E un venerdì pomeriggio e nella sede del Racing club de Avellaneda, una squadra della primera división, il massimo livello del campionato di calcio argentino, l’emozione è incontenibile. Abbracci, perfino qualche lacrima. Eppure nessuno ha vinto niente. È solo l’ora in cui i genitori vanno a prendere i figli al Jardin, l’asilo del club. Un paio di bambini corrono fuori, due bambine continuano ad andare sull’altalena, uno è caduto e un’altra all’entrata viene abbracciata dalla madre. Dal lunedì al venerdì il Jardin Racing ospita bambini di tre, quattro e cinque anni, affidati alle cure di educatrici qualificate. Un asilo come tutti gli altri, solo che le stanze sono dipinte con i colori della squadra, bianco e celeste. Anche il luogo in cui si trova è particolare: sotto la curva est dell’Estadio presidente Perón, lo stadio del Racing. Il club è uno dei più antichi e più grandi d’Argentina, un paese dove il calcio è così sacro che alcuni giocatori sono venerati come santi.

C’è anche un’altra particolarità. Mentre in tutto il mondo gli investitori entrano a gamba tesa in questo sport, con i fondi che comprano squadre e le aziende che ormai sono parte integrante del gioco, in Argentina il calcio resta ancora saldamente nelle mani dei tifosi: per legge i club sono asociaciones civiles, associazioni senza scopo di lucro in cui gli iscritti, non i dirigenti, hanno l’ultima parola. Questo sistema, dicono i suoi sostenitori, non solo rafforza il legame tra le squadre e i tifosi, ma anche la società nel suo complesso. Altrove i club pensano solo a fare profitti, invece in Argentina si prendono cura dei pensionati. Oltre agli impianti sportivi, molti gestiscono centri anziani e mense per i poveri. Altri hanno biblioteche o asili, come nel caso del Racing, che ha anche una scuola elementare e media. Non ci guadagna anche il calcio? L’Argentina ha vinto sia l’ultima Copa América sia l’ultima coppa del mondo.

Eppure a qualcuno il sistema non piace. Pensa che questa gestione sia un freno. I calciatori argentini hanno talento, ma le squadre non hanno i soldi per trattenerli. Basta guardare la nazionale: i suoi calciatori più forti giocano tutti all’estero, in squadre che da tempo si sono aperte alla finanza. I tempi sono maturi perché succeda anche in Argentina.

Convivenza impossibile

Uno dei più convinti sostenitori di questa tesi è Javier Milei. Da ragazzo, il presidente ultraliberista dell’Argentina è stato un portiere. Oggi, almeno in politica, è all’attacco e guida l’avanzata del libero mercato. Appena entrato in carica, ha emanato una serie di leggi e decreti per aprire l’economia agli investitori, compreso lo sport. “Basta con il socialismo nel calcio”, ha detto.

I suoi sostenitori applaudono, ma nelle società sportive molti temono la svendita dei club. E il paese si divide su chi potrà guidare meglio il calcio argentino verso il futuro: i fondi o i tifosi?

Per Federico Cogo la risposta è semplice: “Gli investitori non sono la soluzione, sono il problema”, dice. Ha 36 anni, la barba già grigia e un po’ di pancia, indossa una felpa con il logo dell’FC St. Pauli, regalo di un amico. Ma il cuore batte per il Racing: “Suona melenso, ma è così”.

È tardo pomeriggio, Cogo è nella sala d’onore J.J. Pizzuti, poco più di un pianerottolo spazioso nello stadio del Racing. C’è una statua del leggendario allenatore Reinaldo “Mostaza” Merlo, poi una specie di altare con le riproduzioni delle coppe del campionato argentino vinte dal club tra il 1913 e il 1919. Sette di seguito. “Ci è riuscito solo il Racing”, dice Cogo.

Ci fa strada lungo un corridoio, saliamo qualche gradino, poi scendiamo fino ad arrivare a una porta sbarrata. Torniamo indietro, giriamo l’angolo e arriviamo nell’area vip. Da qui si vedono bene il prato verde brillante e le tribune bianco-celesti. Sullo sfondo i tetti di Avellaneda, un quartiere periferico di Buenos Aires, con le ciminiere, le buche, il filo spinato. Cogo è cresciuto a un paio di isolati dallo stadio. Fu il padre a portarlo a vedere la prima partita quando era ancora neonato. La sua vita ha sempre ruotato intorno al Racing. La casa, per esempio, da cui vede lo stadio. E quando non vende giornali nella piccola edicola di quartiere, è sempre qui. Per incitare la squadra, per fare sport (calcio o pallacanestro) o come volontario per la commissione cultura e storia del club.

Oggi un autore presenterà un libro sul Racing e su un suo giocatore e poi allenatore famoso della squadra, Gustavo Costas. Stanno già preparando altoparlanti e microfono. Cogo prende una sedia di plastica e si siede davanti all’angolo bar. C’è odore di popcorn e di Coca-Cola.

Nella sede del Racing si organizzano anche serate di cinema, laboratori di scrittura e corsi di storia. Insomma, non ci si occupa unicamente di calcio. È così perché lo vogliono gli iscritti e forse perché non ci sono investitori che possono impedirlo. Ma l’impegno civico e il successo economico possono convivere? “Impossibile”, afferma Cogo.

Come tifoso del Racing parla per esperienza vissuta, dato che il club è tra i pochi in Argentina a essere stati in mano a privati. Era la fine degli anni novanta e il Racing era in bancarotta. Ci furono manifestazioni di tifosi arrabbiati e arrivò la proposta di un imprenditore: per dieci anni avrebbe rilevato la società, debiti compresi, grazie a un cavillo giuridico. Lui e la sua azienda sarebbero figurati solo come fiduciari e non come proprietari. “Ma di fatto era la stessa cosa”, spiega Cogo.

All’epoca lui era un bambino, ma si ricorda che all’inizio suo padre e la maggior parte dei tifosi erano soddisfatti dell’accordo. “Volevano che il Racing fosse salvo”, racconta. L’anno dopo la squadra vinse il campionato. Poi la situazione precipitò: la nuova dirigenza vendette i giocatori più forti e il club scese in classifica, rischiando di retrocedere.

Nel frattempo la proprietà aveva tagliato i fondi destinati alle strutture sociali, racconta Cogo, e agli altri sport. L’asilo ancora non esisteva mentre il bar dove i soci potevano incontrarsi era stato chiuso. Come se non bastasse, lo stadio era stato affittato all’Independiente, l’eterno rivale.

Ci furono nuove manifestazioni e questa volta partecipò anche Cogo. Erano tutti fuori di sé, dice. Quando cominciarono a circolare notizie di conti non pagati, debiti e assegni scoperti, la pressione diventò così forte che nel luglio 2008, dopo otto anni invece dei dieci previsti, l’accordo con i fiduciari fu interrotto. Il Racing tornò a essere una società sportiva con un presidente scelto dagli iscritti.

Cogo parla di “ritorno alla democrazia”, come se gli anni precedenti fossero stati una dittatura. Lui e un altro paio di persone della commissione cultura hanno realizzato un documentario sull’epoca dei fiduciari: GerenciaMiento, un gioco di parole tra amministrazione e truffa. Per Cogo il club deve raccontare la sua storia, soprattutto ora che il dibattito sul coinvolgimento degli investitori nel calcio si è riacceso. “Non funziona”, dice, e il Racing ne è la prova.

Questione di tempo

Guillermo Tofoni minimizza. Il Racing? “Un triste caso isolato”. Ci accoglie a Puerto Madero, un quartiere elegante di Buenos Aires. Hotel a cinque stelle, ristoranti raffinati e grattacieli. Il più alto è la torre Alvear, 175 appartamenti di lusso distribuiti su 54 piani e un bar in cima solo per i residenti. Una cameriera in livrea chiede se vogliamo qualcosa da bere.

Tofoni ha 58 anni, porta un abito scuro, camicia e scarpe da ginnastica. “Bella vista, no?”, dice indicando la città. Si vedono la Casa rosada, sede del governo; il teatro Colón, dove va in scena l’opera; e la Bombonera, lo stadio del Boca Juniors, con 50mila posti. “Pochi”, sottolinea.

Nello stadio Pedro Bidegain. Buenos Aires, 2 febbraio 2025 (Sebastián Hipperdinger)

Da tempo si parla di costruire un nuovo stadio, più grande e più confortevole. Ma servono soldi. “Questo ci riporta al solito tema”. Da più di trent’anni Tofoni è un dirigente calcistico. Ha organizzato partite per la nazionale, per squadre argentine e straniere. In totale più di trecento incontri tra Sudamerica, Asia, Stati Uniti ed Europa. Ha girato il mondo e si è arricchito, ma ora ha un nuovo obiettivo: privatizzare il calcio argentino. “Per il bene di tutti”, dice.

Ma le cose non vanno già bene? I calciatori argentini sono richiesti, le squadre vanno bene anche fuori dal paese, la nazionale è campione del mondo. “Solo fortuna”, sostiene Tofoni, che fa un paragone: i calciatori in Argentina sono come il petrolio in Venezuela, ovunque. Nel paese la passione dei bambini per il calcio è immensa, ma le condizioni per i giovani giocatori sono catastrofiche: campi scadenti, allenamenti pessimi e nessuna dieta specifica. “Spesso non c’è nemmeno l’acqua calda nelle docce”, dice Tofoni.

Per questo molti ragazzi promettenti decidono di trasferirsi all’estero troppo presto. Basta guardare Lionel Messi, afferma Tofoni. Da giovane non aveva solo un talento eccezionale, ma anche un disturbo della crescita. Le sue cure costavano 800 euro al mese, una cifra che all’epoca nessun club argentino poteva o voleva sostenere. Così Messi a tredici anni andò a Barcellona. “Il miglior calciatore del mondo”, grida Tofoni alzando le braccia al cielo.

Se le condizioni fossero migliori, dice, si potrebbe lavorare per promuovere i giocatori in modo più mirato, trattenerli più a lungo e poi venderli a prezzi più alti. “Il potenziale è enorme”, afferma. Ma per realizzarlo servono capitali, e da dove potrebbero arrivare se non dagli investitori?

È una cosa che ripete da tempo. E oggi ha anche un alleato importante: il presidente Javier Milei. Lo ha contattato durante la campagna elettorale. Hanno parlato, scambiato opinioni e individuato punti in comune. E poi, prima di un dibattito, Tofoni gli ha preparato alcune argomentazioni da tirare fuori se si fosse parlato di privatizzazioni nel calcio.

Lui e il presidente la pensano allo stesso modo: più mercato, più investimenti e più guadagni. “Più è meglio”, afferma. Davanti alla finestra passa una cicogna. Si vede da vicino, talmente siamo in alto.

L’Argentina è una terra dalle possibilità infinite, continua Tofoni, e la commercializzazione del calcio non sarebbe positiva solo per i giocatori, ma anche per gli allenatori, i tifosi e gli iscritti alle società sportive. “Ci sarebbero vantaggi per tutti”.

L’Afa, la federazione argentina di calcio, si oppone con determinazione alla privatizzazione e ha ottenuto che un giudice bloccasse la bozza di legge di Milei. “Hanno paura di perdere il loro potere”, dice Tofoni.

Nel paese le condizioni per i giovani giocatori sono catastrofiche

Le squadre con più fondi sarebbero più autonome e più difficili da controllare: “Per questo l’Afa vuole tenerle artificiosamente piccole”.

E i tifosi? Perché raccolgono firme contro l’apertura del calcio agli investitori, perché negli stadi cantano “giù le mani dai club”? Semplice, risponde Tofoni: “Hanno paura del cambiamento”. Andrebbero rassicurati che i nuovi proprietari non possono cambiare gli stemmi, i colori o i nomi delle squadre.

Ovviamente anche lui deve ammettere che in passato qualcosa è andato storto, come nel caso del Racing. Gli investitori dovrebbero essere obbligati a rendere pubblici i loro finanziamenti. E dovrebbero garantire che tutte le attività dei club continuerebbero. “Questa volta sarà diverso”, dice accompagnandoci verso l’ascensore.

Cinquantaquattro piani più in basso e a un paio di chilometri di distanza, Federico Cogo è scettico. Conosce Tofoni, così come gli altri che stanno facendo campagna per la privatizzazione. “Ci avevano provato venti o trent’anni fa”, dice. A volte Cogo si sente quasi come nel film Ricomincio da capo, in cui il protagonista rivive sempre lo stesso giorno. Solo che nel suo caso non è sicuro del lieto fine.

Perché su una cosa è d’accordo con Tofoni: forse è solo questione di tempo, ma la privatizzazione a un certo punto ci sarà. Anche se la bozza di legge del governo al momento è congelata e la federazione argentina è sul piede di guerra, gli investitori cercano il modo di aggirare gli ostacoli e mettere le mani sulle squadre.

Si potrebbe scorporare la parte relativa al calcio o suddividere le quote in modo che il 51 per cento rimanga alle attuali società. Dovrebbero essere i tifosi a decidere: chi meglio di loro può sapere cosa è giusto? Ma per il Racing, dice Cogo, queste opzioni sono fuori discussione. I vecchi traumi della gestione fiduciaria sono ancora vivi.

E per gli altri club? “Nel loro caso sono meno ottimista”, ammette.

Caduta repentina

La privatizzazione ha molti sostenitori, dai presidenti di club come Juan Sebastián Verón, dell’Estudiantes de la Plata, fino a calciatori come Sergio “Kun” Agüero. A loro si aggiungono le pressioni dall’estero. In Brasile, per esempio, la situazione è stata a lungo simile a quella argentina. Ma nel 2021 il presidente di estrema destra Jair Bolsonaro ha permesso agli investitori di entrare nel settore del calcio. Da allora nel paese sono arrivati milioni e le società sportive hanno organizzato vere e proprie trasferte di mercato per ingaggiare i talenti più promettenti.

Negli ultimi anni la Copa libertadores, l’equivalente della Champions league in Europa, è stata vinta sempre da una squadra brasiliana. L’anno scorso la finale è stata tutta brasiliana e giocata proprio in Argentina. È possibile che prima o poi questo possa far cambiare il clima anche in Argentina. E se un club privato dovesse avere successo, lo seguirebbero anche gli altri. “Alla fine quello che conta per i tifosi sono le vittorie e i titoli”, dice Cogo.

Ma chi l’ha detto che questi risultati non possono arrivare anche se le squadre rimangono nelle mani degli iscritti? “Guarda il Racing”, afferma Cogo. Nel 2024 la squadra ha vinto la Copa sudamericana, motivo per cui a febbraio ha partecipato alla Recopa sudamericana per sfidare il vincitore della Libertadores: il Botafogo di Rio de Janeiro (come volevasi dimostrare).

A lungo si è guardato al Botafogo come un esempio perfetto dei vantaggi della privatizzazione: rimasta sempre nelle retrovie delle classifiche, nel 2022 la squadra è stata comprata da un’azienda statunitense che ha iniettato milioni nel suo bilancio. Da quel momento ha ottenuto un titolo dopo l’altro.

Ma se l’ascesa è stata rapida, altrettanto repentina è stata la caduta. Nell’impero calcistico dei nuovi proprietari c’è anche l’Olympique Lyon, un club pesantemente indebitato. Per salvare la squadra francese, quella brasiliana è stata sacrificata: i fondi sono stati tagliati e i giocatori più forti sono stati prestati gratuitamente all’Olympique. Da allora il Botafogo perde anche con le squadre di terza divisione. E nella Recopa ha vinto il Racing. Indipendentemente dalle loro promesse, alla fine agli investitori non interessano davvero il calcio, le società e i tifosi.

“L’unica cosa a cui tengono sono i guadagni”, dice Cogo. Poi guarda fuori, ha cominciato a piovere. Pesanti gocce picchiettano sul tetto dello stadio del Racing.

Gli organizzatori si radunano rapidamente per discutere, poi decidono di annullare l’evento. Chi verrebbe alla presentazione di un libro quando piove a dirotto? Impilano di nuovo le sedie, smontano gli altoparlanti e arrotolano il cavo del microfono. Tanta fatica per niente? Cogo alza le spalle: “Lo faccio volentieri”, spiega.

È sempre impegnato in qualcosa. A maggio è cominciato un nuovo programma di corsi, con gruppi di scacchi, lezioni di acrobatica per bambini e laboratori di tango. La presentazione del libro sarà semplicemente spostata a un’altra data, a condizione che i soci del Racing siano d’accordo, ovviamente. ◆nv

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Questo articolo è uscito sul numero 1619 di Internazionale, a pagina 68. Compra questo numero | Abbonati