui i giovani sono reclutati con copie clandestine di Tristram Shandy. Ma lo leggerebbero? Ai miei studenti universitari assegno circa la metà di quello che mi veniva assegnato vent’anni fa, e molti professori sentono la necessità di fare lo stesso. “Insegno in piccole università di discipline umanistiche da più di quindici anni”, scrive il teologo Adam Kotsko, “e negli ultimi cinque è come se qualcuno avesse premuto un interruttore. Gli studenti si sentono intimiditi se devono leggere più di dieci pagine e, spesso, abbandonano testi di sole venti pagine senza capirli”.
I romanzi erano l’equivalente intellettuale del cibo spazzatura
Qualunque fossero le riflessioni degli scrittori del passato sulle virtù dell’attenzione, i pessimisti sostengono che oggi il problema sia diverso. È come se non fossimo più noi a leggere i libri, ma i libri a leggere noi. TikTok è particolarmente abile in questo: scorri e l’app impara – dal tuo comportamento, e forse anche da altre informazioni raccolte dal tuo telefono – cosa ti terrà incollato. “Mi sveglio nel cuore della notte, con i sudori freddi, pensando: ‘Cosa abbiamo portato nel mondo?’”, ha detto Tony Fadell, uno degli sviluppatori dell’iPhone.
Come punto di riferimento, Hayes cita i dibattiti di due politici statunitensi come Abraham Lincoln e Stephen A. Douglas, a metà dell’ottocento: scambi d’opinione di tre ore su un argomento cruciale, la schiavitù. Hayes si stupisce di quanto fossero complessi e articolati i discorsi, pieni di “parentesi dentro altre parentesi, con idee che sono introdotte al principio, lasciate in sospeso per un po’ e poi riprese più tardi”. Immaginate quanta “resistenza alla distrazione” dovevano avere gli ascoltatori di Lincoln e Douglas.
Ed erano molti. Oggi l’elettorato vorrebbe assistere a qualcosa di simile? Poco probabile, dice Hayes. Le informazioni arrivano in “bocconi sempre più piccoli” e “mantenere la concentrazione è sempre più difficile”. Hayes lo ha visto da vicino. Il suo illuminante racconto dietro le quinte dei telegiornali via cavo descrive come i giornalisti facciano di tutto per trattenere i telespettatori distratti. Grafica sgargiante, voci forti, rapidi cambi di argomento e storie sensazionali: è come agitare delle chiavi per attirare un cane. Più gli spettatori prendono le notizie dalle app, più i produttori televisivi devono scuotere quelle chiavi.
Questa situazione è, in un certo senso, colpa nostra, perché l’intero sistema si basa sulle nostre scelte. Ma queste scelte non sempre sembrano libere. Hayes distingue tra attenzione volontaria e imposta. Alcune cose su cui ci concentriamo le scegliamo; altre, per com’è fatta la nostra psicologia, le troviamo difficili da ignorare. Gli strumenti digitali permettono alle piattaforme online di sfruttare quest’attenzione, rivolgendosi ai nostri impulsi involontari più che ai desideri elevati. Gli algoritmi ci danno ciò che vogliamo, ma non, come diceva il filosofo Harry Frankfurt, “ciò che vorremmo volere”.
L’opposto di Kanye West
Otteniamo quello che vogliamo, non quello che vorremmo volere: potrebbe essere lo slogan dei nostri tempi. Hayes osserva che non sono solo le aziende a puntare sui nostri istinti più bassi. Dato che anche gli utenti dei social network ricevono reazioni immediate, imparano cosa attira gli sguardi. Anni fa Donald Trump, Elon Musk e Kanye West non avevano praticamente niente in comune. Ora la loro ricerca di visibilità li ha trasformati in versioni della stessa persona: il troll dell’attenzione. E, anche se vorremmo, non riusciamo a distogliere lo sguardo.
Il doloroso paradosso è che il cambiamento climatico, la cosa su cui dovremmo davvero concentrarci, “sfugge alle nostre facoltà di attenzione”, scrive Hayes. “È sempre stato un problema”, ha detto lo scrittore e attivista Bill McKibben, “che la cosa più pericolosa sul pianeta sia invisibile, inodore, insapore e non faccia niente a te direttamente”. Il riscaldamento globale è l’opposto di Kanye West: vorremmo farci attenzione, ma non ci riusciamo.
Il problema, sostiene Hayes, è il “capitalismo dell’attenzione”, che ha lo stesso effetto disumanizzante sulla psiche dei consumatori di quello che il capitalismo industriale ha sui corpi dei lavoratori. I capitalisti dell’attenzione non ottengono la nostra attenzione con contenuti coinvolgenti, ma la strappano ripetutamente con trucchi da slot machine. Ci trattano come occhi invece che come individui, “sfondando le nostre menti” e lasciandoci tremanti. “Il dominio sulle nostre menti è stato scalfito”, scrive Hayes. “La portata della trasformazione che stiamo vivendo è molto più vasta e intima di quanto anche i critici più allarmati abbiano capito”.
Ciò che è scomodo in questo dibattito è che, anche se parliamo liberamente di “tempi di attenzione”, questi non sono qualcosa che gli psicologi riescono a misurare, indipendentemente dal contesto, nel tempo. E gli studi sugli effetti che l’uso degli smartphone ha sulle capacità cognitive sono stati contraddittori e inconcludenti. Le diagnosi di Adhd sono in aumento: ma succede perché il disturbo è in aumento o solo la diagnosi? La produttività del lavoro negli Stati Uniti e la percentuale di popolazione con almeno quattro anni di università sono aumentate nell’era di internet.
L’apparente declino della lettura non è così netto. Le vendite di libri stampati sono stabili, e le vendite di audiolibri sono in aumento. Il National center for education statistics ha registrato un calo nelle capacità di lettura dei bambini statunitensi, ma sembra essere legato in gran parte alla pandemia, e i punteggi sono ancora uguali o superiori rispetto a quando il centro ha cominciato le misurazioni, nel 1971. Se le letture assegnate nelle migliori università sono meno gravose, potrebbe essere perché gli studenti di oggi sono più impegnati, non meno capaci (e quanti leggevano davvero tutto il materiale negli “anni d’oro”?). Che dire dell’insistenza di Carr nel 2010, secondo cui un borsista di Oxford che non leggeva libri preannunciava un futuro post-alfabetizzato? “Certo che leggo libri!”, aveva protestato lo studente con un altro autore. Oggi ha un dottorato di ricerca a Oxford e ha scritto due libri.
Dopo decenni di internet, il panorama dei mezzi di comunicazione non si è ancora dissolto in una poltiglia di video di tre secondi su orgasmi, gattini e incidenti sui tappeti elastici, intervallati da pubblicità per scommesse sportive.
Come osserva il giurista Tim Wu in The attention merchants, la strada verso la distrazione non è a senso unico. Certo, le aziende si appropriano della nostra attenzione con i trucchi più scintillanti a disposizione, ma le persone si abituano e imparano a ignorarli. Oppure se ne allontanano, e questo potrebbe spiegare perché la meditazione, l’osservazione degli uccelli e i dischi in vinile vanno di moda.
Le stesse aziende tecnologiche, infatti, corteggiano gli utenti promettendo meno distrazioni, non solo eliminando le seccature quotidiane – pagare le bollette, organizzare i viaggi – ma anche proteggendoli dall’assalto online. La pubblicità solo di testo di Google e i filtri di posta hanno offerto sollievo dallo spam e dai pop-up degli albori di internet. La Apple è diventata una delle aziende più grandi al mondo vendendo semplicità. Inoltre, la distrazione è relativa: essere distratti da una cosa significa concentrarsi su un’altra. E qualsiasi teoria sulla crescente distrazione deve confrontarsi con un fatto innegabile: molte persone passano ore a fissare intensamente i loro schermi. Cos’è il doomscrolling (lo scorrere ossessivamente notizie apocalittiche), se non una lettura febbrile? Se le persone non riescono a concentrarsi in alcuni campi, è chiaro che ci stanno riuscendo in altri.
Per esempio il cinema, che sta attraversando una fase barocca. The brutalist, uno dei vincitori dei Golden globe del 2024, dura più di tre ore e mezza. La durata media dei dieci film più visti è aumentata di almeno venti minuti tra il 1993 e il 2023. Il ricorso di Hollywood ai sequel e alla proprietà intellettuale riciclata – siamo a un passo da un crossover in cui Thor combatte con la Sirenetta – può aver fatto male al cinema. Ha però reso i film più complessi, ricchi di retroscena e fanservice, elementi per accontentare il pubblico più appassionato.
La Apple è diventata una delle aziende più grandi del mondo vendendo semplicità
Lo stesso vale per le fiction. Una volta era un intrattenimento per chi non prestava troppa attenzione, con trame semplici, battute grossolane e interruzioni pubblicitarie. Ma tutto è cambiato con il cavo, i dvd e le serie in streaming (la prima grande serie in streaming, House of cards di Netflix, è uscita nel 2013). Quando gli sceneggiatori hanno smesso di preoccuparsi che il pubblico perdesse il filo, le serie hanno cominciato a somigliare a film infiniti. Gli spettatori hanno risposto guardando episodi a ripetizione, assorbendo ore di contenuti in quello che Vince Gilligan, creatore di Breaking bad, ha chiamato “una gigantesca inalazione”.
Anche i videogiochi sono diventati implacabilmente lunghi. Anni fa, sul New York Times, Alex Ross definiva L’anello del Nibelungo di Richard Wagner – un ciclo di quattro opere che dura quindici ore – “probabilmente l’opera d’arte più ambiziosa mai tentata, senza rivali futuri”.
Nel 2023 i Larian Studios hanno conquistato i premi dell’industria dei videogiochi con Baldur’s gate 3, un’opera decisamente wagneriana con divinità rivali, anelli magici, spade incantate e draghi. Ci hanno lavorato duecentoquarantotto attori e circa quattrocento sviluppatori. Giocarci senza fretta, seguendo le sue regole complesse, può richiedere settantacinque ore, cioè cinque cicli dell’Anello del Nibelungo (e più del doppio se sei un maniaco della completezza). Eppure ha venduto quindici milioni di copie.
Anche TikTok, considerato da molti una rovina per l’attenzione, merita una riflessione. Hayes, che lavora in tv, tratta TikTok come un semplice schermo, una tv fatta su misura grazie a un algoritmo. Ma TikTok è partecipativo: più della metà degli utenti adulti negli Stati Uniti ha postato almeno un video. La sua forza non sta nei contenuti raffinati, ma nell’entusiasmo amatoriale, che si manifesta in tendenze con infinite variazioni. Per partecipare, i tiktoker trascorrono ore a preparare coreografie elaborate, cambi di costume, trucchi, doppiaggi, scherzi e illusioni fotografiche.
Cosa sta succedendo? Il teorico dei mezzi di comunicazione Neil Verma, nel suo Narrative podcasting in an age of obsession, descrive l’era di TikTok come pervasa dalla “cultura dell’ossessione”. I mezzi di comunicazione online, ampliando la gamma degli interessi possibili, hanno dato vita a uno stile intellettuale spudoratamente nerd. Verma fa l’esempio del podcast di successo Serial, in cui nella prima stagione, nel 2014, la narratrice analizza per ore i dettagli di un caso di omicidio di quindici anni prima.
Per Hayes il problema delle app è che operano senza il nostro consenso
Civiltà antiche
Ma le immersioni profonde in argomenti di nicchia sono diventate la norma. Il popolare autore di podcast Joe Rogan realizza interviste fiume, anche di più di quattro ore, su civiltà antiche, cosmologia e arti marziali miste. Un video di quattro ore della youtuber Jenny Nicholson sui difetti di progettazione di un hotel di Disney World ormai chiuso, ha undici milioni di visualizzazioni (tutte meritate: è fantastico). Lo stesso Hayes ammette di passare ore “totalmente rapito” a guardare vecchi tappeti che vengono lavati. Stiamo ignorando importanti questioni politiche, mentre fissiamo i tappeti?
Hayes insiste sui dibattiti tra Lincoln e Douglas, ma i due parlavano senza microfono a folle rumorose di migliaia di persone, quindi è improbabile che il pubblico seguisse ogni parola (a quegli eventi c’era anche alcol in abbondanza). Inoltre è difficile idealizzare la serietà morale di un dibattito sulla schiavitù, tenuto poco prima della guerra civile, in cui nessuna delle due parti proponeva l’abolizione. Se la storia del totalitarismo ci insegna qualcosa, è che i discorsi interminabili non sempre sono il segno di buona salute politica.
Comunque, la verbosità politica, misurata in base ai discorsi dei presidenti statunitensi sullo stato dell’Unione, è aumentata nel ventunesimo secolo. Donald Trump una volta ha parlato al Cpac, il raduno conservatore statunitense, per più di due ore. Si sa che le sue digressioni richiedono una profonda conoscenza della dottrina di destra per essere compresi. “Parlo di nove cose diverse, e alla fine tutto torna perfettamente”, si è vantato Trump. Il linguista John McWhorter ha detto, sul suo stile contorto, che “devi quasi decifrarlo come se fosse un passo del Talmud”. Accusiamo internet di polarizzare la politica e distruggere la capacità di concentrazione, ma queste tendenze in realtà vanno in direzioni opposte.
Ciò che è vero nella cultura vale anche per la politica: man mano che le persone si allontanano dalla cultura di massa, diventano ossessive e tendono a infilarsi in labirinti di informazioni. Seguire QAnon richiede un fervore religioso simile a quello di un fan del k-pop. I socialisti democratici, i no-vax, gli antisionisti, i maschi alfa della manosfera: non sono certo persone che si interessano alla politica per hobby. Alcuni possono essere male informati, ma non si considerano disinformati: “Fai le tue ricerche” è il mantra della periferia politica. La frammentazione, in fondo, genera profondità subculturali. Un pozzo non è una pozzanghera.
Hayes teme che gli entusiasmi politici di internet distolgano l’attenzione dal riscaldamento globale. Eppure, sono proprio i giovani, i più online di tutti, a guidare la lotta contro la crisi climatica. L’attivista Greta Thunberg, icona della generazione Z, è così brava a sensibilizzare sul tema che gli studiosi dei mezzi di comunicazione parlano di un “effetto Greta”. Fa parlare di sé online da quando ha quindici anni. Se le persone non stanno perdendo la concentrazione e non diventano compiacenti, da cosa nasce allora il panico?
Le lamentele sulla distrazione vengono soprattutto dalla classe intellettuale: giornalisti, artisti, romanzieri, professori. Sono persone che devono gestire la creatività per lunghi periodi senza supervisori, e per questo sono particolarmente vulnerabili alle interruzioni online. Instagram li tormenta in un modo che forse non turba badanti, commessi o dipendenti dei fast food, cioè le tre occupazioni più comuni negli Stati Uniti.
Un problema più grande per l’industria della conoscenza è che i creativi, in particolare quelli legati ai mezzi di comunicazione tradizionali, temono che gli smartphone gli stiano sottraendo pubblico. In questo, non sembrano così diversi dai preti del settecento che condannavano i romanzi perché allontanavano le donne dalla preghiera e dall’obbedienza. La presunta crisi dell’attenzione è, in fondo, una crisi di autorità? “La gente non presta attenzione” è solo una versione più elegante di “la gente non presta attenzione a me”?
Il sospetto che tutto questo sia in realtà ansia d’élite di fronte a un paesaggio mediatico sempre più democratico aumenta quando si considera su cosa gli “attenzionisti” vorrebbero che il pubblico si concentrasse. In genere si tratta di arte raffinata, vecchi libri o natura incontaminata, come se stessero dirigendo un college del Connecticut. Soprattutto esigono pazienza, l’inclinazione a restare su cose che non sono immediatamente avvincenti o comprensibili. La pazienza è sicuramente una virtù, ma sorge un sospetto di narcisismo quando i commentatori la esaltano negli altri, come un marito che elogia una moglie adorante. Così si trasferisce la responsabilità della comunicazione sugli ascoltatori, dando licenza ai relatori di essere prolissi, oscuri o autoreferenziali. Quando qualcuno chiede al pubblico di essere più paziente, il mio primo pensiero è: “O magari, potresti essere meno noioso”.
Risultati eccellenti
In un certo senso, quello che gli allarmisti dell’attenzione cercano è un riparo da una gara che stanno perdendo. Certo, il mercato non produce sempre risultati eccellenti, e Hayes ha ragione a criticare la mercificazione della vita intellettuale. Ma ci si può chiedere se le idee postate online su una piattaforma gratuita sono state più distorte dal mercato di quelle impacchettate nei libri, con codici a barre e vendute nei negozi. Vale la pena ricordare che i lunghi romanzi dell’ottocento che oggi non abbiamo più la pazienza di leggere erano lunghi per una ragione: gli editori, per aumentare i profitti, costringevano gli autori ad allungare le storie su più volumi. Le forze di mercato hanno plasmato, diffuso, compresso e censurato le idee per secoli. Realisticamente la scelta non è tra mercificato e gratuito, ma su quale forma di merce sia più adatta. Per Hayes il problema delle app è che operano senza il nostro consenso. Catturano l’attenzione usando trucchi, lasciandoci inermi e storditi. Eppure anche questo suo argomento, forse il più solido, esige cautela.
I mezzi di comunicazione hanno sempre fatto una danza bizzarra con i nostri desideri. Anche se Hayes sostiene l’assoluta novità della nostra condizione, il titolo del suo libro, The sirens’ call, fa riferimento a un racconto omerico dell’antichità, di canti troppo ipnotici per potervi resistere. Questo non è sempre un male. Pensate alle parole che usiamo per osannare un libro: affascinante, trascinante, magnetico, ipnotico. È la nostra fantasia di perdere il controllo. Stranamente, ciò che critichiamo negli altri, la sottomissione, è proprio ciò che desideriamo per noi stessi.
L’incubo evocato dagli allarmisti è quello dell’adolescente inebetito da TikTok. Ma questa non è un’immagine completa del presente, e forse non dice molto neanche del futuro. Viviamo in un’epoca di ossessione e distrazione, di formati lunghi e brevi, di zelo e indifferenza. Attribuire i nostri problemi a un disturbo sociale dell’attenzione è fare la diagnosi sbagliata. Ed è un peccato, perché il nostro rapporto con gli smartphone è tutt’altro che sano.
Il panorama dei mezzi di comunicazione sta diventando un mare in tempesta di ansia, invidia, illusione e rabbia. La nostra attenzione è risucchiata in modi sorprendenti e spesso inquietanti. Il clima infuocato del dibattito pubblico, la diffusione del complottismo, l’erosione delle verità condivise: sono tutte tendenze reali e degne di riflessione. Il panico per la perdita dell’attenzione, invece, è solo un’assurda distrazione. ◆ svb
Daniel Immerwahr è uno storico e scrittore statunitense. È professore associato di studi umanistici alla Northwestern university. Ha scritto L’impero nascosto. Breve storia dei Grandi Stati Uniti d’America (Einaudi 2020)
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1612 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati