Ahmed Ruqait al Ali aveva appena 16 anni quando naufragò al largo delle coste dell’Oman: si aggrappò a un pezzo dell’albero e andò alla deriva fino a un’isola deserta. Era il 1958. Quello fu un anno orrendo a causa dei tifoni e altre tre imbarcazioni del suo quartiere a Ras al Khaimah, uno dei sette emirati che compongono gli Emirati Arabi Uniti, affondarono. Al Ali fu uno dei marinai più fortunati del quartiere, perché sulle altre barche morirono tutti.

Per gli uomini della sua generazione la vita ruotava intorno al mare. Percorrevano le secolari rotte commerciali dell’oceano Indiano su maestose imbarcazioni di legno per raggiungere ricchi fondali, come vuole il capitolo finale dell’antico commercio di perle del golfo Persico. Cantare dava conforto e forza a quei marinai in balia di dio, dei venti e delle onde, ricorda Al Ali, che oggi ha 70 anni.

Ne aveva circa dodici quando ascoltò le melodie dei marinai nel suo primo viaggio a bordo della barca del padre, da Ras al Khaimah fino al Bahrein. I canti di lavoro aiutavano gli uomini a tenere il tempo durante le fatiche del giorno. Quando scendeva il buio e non si lavorava più, la musica forniva l’intrattenimento serale.

“I marinai cantavano quando issavano le vele, quando vogavano, cantavano per qualunque cosa per incoraggiare il gruppo, per spronarlo”, ricorda Al Ali, che è stato capitano di dau (le imbarcazioni a vela usate in tutta la regione) negli anni sessanta. “Cantavamo della vita, dell’amore, della nostalgia, di tutto”.

Nel Golfo i canti marinareschi sono ancora intonati da chi ha conosciuto le avversità del mare.

Squali e scorbuto

I marinai erano commercianti dell’oceano Indiano, pescatori e raccoglitori di perle. Cantare, tutti insieme, gli dava solidarietà e speranza. I pescatori di perle rischiavano più di tutti. Indossavano praticamente solo tappi per il naso e s’immergevano a una profondità di trenta metri, facendo fino a cento immersioni al giorno. Dovevano mettere in conto eventuali attacchi di squali e pesci sega, cecità e aneurismi, annegamento, scorbuto e malnutrizione. In più, c’era la solitudine. Il periodo delle immersioni estive durava dai tre ai quattro mesi, senza riposo e senza notizie dalle famiglie.

“I tassi di mortalità dei pescatori di perle e delle persone che viaggiavano sui dau nell’oceano Indiano per il commercio erano straordinariamente alti”, dice Laith Ulaby, che a metà degli anni duemila ha studiato la musica tradizionale del Golfo cantata dai marinai in Kuwait, Bahrein e Qatar per il suo dottorato in etnomusicologia. “Quello che si perde nelle moderne rievocazioni o nelle esecuzioni delle canzoni è che nei testi si chiede letteralmente di non morire. Molte volte ci sono giochi di parole, ma c’è anche molto umorismo macabro. Credo che ascoltarle seduti a casa sul divano non faccia capire quanto pericoloso e duro fosse questo lavoro”.

Nasser al Taee, un etnomusicologo omanita, ha tradotto dei canti marinareschi che attraversano lo spettro dell’emozione umana, dalla sofferenza all’euforia. Uno comincia così:

Combattono la morte e tutti i suoi elementi

sorridendo.

Oh, come soffro delle lunghe notti

a guardare quei pescatori senza madre.

Ogni volta che un mese passa, un altro

Un’imbarcazione tradizionale al largo di Al Rams, una città dell’emirato di Ras al Khaimah, il 31 ottobre 2019  (Giuseppe Cacace, Afp/Getty Images)

finché gli occhi invecchiano.

E un altro:

Oh quanto sono fortunati i ricchi

che non solcano più l’oceano come me.

Se fossi ricco e mercante

non avrei mai tentato l’impresa,

ma sono debole e non ho altro

che il mio bastone.

Le melodie mescolavano la musica e gli strumenti dell’oceano Indiano. Le voci si sollevavano in un botta e risposta tra un cantante principale, o nahham, e un coro. Ritmi strutturati e sovrapposti partivano dai piatti e dai tamburelli e crescevano fino ai grandi tamburi poggiati a terra e al battere di mani sincopato che è diventato un sinonimo della musica marinara del Golfo. I comandanti si contendevano i migliori nahham.

I canti servivano per intrattenere i marinai. Ma soprattutto offrivano una connessione con il divino, appellandosi a dio e al mare perché mostrassero misericordia. La loro interpretazione aveva forti parallelismi con il sufismo, in cui la musica è centrale come strumento per essere più vicini alla divinità.

Quando negli anni sessanta i confini fisici e culturali s’irrigidirono, il commercio con i dau attraverso l’oceano Indiano s’interruppe. La pesca di perle si era già fermata dopo l’invenzione giapponese degli allevamenti nel 1928.

I canti marinareschi offrivano una connessione con il divino, appellandosi a dio e al mare perché mostrassero misericordia

Ma i canti marinareschi rimasero importanti per i nuovi stati. Dopo il ritiro britannico dal Golfo negli anni sessanta e settanta i governi usarono la poesia e la musica popolare per legittimare lo stato-nazione e incarnare i suoi valori, ma anche come strumento di soft power in diplomazia (gli stati sponsorizzavano i tour all’estero delle compagnie). Di conseguenza, nelle nuove versioni alcuni elementi erano rimossi o minimizzati, per esempio i riferimenti alla tratta degli schiavi nell’oceano Indiano, le interpretazioni femminili, le allusioni sessuali o il misticismo che ricordava le pratiche sufi. Tutti elementi in contrasto con l’immagine dei governi del Golfo, che s’identificavano con la tradizione beduina del deserto e con i valori conservatori del salafismo.

Il ruolo delle donne

Le canzoni dei cercatori di perle in cui si parla delle donne che a casa si struggono per loro sono sopravvissute nei canoni nazionali, mentre il ruolo svolto dalle donne nella pesca delle perle è stato spesso ignorato. Eppure era un ruolo decisivo: contribuivano a preparare le flotte scavando pozzi e trasportando barili d’acqua fino alle barche e poi gestivano la casa per mesi mentre gli uomini erano in mare.

Anche le donne avevano il loro repertorio di canzoni marittime, come Tawb, tawb, ya Bahar, un motivo popolare quando le barche rientravano in porto:

Basta, basta (oh oceano)

quattro mesi (e il quinto è in arrivo).

Riportali, riportali (riportali, riportali)

veleggiando riportali (veleggiando

riportali).

Non hai paura di dio (oh oceano).

Ti sei preso il figlio mio (oh oceano).

Dopo il conservatorismo seguito alla guerra del Golfo negli anni novanta, oggi le donne in Kuwait si esibiscono sul palco accanto agli uomini, come facevano durante l’epoca d’oro della musica e del teatro, negli anni ottanta.

Al di là delle esibizioni volute dallo stato, la musica continua. In tutto il Golfo gli anziani s’incontrano ancora per cantare queste melodie ammalianti nelle sale comunitarie note come majlis, dar e diwaniya, che si possono trovare nelle case moderne come in quelle dei vecchi quartieri in riva al mare. Qui si riuniscono gli anziani delle periferie, e tra un canto e l’altro conversano e bevono tè.

Nell’ultimo decennio i social network hanno fatto conoscere questi raduni a un pubblico più vasto, e i racconti della tradizione hanno attirato un seguito di giovani fan appassionati. “Hanno aperto lo spazio privato, dando la possibilità di dare un’occhiata dentro una diwaniya”, dice Ghazi Faisal al Mulaifi, musicista kuwaitiano e ricercatore di musica alla New York university di Abu Dhabi. “Hanno creato curiosità, e hanno convinto molte persone desiderose d’imparare questa musica ad andare a visitare le diwaniya. Per me pubblicare dei contenuti su Instagram è un bel modo per dare accesso a questo mondo”.

Inoltre i canti marinareschi si sono evoluti in nuove forme di musica, e la loro presenza si può sentire nei ritmi e nelle scale della musica sawt urbana e nel moderno pop khaliji del Golfo.

Chiaramente è impossibile determinare con certezza le influenze. “Negli anni sessanta, settanta e ottanta si fece un gran lavoro per tentare di capire da dove arrivassero esattamente alcune pratiche musicali, e oggi la conclusione è che la questione è piuttosto complicata”, dice Ulaby. “Quando si ascolta la musica pop della regione emergono alcuni di quei ritmi e di quegli strumenti. Ma è difficile capire: suonano in sei ottavi perché s’ispirano alla musica dei loro vicini iraniani o perché ripropongono la musica dei raccoglitori di perle?”

In Kuwait i canti marinareschi continuano a godere di grande venerazione, e i gruppi fondati nei decenni passati s’incontrano ancora. La sfida negli adattamenti moderni è quella di preservare il significato originale, osserva Ghazi. La sua famiglia è stata una delle ultime in Kuwait a praticare la pesca delle perle ed è rimasta attiva nel commercio fino al 1955. Ma lui ha scoperto la storia della famiglia solo a 13 anni, perché suo nonno non voleva affrontare l’argomento. “Eravamo molto intimi e tra noi si poteva parlare di tutto, tranne che della pesca delle perle”, racconta Ghazi. “Quando ho scoperto che era stato un comandante di navi gli ho chiesto di raccontarmi della vita in mare e lui mi ha detto solo che tutti gli uomini erano morti”. Ghazi ha accennato al tema qualche altra volta, poi ci ha rinunciato. “Ho capito che c’era un grande lutto”.

Onorare il passato

Nelle diwaniya, gli incontri ospitati nelle case private, Ghazi ha visto gli anziani piangere, persi nelle canzoni e nella memoria. Il capo di una diwaniya è entrato nel complesso di Ghazi, i Boom Diwan, che combina i canti marinareschi con il jazz. Occasionalmente tutta la diwaniya si esibisce con la band.

Ghazi si è tenuto alla larga dalla moda dei canti marinareschi che ha imperversato su TikTok a gennaio del 2021, quando in tutto il mondo le persone hanno pubblicato video in cui cantavano canti marinareschi europei. “Penso che il mio ruolo sia quello di conservare la musica, ma anche di evitare che diventi un feticcio, in senso coloniale”, spiega Ghazi. “Ultimamente alcune persone in Kuwait mi hanno contattato per dirmi ‘ehi, è il grande momento dei canti marinareschi, non vuoi approfittare di questa moda per far conoscere la tua band?’. Anche se sono sicuro che avrebbe dato grande visibilità ai Boom Diwan, ho rifiutato”.

Ghazi ritiene che il modo migliore per onorare il passato sia collaborare con altri artisti, proprio come facevano i marinai fondendo ritmi e linguaggi. “Quello che stiamo cercando di fare con i Boom Diwan è rivitalizzare una tradizione fondata sul dialogo e lasciare la musica nella sua condizione naturale, libera di cambiare con le interazioni e le culture. Perciò respingiamo il discorso dell’eredità culturale. Può esistere, va bene, ma in quanto persone nate in questa tradizione vogliamo che la musica rimanga libera”. E aggiunge: “Non esiste un canone della musica dei cercatori di perle kuwaitiani che sia fisso. È una condizione innaturale per la musica. Eseguita in quanto patrimonio culturale è interpretata come documento storico, e va bene così. Ma la natura della musica è trasformarsi”.

Per ora la pandemia ha lasciato in silenzio dar e diwaniya. Ma i ritmi dei dau torneranno a farsi sentire, trasformandosi con il tempo, come hanno fatto per secoli. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1405 di Internazionale, a pagina 55. Compra questo numero | Abbonati