Il giorno in cui ha vomitato in ufficio, Kim Hye-min era talmente stressata da avere la nausea. Un collega più anziano della piccola emittente di Seoul in cui lavorava come grafica l’aveva umiliata per un ritardo di qualche minuto, e le sue parole echeggiavano quelle che si era sentita ripetere infinite volte da persone più grandi di lei: non era all’altezza. All’ora di pranzo era corsa in bagno.
“Continuavano a criticarmi”, racconta. Finché non si è convinta che non ce la faceva più. Per Kim, 26 anni, come per tanti giovani sudcoreani, le scelte della vita sono fisse e obbligate, e non sembrano neppure vere scelte. Molti si sentono così oppressi dai rigidi codici sociali e professionali del loro paese che l’hanno soprannominato Hell Joseon (Inferno Corea), un gioco di parole basato sull’antico nome dinastico della Corea. La vita è particolarmente difficile per le ragazze, che devono misurarsi con una profonda misoginia. Ogni deviazione dal comportamento della maggioranza è generalmente ritenuta una disubbidienza e a volte, agli occhi delle generazioni più anziane, un comportamento antipatriottico.
Le famiglie composte da una sola persona hanno più disponibilità economiche di quelle formate da tre o quattro
“È una caratteristica della società coreana”, dice Kim. “C’è un solo modo di avere rapporti con gli altri e un solo tipo di persona considerata accettabile. Per la gente come me è davvero dura”. I suoi genitori le davano il tormento: “Hye-min, perché non sei come i tuoi compagni di classe, che studiano sodo e hanno ottimi voti? Hye-min, perché non sei come i tuoi coetanei, che si sbrigano a finire l’università e trovare lavoro?”.
Kim non ha mai capito perché avrebbe dovuto affannarsi per finire un percorso di studi in cui non facevano altro che giudicarla e catalogarla, per poi trovare un impiego a vita in un’azienda dove avrebbero fatto la stessa cosa. Ha lasciato l’università per un anno prima di cambiare indirizzo, ha cercato aiuto per la sua autostima malconcia e si è licenziata dal lavoro, anche se sapeva che tutte queste scelte sarebbero state giudicate dei fallimenti. Ma la cosa più dura, forse, era sapere che anche se avesse avuto “successo”, difficilmente sarebbe stata compensata adeguatamente: il divario salariale di genere in Corea del Sud è il più ampio dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico): gli uomini in media guadagnano il 32,5 per cento in più delle donne.
I genitori la assillavano: “Hye-min, perché non sei come le altre ragazze della tua età che si trovano un bravo fidanzato e si sposano?”. Ma Kim non intende sposarsi. E non prevede di avere figli. Dopo essersi sentita ripetere per anni che doveva cercare di essere una brava studente, una brava dipendente, una brava moglie e una brava madre, alla fine ha deciso che non voleva più far parte di un sistema che fa dipendere il valore sociale e l’autostima delle persone da una condizione così dura e punitiva. Così ha scelto di mollare tutto. “Perché dovrei andare avanti e affrontare tutte queste difficoltà?”, dice. “Per avere cosa?”.
Le barriere intorno
In Corea del Sud, una società tradizionalmente collettivista, le persone solitarie e individualiste, o honjok, si stanno moltiplicando. Il termine, traducibile come “tribù sola”, contrae e combina nahollo, che significa “per conto mio” e jok, “tribù”. È usato per descrivere una categoria di persone che, per piacere o per motivi pratici, ma spesso anche per totale sfinimento e assoluta disperazione, preferiscono vivere al di fuori delle strutture sociali convenzionali e starsene semplicemente da sole. Non è del tutto chiaro in cosa consista questo starsene “da sole”, ma alla fine quello che conta sono le barriere fisiche e psicologiche che una persona alza intorno a sé. Un honjok può per esempio godersi il tempo libero da solo, costituire un nucleo familiare a sé, evitare l’ufficio o un altro luogo di lavoro, limitare le frequentazioni sociali, astenersi dal sesso o dai rapporti sentimentali, rifiutare il matrimonio e i figli. Di base, la cultura honjok si oppone al sistema sociale sudcoreano e considera le esigenze e i desideri individuali più importanti della lealtà alla gerarchia e all’autorità. Ma avere una vita indipendente non significa automaticamente essere un honjok, e sentirsi un honjok non impedisce di far parte di una comunità, soprattutto se questa comunità è virtuale.
Nell’iperattiva cibercultura sudcoreana fatta di forum online, blog e social network, è spuntata una vera e propria tassonomia che classifica sempre più nel dettaglio le varie identità e attività degli honjok. Tra loro ci sono molte honyeo, o donne solitarie, e alcune honyeo, come Kim, sono bihon, cioè rifiutano sia il matrimonio sia la maternità. I 4Bs si spingono ancora oltre e rifiutano il sesso e le relazioni sentimentali. Un honjok che mangia da solo è chiamato honbap, e se beve da solo è honsul. Possono anche divertirsi da soli (honnol), per esempio viaggiando da soli (honhaeng), andando al cinema da soli (honyeong) o facendo shopping da soli (honshop).
Tutto questo contribuisce a una fiorente honconomy, l’economia degli honjok. In media, le famiglie composte da una sola persona, in rapido aumento, hanno maggiori disponibilità economiche di quelle formate da tre o quattro persone. L’Istituto coreano per l’economia industriale e il commercio stima che entro il 2030 le spese delle famiglie unipersonali si avvicineranno ai 200mila miliardi di won (circa 150 miliardi di euro). Le aziende stanno approfittando di questo ricco mercato. Le banche offrono carte di credito per single, le piattaforme di commercio online considerano gli honjok una categoria speciale e vendono articoli come minilavatrici, mobili polifunzionali e servizi da tavola per una sola persona. I minimarket sempre aperti, molto apprezzati dagli honjok perché sono ovunque e vendono confezioni piccole, offrono promozioni speciali e pubblicizzano pasti monoporzione e bottigliette di alcolici. I servizi di consegne di pasti a domicilio prevedono particolari agevolazioni per i single. Bar e ristoranti promettono di servire clienti non accompagnati senza discriminazioni, e locali attenti agli honjok creano tavoli con appositi divisori solo per loro. Bar karaoke specializzati si dotano di cabine individuali che funzionano a monete. I cinema installano file con un solo posto. Programmi tv come Na honja sanda (Io vivo da solo) e Honsulnamnyeo (Uomini e donne che bevono da soli) raccontano la vita degli honjok e siti di notizie come 1conomy News sono dedicati esclusivamente alla vita da single.
Segno dei tempi
È difficile stabilire esattamente quando in Corea del Sud è apparso per la prima volta il concetto di honjok, ma uno studio della Daumsoft, che analizza i contenuti del web, indica che c’è stato un boom nell’impiego di termini come honbap, honsul e honnol nella prima metà degli anni dieci del duemila: se all’inizio del decennio risultavano solo 44 occorrenze online, nel 2016 erano più di 60mila. Nello stesso periodo il numero degli smartphone è schizzato dal 14 per cento a più dell’85 per cento ed è comparso lo shopping on demand, che si è fuso con i social network gettando le fondamenta del consumismo mediato da internet di oggi. Ma se l’adozione di strumenti tecnologici personali ha contribuito a trasformare gli honjok in un fenomeno nazionale, potrebbe anche aver rivelato come molti sudcoreani stessero già cercando una via d’uscita.
Alcuni honjok abbracciano l’hon, e cercano davvero la solitudine, altri si rivolgono al jok, la tribù di persone come loro, per avere conferme e sostegno. Nelle comunità, online e offline, si cerca di normalizzare la vita degli honjok considerandola un segno dei tempi: una scelta al tempo stesso ragionevole e conveniente e, se non proprio qualcosa da accogliere con giubilo, quanto meno nulla di cui essere imbarazzati.
Che gli honjok sentano l’esigenza di confrontarsi con gli altri mentre decidono d’isolarsi può sembrare un paradosso. Eppure, per molti giovani honjok il fascino sta proprio nel ritrovarsi in “una sorta di identità condivisa”, seppure sotto la pressione di un paese ossessionato dallo status, dice Andrew Eungi Kim, docente di sociologia all’università della Corea a Seoul. “Se non riesci a soddisfare gli standard dominanti provi un sentimento di vergogna. Con gli honjok, hai la sensazione di appartenere a un gruppo”, il che in certi casi può significare non solo autentica solidarietà ma anche un rifugio nei grandi numeri.
Una ragazza ha raccontato che la parrucchiera le aveva addirittura chiesto se il fidanzato le aveva dato il permesso di tagliarsi i capelli
Honjok Dot Com, che è sia un sito web sia un gruppo Facebook, è una risorsa che si definisce “il miglior regalo per te solo”. Lanciato da Jang Jae-young, 31 anni, Honjok Dot Com raccomanda attività, dai ristoranti di barbecue ai campi da tennis, che si rivolgono a clienti soli, e anche diversi servizi su richiesta per famiglie unipersonali. A gennaio, usando la posta elettronica perché non poteva (o forse non voleva) incontrarmi di persona, Jang ha sottolineato alcuni cambiamenti positivi nella percezione che i sudcoreani hanno degli honjok. “Prima il termine designava una persona socialmente disadattata”, mi ha detto, spiegandomi che oggi invece la gente capisce meglio come in realtà si riferisca a quanti “hanno scelto consapevolmente di restare soli ed essere felici”. Jang ne è un esempio: è single e vive da solo dal 2015.
Su King of Honjok, un’applicazione della comunità che ha anche un sito, i solitari postano foto della loro vita, comprano cose o leggono articoli come “La tendenza in questi giorni è ‘Io vivo da solo!’” e altri contenuti creati apposta per loro. A volte s’incontrano fisicamente agli eventi organizzati da King of Honjok. La cofondatrice, Oh Jung-hee, 34 anni, che da un decennio è honyeo e vede gli amici di persona due o tre volte all’anno, spiega che in una società orientata alle famiglie e alle coppie ha voluto realizzare questa app per aiutare gli outsider per scelta come lei a vivere una vita migliore. Che la usino per essere “indipendenti da soli” o “indipendenti insieme” è una loro scelta.
Ma, come è facile aspettarsi da una piattaforma destinata a persone che preferiscono tenersi distanti dagli altri, su King of Honjok non ci sono molte interazioni che facciano pensare alla nascita di rapporti profondi. I messaggi tendono a essere divertenti e spensierati, e i commenti piuttosto generici, con qualche “Wow! Forte!”, o l’equivalente coreano di lol. Jang calcola che dei circa ottomila iscritti, per lo più donne di Seoul nate all’inizio del millennio, la metà circa non interagisce mai. E va benissimo, dice, perché l’obiettivo è semplicemente assicurare una presenza a una parte della popolazione che spesso viene emarginata. Questo sentimento trova un’eco nella youtuber Kim Min-jung, 34 anni, che gestisce il canale 1 Person 2 Cats. Kim dice che i video sulla sua vita di bihon intendono incoraggiare le donne che vorrebbero adottare questo stile di vita ma non sanno come fare. “La società non considera quello delle bihon uno stile di vita particolare”, dice. “Lo considera uno stile di vita incompleto”. Alcune bihon hanno addirittura postato sui social network le cerimonie nuziali con se stesse, per ispirare le donne che vogliono rimanere single ma non rinunciare ai regali di nozze.
Emif, l’acronimo di élite without marriage, I am going forward (élite senza matrimonio, vado avanti), è una rete che si propone di dire alle donne bihon che è giusto scegliere se stesse, comprese la carriera e le proprie ambizioni, al posto di un marito e dei figli. “La società coreana pensa che le donne debbano sacrificarsi”, dice Kang Han-byeol, 31 anni, condirettrice dell’Emif. Ha condiviso storie di donne che sono state vittime di ciberbullismo perché bihon e interrogate durante i colloqui di lavoro sulla loro intenzione di avere figli. Una ragazza ha raccontato che la parrucchiera le aveva addirittura chiesto se il fidanzato le aveva dato il permesso di tagliarsi i capelli. “La società dice alle donne: come osi voler vivere per conto tuo ed essere egoista?”, spiega Kang. Attraverso incontri dal vivo e gruppi sui social network, l’Emif interagisce con le iscritte e ne recluta di nuove, spiegando che l’ostilità con cui si scontrano non è colpa loro.
I genitori di Kim Hye-min le avevano sempre detto che era l’unica a sentirsi in quel modo, ma lei sospettava che non fosse vero. Sicuramente c’erano altri come lei che cercavano delle alternative. Nel 2017, nel periodo in cui stava lasciando il suo lavoro in tv, ha cominciato a esprimere i suoi pensieri attraverso il disegno, e ha creato una vignetta sui suoi tormenti. Dopo essersi interrogata per mesi sull’opportunità di pubblicarla sui social network, finalmente si è decisa a farlo.
Nel 2018, Kim ha lanciato il suo account Instagram con il nome utente @nicetoneet e lo pseudonimo nuguna, che significa “chiunque” in coreano. Il suo primo disegno era una ragazza raggomitolata in una posizione quasi fetale. Non c’erano né didascalie né hashtag. L’ha condiviso e ha aspettato le reazioni. “Quando finalmente l’ho postato, è stato uno sfogo di tutti i sentimenti e i pensieri che avevo dentro”, riflette. “Mi sentivo una specie di gola profonda, come se stessi dicendo a tutti la verità”. Con il tempo Kim è diventata più esplicita, e le sue vignette parlano dei continui interrogatori che i giovani coreani devono subire sulla laurea, il lavoro e il matrimonio. A ogni passo, la protagonista cerca di trovare la sua strada nel mondo senza limitarsi a fare quello che gli altri si aspettano da lei. Una vignetta la ritrae mentre si ferma a un minimarket per comprare un alcolico da bere a casa da sola. Un’altra raffigura una batteria con le parole: “Il mondo era calmo e silenzioso quando ero da sola nella mia stanza. Come una batteria vecchia, consumavo in fretta la mia energia e mi ricaricavo lentamente. Restavo lì finché mi ero ricaricata, e nessuno giudicava la mia vita. Amavo quello spazio e quel tempo”.
All’inizio i suoi disegni sono stati accolti da commenti che l’accusavano di essere pigra, debole, egoista e un pessimo modello, al punto che Kim è stata tentata di rinunciare al progetto. Aveva anche dei sensi di colpa. “Non ero ancora sicura che fosse giusto vivere la mia identità”, dice. Ma nel giro di tre mesi è arrivata ad avere quasi 20mila follower, e questo le ha dato fiducia.
Nel 2019, dopo molti mesi di risparmi, Kim ha lasciato la casa dei genitori e si è trovata un monolocale in una via tranquilla di un popolare quartiere studentesco. L’idea di poter vivere alle sue condizioni, con le sue routine e i suoi rituali era un vero sollievo. La sua stanza di 17 metri quadrati scarsi è all’ultimo piano di un vecchio palazzo senza ascensore il cui pregio principale è il tetto. Usando la sezione honjok di un’app chiamata Today house, ha comprato un letto matrimoniale richiudibile che si appoggia alla parete, un piccolo forno a microonde e una friggitrice ad aria della misura perfetta per un pasto singolo. Ha dipinto le pareti di grigio ardesia, poi ha appeso uno specchio a forma di cuore e una luce al neon a forma di nuvola.
Quasi ogni giorno Kim passa il tempo a disegnare. Ora ha circa 40mila follower e ha raccolto le vignette apparse in rete in due volumi. Quando la giornata di lavoro è finita, guarda uno dei suoi programmi preferiti, come Na honja sanda o altre proposte di YouTube, di solito tutorial di bellezza e videoblog quotidiani. Quando ha voglia di un po’ di carica umana, va da sola in un caffè, al cinema o a un karaoke a gettoni, o sale sul tetto per sentire il brusio della città.
Sembra che gli honjok, seppure per caso, abbiano anticipato quella società senza contatto che potrebbe diventare la norma
Il fatto che gli honjok siano spesso relegati ai margini, costretti a restare separati dalla società, può rendere difficile capire se sono in una posizione di emancipazione o di alienazione. L’economia può accogliere a braccia aperta i tipi solitari, ma l’opinione pubblica sudcoreana di regola ha una posizione ben diversa. Molti honjok, invece di lottare per cambiare la società, si arrendono e basta.
Oggi si calcola che in Corea del Sud 1,2 milioni di giovani tra i 15 e i 29 anni siano neet – not in education, employment or training, cioè non impegnati nello studio, nel lavoro o nella formazione – e un numero crescente di questi giovani, Kim compresa, lo sono per scelta. Molti lasciano il posto di lavoro dopo il primo anno. In uno studio dell’Istituto nazionale per le politiche giovanili coreano, il 38 per cento circa dei neet ha dichiarato che rimaneva disoccupato perché era più felice così; in un altro, la stessa percentuale o quasi ha attribuito la sua scelta all’insicurezza. Comunque sia, già a marzo 2020 più di 400mila ragazzi non avevano un lavoro e non lo cercavano. Ancora prima della pandemia, la percentuale di sudcoreani tra i 25 e i 29 anni senza un lavoro superava quella di tutti gli altri paesi dell’Ocse.
La tecnologia è considerata una causa e al tempo stesso una possibile soluzione per il sempre maggiore isolamento sociale: un fattore di solitudine e uno strumento per cercare di costruire una comunità. La tecnologia può senz’altro agevolare le interazioni, ma non dovrebbe sostituire la socializzazione o diventare un alibi per evitarla. Ma per alcuni honjok può essere difficile evitare che questo succeda. “Se c’è un aspetto negativo nella cultura honjok, è che quando passi troppo tempo da solo poi non riesci a uscirne”, dice Kim, il sociologo. A suo giudizio le capacità relazionali dei giovani sudcoreani sono già tra le peggiori del pianeta, e pensa che più tempo passano da soli più queste capacità rischiano di peggiorare. Gli studi indicano che quanto più dura la solitudine, tanto più è difficile sfuggire all’isolamento e al rischio correlato di gravi alterazioni cerebrali.
Allo stesso tempo, la diffusione della cultura honjok coincide con diverse tendenze piuttosto preoccupanti. Dal 2014 il numero di giovani sudcoreani in cura per la depressione è quasi raddoppiato. Oltre alla crescente disoccupazione giovanile, il tasso di matrimoni e quello di natalità sono ai minimi storici. Salvo cambiamenti, secondo le proiezioni fatte dal governo nel 2015 la Corea del Sud è destinata all’estinzione naturale entro il 2750.
Il paradosso è che l’economia sudcoreana si sta spostando verso tecnologie che favoriscono lo stile di vita honjok. Già prima che il paese diventasse l’epicentro della pandemia di covid-19 fuori dalla Cina, le aziende avevano sviluppato una robusta infrastruttura digitale per le interazioni a distanza. La nascente industria untact (dai termini un, senza, e contact) permette di ordinare pasti, prenotare taxi, fare pagamenti e mandare regali senza nessuna interazione umana. Con la diffusione della pandemia, nei primi mesi dell’anno, il mercato untact sudcoreano ha avuto un’impennata. Coupang, il principale sito di commercio online del paese, a febbraio ha incassato 1.630 miliardi di won (quasi 1,2 miliardi di euro), 190 miliardi più del mese precedente. Anche i due principali servizi di consegna di pasti a domicilio del paese, Yogiyo e Baedal Minjok, hanno registrato un netto aumento degli ordini. Un numero sempre maggiore di ristoranti e caffè sostituisce il personale in carne e ossa con chioschi self-service e robot.
Il governo sudcoreano sta basando la riforma economica del paese e la creazione di posti di lavoro sull’untact. A maggio il presidente Moon Jae-in ha annunciato il “new deal sudcoreano”, un piano da 76mila miliardi di won incentrato sugli investimenti in tecnologie che rafforzano le interazioni senza contatto, compresi sistemi per il telelavoro, internet ad alta velocità e 5g, più auto che si guidano da sole, droni, robot e altri prodotti che impiegano l’intelligenza artificiale. Questi sviluppi rafforzano la campagna del governo a favore della “quarantena della vita quotidiana”, la visione di un futuro di distanziamento fisico in cui le norme saranno allentate ma si continuerà a ricordare ai cittadini che non dovrebbero tornare alle abitudini di prima della pandemia. Come dice Kim, il sociologo: “Il governo ripete che ‘bisogna rispettare il distanziamento sociale’ e indirettamente promuove lo stile di vita honjok”.
Precursori del futuro
Sembra che gli honjok, seppure per caso, abbiano anticipato quella società senza contatto che potrebbe presto diventare la norma. Kim Hye-min pensa che la realtà futura non sarà molto diversa dalla sua vita prima della pandemia. “Ho semplicemente pensato che non potevo farci granché e sono andata a casa, ho guardato dei video su YouTube, ho letto dei libri e ho giocherellato con lo smartphone, come faccio normalmente”, dice. Molti altri hanno fatto come lei: dopo lo scoppio della pandemia tra gennaio e maggio, Honjok Dot Com ha visto raddoppiare il traffico. È stato solo più tardi, parlando con un’amica al telefono, che Kim si è resa conto degli effetti traumatici della pandemia per chi non è honjok.
Ovviamente le cose sono cambiate anche per lei. È preoccupata per il contagio e per la salute dei genitori. Porta la mascherina e si lava le mani. A un certo punto ha definitivamente interrotto le sue già rare uscite per andare al bar, al cinema e in altri spazi pubblici affollati. Ma se per tanti sudcoreani le restrizioni sociali sono state un sacrificio, Kim non ha avuto difficoltà a rispettarle. Concepiva già il suo spazio personale come un rifugio. E per il futuro prossimo, pensa che sarà ben contenta di rimanere a casa da sola. ◆ gc
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Questo articolo è uscito sul numero 1381 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati