Era scritto da anni che Israele e l’Iran avrebbero finito per combattersi in una guerra aperta. Considerati il progetto regionale iraniano e la superiorità militare israeliana, lo scontro era diventato quasi inevitabile, ancora più dopo il 7 ottobre 2023. Tuttavia, si è trattato di un conflitto per diversi aspetti sorprendente.
La prima sorpresa deriva dal fatto che la guerra, durata dodici giorni, è rimasta “locale”. Qualche anno fa sarebbe stato impensabile che i due paesi potessero entrare in collisione senza incendiare tutta la regione. Non è successo a causa di tre fattori. In primo luogo per la strategia israeliana, che è consistita nel tagliare “i tentacoli della piovra” prima di colpire la “testa”. Gli alleati dell’Iran nella regione, a cominciare da Hezbollah, erano troppo deboli per partecipare ai combattimenti. Poi per la distensione tra Iran e Arabia Saudita, firmata nel marzo 2023 e mai messa in discussione: l’Iran non aveva interesse a trasformare il Golfo in un terreno del suo scontro, con il rischio di essere ancora più isolato sul piano diplomatico. Infine, per l’ampia presenza militare statunitense nella regione dopo il 7 ottobre: Washington aveva fatto capire a Teheran che l’estensione della guerra avrebbe provocato il suo intervento immediato.
La seconda sorpresa è legata al totale squilibrio nei rapporti di forza. A eccezione degli ideologi dell’“asse della resistenza”, nessuno immaginava che l’Iran e i suoi alleati potessero essere in grado di vincere la guerra. Ma tutti, a cominciare dall’esercito israeliano, pensavano che sarebbe costata molto di più a Israele e ai paesi vicini. La Repubblica islamica si è rivelata una “tigre di carta”. Al punto che sembravano contrapposte non due potenze regionali, ma uno stato super-armato contro un gruppo parastatale, la cui unica vittoria consisteva, alla fine, nella sopravvivenza.
La retorica del regime
La terza sorpresa è la più grande. La guerra è finita e gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo di primo piano. Eppure, è lecito chiedersi se abbia cambiato sostanzialmente la situazione. Si possono avanzare argomentazioni in un senso e nell’altro. Da un lato, ha messo in luce la condizione di fragilità del regime iraniano. L’ha indebolito a tal punto che ci saranno necessariamente ripercussioni interne, anche se al momento è difficile prevederle. Il conflitto ha anche tarpato le ali all’Iran sul piano regionale: pur mantenendo relazioni organiche con i suoi alleati, la Repubblica islamica non potrà più aspirare all’egemonia in Medio Oriente. Un dato forse ancora più importante è che la guerra ha consacrato il dominio israeliano sui cieli iraniani, una conquista che lo stato ebraico probabilmente vorrà mantenere. Inoltre ha permesso di ridurre considerevolmente le capacità balistiche dell’Iran, senza però distruggerle del tutto. Infine, ha fatto saltare il tabù di un intervento diretto statunitense, senza che questo abbia provocato una deflagrazione su scala più ampia.
D’altro canto, se Teheran oggi canta vittoria, non è solo retorica. I suoi più alti dirigenti hanno rischiato grosso e possono ritenere di aver “limitato” i danni. La guida suprema è viva e il regime è ancora in piedi. Sembra abbastanza coeso (ma questa è sicuramente un’illusione dopo una sconfitta simile) e può pensare che nulla di quello che è successo sia irreversibile. Tutto dipende soprattutto – è la questione chiave – da quello che resta delle sue capacità nucleari. Tutti gli esperti concordano nel dire che non sono state completamente distrutte e che la Repubblica islamica conserva ancora 400 chili di uranio arricchito al 60 per cento, sufficienti per fabbricare una “bomba sporca”. L’intelligence statunitense ritiene che il programma sia stato ritardato solo di qualche mese, mentre quella israeliana è convinta che si tratta di diversi anni. In ogni caso, anche se l’Iran è stato allontanato dalla bomba la sua acquisizione è sempre un’ipotesi plausibile a breve o medio termine, a meno che non ci sarà un accordo diplomatico, o una nuova guerra.
Quindi siamo al punto di partenza? In realtà no, perché oltre a rivelare i suoi limiti, il regime iraniano ha anche mostrato la sua capacità di sostenere una guerra che avrebbe potuto essere molto più lunga senza l’intervento statunitense. Questo ha modificato in maniera sostanziale i parametri del negoziato? Considerato che Teheran conserva scorte di uranio arricchito, è lecito dare una risposta sfumata. Se Washington insisterà nel chiedere all’Iran di rinunciare al diritto di arricchire l’uranio e Teheran, com’è sua abitudine, la tirerà per le lunghe giocando d’astuzia, cosa accadrà dopo? Questa guerra è finita o ancora una volta è solo rinviata?
Senza un accordo diplomatico, che potrebbe sancire il diritto dell’Iran ad arricchire l’uranio all’estero, sembra più probabile la seconda ipotesi. A meno che un’evoluzione interna, nell’ambito della successione di Ali Khamenei, porti al potere una personalità che modifichi la linea ufficiale. O a meno che Washington non permetta a Tel Aviv di agire a suo piacimento, con azioni mirate, per colpire qualsiasi “movimento sospetto”. Ma l’Iran non è mai stato il Libano e questo scenario è contraddetto da vari fattori: la distanza che separa i due paesi; il fatto che, contrariamente a Hezbollah, il regime può rispondere (in linea di principio) alle aggressioni israeliane; e la risonanza internazionale che avrebbe qualunque schermaglia tra i due paesi. Saddam Hussein era sopravvissuto alla prima guerra del Golfo, che lo aveva perfino spinto a radicalizzarsi. Dodici anni più tardi, gli Stati Uniti intervennero in modo massiccio per rovesciarlo. ◆ fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1621 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati