Dopo mesi d’isolamento sociale, compleanni festeggiati su
Zoom e parenti contagiati dal covid-19, molti statunitensi sono preoccupati per il presente e il futuro. Lo sono soprattutto gli afroamericani come me, non solo perché hanno avuto un numero sproporzionato di morti per il coronavirus, ma anche per i frequenti abusi che subiscono dalle forze di polizia.
In questo periodo difficile, mi sono sorpresa a chiedermi se un tunnel spaziotemporale potesse aiutarci a sfuggire al disastro. Nell’immaginario collettivo un tunnel spaziotemporale è un passaggio nello spaziotempo che collega due punti lontani dell’universo. Il concetto si è affermato nel periodo in cui le autostrade diventavano un elemento vitale del tessuto sociale degli Stati Uniti. Per noi i tunnel sono sempre stati delle specie di “autostrade cosmiche”. Ovviamente, ora sappiamo che le autostrade danneggiano l’ambiente e, personalmente, non ne posso più di rimanerci bloccata a causa del traffico.
Un buco nero è per sempre
Eppure è bello immaginare collegamenti che, almeno in teoria, permettono di viaggiare tra zone distanti dello spaziotempo, offrendo un mezzo di evasione che non rispetta il limite di velocità universale, la velocità della luce. Sempre in teoria, i tunnel sono meglio dei buchi neri perché hanno anche l’uscita. Un buco nero, infatti, è per sempre: una volta dentro non si esce più perché c’è un punto di non ritorno, il cosiddetto orizzonte degli eventi.
Gli scienziati sono abbastanza sicuri che i buchi neri esistano: disponiamo di molti indizi basati sul moto delle particelle intorno ai nuclei galattici, che presuppone la presenza di un buco nero al centro. E l’anno scorso l’Event horizon telescope ha acquisito un’immagine che probabilmente raffigura il confine di un buco nero. Ma se l’esistenza dei buchi neri è quasi certa, non si può dire lo stesso dei tunnel spaziotemporali.
I primi tunnel, detti anche ponti di Einstein-Rosen, furono concepiti come soluzione matematica a una delle equazioni di Albert Einstein, che collegava i buchi neri a un’ipotetica versione speculare, cioè i buchi bianchi. Mentre i buchi neri hanno l’entrata ma non l’uscita, i buchi bianchi hanno l’uscita ma non l’entrata. Ma per quanto affascinante, l’idea che i tunnel spaziotemporali siano un collegamento tra buchi neri e bianchi presenta il problema dell’instabilità. Ammesso che esistano, i tunnel sarebbero distrutti da qualunque cosa li attraversi a una velocità inferiore a quella della luce, cioè da qualunque oggetto con una massa.
Eppure c’è ancora speranza. Le prime ricerche si basavano su modelli che prevedevano la gravità in uno spaziotempo vuoto. Alcuni scienziati, tra cui Stephen Hawking, hanno ipotizzato che aggiungendo all’equazione la meccanica quantistica i tunnel spaziotemporali possano vivere più a lungo. Una soluzione alternativa consisterebbe nell’introdurre una forma di materia esotica che esista ovunque, che non sia materia oscura o energia oscura. Ma non abbiamo prove che ci sia.
Insomma, anche se le ricerche proseguono, non mi aspetto di poter usare in tempi brevi un tunnel spaziotemporale, o anche solo di vedere prove empiriche della sua esistenza. Detto questo, i tunnel spaziotemporali possono essere un’ottima via di fuga. I miei lettori sanno che sono una grande appassionata di Star trek, e in particolare della serie Deep space nine, in cui la Federazione gestisce un tunnel spaziotemporale. All’inizio della serie si viene a sapere che il comandante Benjamin Sisko, primo protagonista nero di Star trek, è importante per i “profeti”, le entità spaziotemporali che vivono nel tunnel. Nelle sette stagioni della serie emerge un messaggio forte: a salvare il quadrante alfa dalla distruzione è un afroamericano, anche grazie al suo rapporto con i profeti.
Quando la situazione del nostro pianeta mi fa stare male, mi rifugio nel tunnel spaziotemporale di Star trek e ritrovo qualche speranza per il futuro. ◆ sdf
Chanda Prescod-Weinstein è docente di fisica e astronomia all’università del New Hampshire. Fa anche parte del dipartimento di Women’s studies.
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Questo articolo è uscito sul numero 1376 di Internazionale, a pagina 95. Compra questo numero | Abbonati