Al centro d’accoglienza Vilna, nel cuore di Kiev, una quindicina di donne è riunita intorno a Olga per un corso di introduzione alla scrittura dei cosacchi, i guerrieri che in Ucraina sono venerati come eroi nazionali. “Secondo voi quanto pesava l’arma di un cosacco?”, chiede Olga. “Due chili”, “Un chilo”, azzardano le partecipanti.
“Non siete lontane dalla risposta corretta; pesava tra i 600 e gli 800 grammi”, precisa la professoressa di calligrafia, una delle tante attività proposte da questo centro di aiuto per le donne che subiscono violenze coniugali. La struttura ha aperto nella primavera del 2023 con il sostegno del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Unfpa) per far fronte al forte aumento dei casi di abusi domestici in seguito all’invasione russa del paese il 24 febbraio 2022.
È venerdì pomeriggio e le donne, di età compresa tra i 30 e i 65 anni, hanno il volto tirato per la mancanza di sonno. La notte scorsa la capitale ucraina ha subìto l’ennesimo attacco di droni russi. Ma nessuna di loro si lamenta e nessuna parla delle ragioni che l’hanno portata qui. Lo scopo del centro Vilna è offrire uno spazio sicuro senza chiedere motivi o giustificazioni. Le iscrizioni alle attività – yoga, meditazione, arteterapia – si fanno in modo anonimo.
In Ucraina l’argomento delle violenze coniugali è tabù. Anche se nel 2023 il ministero dell’interno ha registrato 291mila casi di violenza domestica (oggi nei territori controllati dal governo di Kiev vivono 29 milioni di persone), con un aumento del 20 per cento rispetto al 2022, le cifre potrebbero essere ancora più alte, perché molte donne non denunciano gli abusi subiti in casa. “La difficoltà a chiedere aiuto e il senso di colpa oggi sono ancora maggiori a causa della situazione di guerra in cui viviamo”, spiega Alëna Kryvuljak, direttrice dei servizi di assistenza telefonica del centro La Strada, l’ong ucraina più attiva nell’aiutare le vittime di violenze domestiche. “Molte di queste donne pensano di essere responsabili della violenza che subiscono e fanno fatica a riconoscere che i colpevoli sono gli uomini. Succedeva anche prima della guerra. Oggi pensano che altre persone soffrono più di loro, che in fondo sono ancora vive e hanno la fortuna di non essere al fronte”.
Il coraggio necessario
Tamara, 31 anni, profuga di Bachmut, vive da cinque mesi a Kiev con i suoi tre figli in un centro di accoglienza per donne fuggite dalle violenze coniugali. Nella cucina comune i bambini giocano con un neonato, tra peluche e carri armati di plastica, mentre le madri preparano il pranzo. Incinta di sette mesi, Tamara non riesce a staccarsi un attimo dalla figlia più piccola, che vuole starle sempre in braccio. La donna aspetta con impazienza il momento del sonnellino pomeridiano, quando avrà un po’ di tempo per sé, per cercare un po’ di tranquillità praticando l’arteterapia.
Durante i suoi soggiorni in ospedale prima dell’arrivo a Kiev, Tamara non aveva mai parlato dei suoi problemi. “Non volevo condividere cose tanto intime con persone che non conoscevo”, ammette con qualche difficoltà. “Oltre a mio marito c’erano già troppe cose da gestire a causa della guerra”, racconta tormentandosi le mani. In una società in cui il soldato, il difensore della patria è considerato un eroe, sono poche le donne vittime di violenza che decidono di parlare. “E denunciare il proprio compagno che combatte o che ha combattuto al fronte è ancora più difficile”, spiega Kryvuljak, che lavora per La Strada dal 2014.
Una constatazione condivisa da Anna Hrubaja, psicologa specializzata nelle violenze di genere. “Nell’immaginario collettivo la Russia è l’aggressore, il demonio”, spiega la donna subito dopo un allarme aereo che ci obbliga a scendere nel rifugio. “È normale che si parli di loro come del nemico. In questo contesto la violenza da parte dell’uomo che si ama diventa inimmaginabile. È difficile parlare degli uomini ucraini come di aggressori”. Chi l’ha fatto sui social network, spesso ha ricevuto valanghe di insulti e commenti offensivi.
Tuttavia, dall’inizio della guerra Hrubaja ha visto aumentare in modo vertiginoso il numero delle sue pazienti, provenienti per lo più da classi sociali privilegiate. Una di loro, che fa la dermatologa, “è perfettamente consapevole del problema; sa che non è normale, ma non vuole chiedere il divorzio per paura di far soffrire il marito, che è al fronte e che forse non tornerà mai”.
Olga, 37 anni, ha dovuto dar prova di grande coraggio per decidere di rivolgersi al centro. Da quando l’ha fatto, la maggior parte dei suoi amici le ha voltato le spalle. “Tutti sostengono il mio compagno e dicono che sono un mostro ad averlo abbandonato in queste circostanze”, racconta la donna in videochiamata dalla cittadina in cui vive, a duecento chilometri da Kiev.
Alla guida da una decina d’anni di un centro di accoglienza per donne, nel 2022 Olga si è trovata nella stessa condizione di quelle che aiutava. “In quanto esperta del problema, sapevo molto bene di cosa si trattava. Ma mi ci è voluto un anno per reagire e per fare io stessa quello che consiglio di fare alle altre”, racconta.
Prima dell’inizio della guerra Olga non aveva mai avuto problemi simili. Racconta di un marito affettuoso, “un uomo normale, che mi sosteneva nel mio lavoro”. Parla quasi senza emozione, come se si riferisse a una vita non più sua, quella che conduceva “prima del 24 febbraio (il giorno dell’invasione russa) e che non tornerà mai più”.
Prima di andare a combattere, suo marito era “un uomo che non aveva mai avuto un’arma, a cui piaceva passeggiare nei boschi e andare a pesca. Ma intorno a lui tutti si arruolavano. In quel momento l’intera società voleva dare il proprio contributo”, continua Olga con una punta di amarezza. Così anche suo marito si è arruolato come volontario nelle forze speciali ucraine ed è stato subito inviato in prima linea. “Presto mi sono resa conto che beveva molto con i suoi ‘fratelli d’armi’, come li chiamava. E mi ha anche confessato che per allentare la pressione di tanto in tanto prendeva droghe”.
Al suo ritorno dal fronte, quasi un anno dopo, sono cominciate le violenze, prima verbali e psicologiche, poi fisiche. Olga ha capito che suo marito era cambiato. “Ho realizzato che tutto era finito la sera in cui mi ha chiesto di chiudere gli occhi e di seguirlo in bagno. Mi ha messo in mano una granata senza la sicura. Ero terrorizzata, mia figlia di quindici anni dormiva nella stanza accanto. Lui si è messo a ridere e mi ha detto con disprezzo: ‘Ma dai, non è neanche carica!’”. A quel punto ha chiesto il divorzio. “Qualche giorno dopo mi ha sequestrata per diverse ore. Mi urlava che mi stavo inventando tutto perché frequentavo troppe donne che erano ‘davvero’ vittime di violenze domestiche”.
Prima della guerra l’Ucraina aveva cominciato a occuparsi delle leggi contro le violenze di genere, ma l’invasione russa ha frenato i progressi. Il parlamento ha stabilito nel 2017 che le violenze costituiscono un reato, ma le donne rimangono male informate sui loro diritti. Paradossalmente la guerra ha anche avuto alcune conseguenze positive: ormai l’Europa ha gli occhi puntati sul paese, e la convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza domestica e sulle donne è stata ratificata nel giugno 2022, dopo anni di richieste da parte delle associazioni femministe. Di fatto, però, gli aiuti alle vittime rimangono molto scarsi.
“La colpevolizzazione della vittima, il cosiddetto victim blaming, è ancora molto diffusa in Ucraina”, spiega Kateryna Ilikčieva, avvocata specializzata nelle violenze di genere. “Nel paese sono ancora molto forti certe vecchie idee secondo cui queste violenze sono una cosa normale, diffusa in tutte le famiglie. E questo si traduce nell’impostazione delle nostre leggi e nel trattamento che la polizia, la giustizia e i medici riservano alle donne che denunciano i fatti”. Un quadro confermato da quanto ci racconta Olga: “Alla fine la polizia è intervenuta, ma non ha fatto nulla. Non mi ha proposto di sporgere denuncia e non si è offerta di portarmi al sicuro”.
◆ Secondo uno studio realizzato insieme dall’ente delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere e l’empowerment femminile e l’organizzazione umanitaria Care international sulle violenze di genere nelle zone di guerra, la situazione in Ucraina è allarmante. “In tempo di guerra le donne sono le prime a perdere il lavoro, a subire le ripercussioni economiche del conflitto e quindi a perdere la propria indipendenza”, spiega dal suo ufficio a Kiev Daria Čekalova, responsabile delle questioni legate al genere per l’ong Care. Questo è uno dei fattori che spiegano perché in questi tre anni di guerra gli stereotipi sessisti e le violenze di genere si sono intensificati. “Come succede in ogni conflitto, si è rafforzato il cliché della madre protettrice della famiglia e del padre difensore della nazione. Ogni guerra contribuisce a consolidare i ruoli tradizionali, e quella ucraina non fa eccezione”. Lo stato ucraino non dispone dei mezzi necessari per contrastare efficacemente l’aumento delle violenze domestiche. Durante i conflitti, inoltre, le questioni di genere “non sono considerate una priorità dalla comunità internazionale”, sottolinea Diane Richard, portavoce dell’ong Plan international France, citando un rapporto pubblicato nel febbraio 2024.
Solo il 4 per cento degli aiuti è destinato a combattere le violenze di genere. La Déferlante
Il senso di colpa
Olga era indipendente dal punto di vista finanziario e ha potuto affittare un appartamento senza doversi affidare a un centro di accoglienza simile a quello che lei stessa gestisce. Ma il suo è un caso quasi unico: la maggior parte delle donne ha perso il lavoro a causa della guerra ed è tornata a essere economicamente dipendente da mariti e compagni.
Per questo il centro Vilna propone delle riunioni in cui si spiega alle donne a quali sussidi finanziari hanno diritto. Ma gli incontri non hanno molto successo. Seguirli sarebbe stato complicato già in tempo di pace, ma in periodo di guerra servono risorse ed energie extra che non tutte hanno.
La fatica fisica e psicologica, sommata allo stress accumulato nella vita quotidiana a causa dei bombardamenti russi, rende più difficile allontanarsi dal carnefice con cui si condivide l’intimità familiare. Olena, 40 anni, ha trovato rifugio con sua figlia in un centro di accoglienza a Kiev, dopo essere scappata dal compagno. Esperta legale in una banca d’affari, prima dell’aggressione russa neanche lei aveva mai subìto la violenza del compagno. Racconta di aver “perso tutto in pochissimo tempo, a cominciare dal lavoro”. “La maggior parte dei profughi interni si è ritrovata senza mezzi economici da un giorno all’altro. Sono persone che non hanno più lo stesso livello di vita né lo stesso ruolo di un tempo nella società. E questo è un elemento che favorisce l’aumento delle violenze”, spiega Alëna Kryvuljak.
Il compagno di Olena “è cambiato nell’arco di poche settimane dall’inizio della guerra”. “Aveva una casa di famiglia che considerava un luogo sicuro”, racconta la donna. “Di fronte all’avanzata dei russi aveva proposto a diversi parenti di ospitarli, ma un bombardamento li ha uccisi tutti. E lui è caduto in depressione”, racconta Olena. “Mi aveva mandato nell’ovest del paese perché fossi al sicuro con mia figlia e il figlio che aspettavamo. Ma poi mi ha chiesto di tornare per stare al suo fianco, per sostenerlo. E io l’ho fatto. Non volevo lasciarlo solo in queste circostanze. Le violenze sono cominciate qualche giorno dopo”.
Più forte di lui
Olena è consapevole dell’anormalità della situazione. “Ma in fondo dove potevo andare?”, domanda con un pizzico di amarezza. “I miei genitori vivono in una zona occupata dai russi, i miei amici sono tutti all’estero. Ero incinta e senza soldi. Come potevo prendere di nuovo la strada dell’esilio?”. Oggi Olena paga caro il fatto di essere riuscita a liberarsi del suo aguzzino. Suo figlio, nato alla fine del 2022, è rimasto con il padre. “Mi lasciava chiusa a chiave in casa, mi aveva sequestrato i documenti. Sono riuscita a scappare mentre era andato a comprare delle cose per nostro figlio”. Oggi il bambino è al centro di tutti i ricatti: se la donna vuole vederlo, deve tornare dal suo aggressore. La legge ucraina non aiuta a sufficienza le donne che si trovano in una situazione del genere.
Irina continua a vivere sotto lo stesso tetto del suo aggressore. Proprietaria di un negozio di alimentari insieme al marito da 35 anni, non ha altra scelta che rimanere al suo fianco. Sopravvissuta alle violenze sessuali compiute dalle truppe russe, la donna ha accettato di parlarci in videochiamata da una regione del sud dell’Ucraina.
Ai traumi delle violenze subite dagli occupanti, si aggiungono ormai anche quelli legati alla brutalità del marito. “Quando i soldati russi sono andati via, mio marito non mi ha più rivolto la parola”, racconta a bassa voce. “Solo una volta mi ha chiesto scusa per non avermi saputo proteggere”.
Irina ha 60 anni. A violentarla sono stati soldati che “avevano l’età di mio figlio”, dice. “Mio marito mi ha umiliata. Mi diceva che non valevo niente, che senza di lui non ero nulla. Mi ha perfino rimproverata di aver rischiato di morire a causa mia. Era un manipolatore, e si faceva passare per vittima. Sì, è vero, i russi gli avevano puntato un fucile alla tempia perché non voleva obbedire agli ordini”, racconta la donna in modo quasi meccanico. “Ma non ha cercato di impedire lo stupro in nessun modo. E non mi ha mai chiesto cos’è successo. Alla fine ho smesso di fare resistenza e di lottare per evitare che i russi lo uccidessero. I soldati mi avevano detto che lo avrebbero fatto se non avessi ceduto. Lui, però, non ha mai voluto sapere quello che avevo vissuto per proteggerlo”. Irina interrompe spesso il suo racconto. “Lui non voleva sapere, così alla fine ho smesso di parlarne”. Poi ci confida: “Nessuno può sfiorarmi anche solo con un dito senza che mi venga voglia di strangolarlo”. Irina riconosce di continuare a subire l’aggressività, le umiliazioni e le minacce del marito, ma paradossalmente afferma di non averne più paura: “Me ne frego di quello che dice. Mi sento più forte di lui. Il mio atteggiamento nei suoi confronti è cambiato. Non sono più una cosa di sua proprietà. Dopo quello che ho vissuto, la sua violenza mi sembra insignificante”.
In un bar di Kiev un venerdì alle 18, non lontano da un gruppo di giovani che cominciano presto la loro serata a causa del coprifuoco, Kateryna Ilikčieva ci spiega che il suo livello di tolleranza nei confronti della violenza è aumentato a causa della guerra. Poi s’interrompe allarmata: “Non è la sirena dell’allarme antiaereo? No, scusate, è solo una macchina della polizia”. E riprende a parlare: “Da tre anni viviamo in un clima di tale brutalità che oggi alcune violenze ci sembrano quasi ridicole”.
Irina promette che quando la guerra sarà finita, se ne avrà ancora la forza, chiederà il divorzio.
Una parola rara per una donna di sessant’anni che vive in una zona rurale dell’Ucraina, sopravvissuta alla disumanità di una guerra che l’ha resa però ancora più combattiva. ◆ adr
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Questo articolo è uscito sul numero 1613 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati