Posso immaginare il filo di una lama contro il suo stomaco. Posso perfino sentire la sua paura, perché mi è familiare. Nel mio caso non è stato un coltello, ma la canna gelida di una nove millimetri tra le gambe.
“Ho sentito una donna che gridava aiuto, è stato terribile. Mi sono venute le lacrime agli occhi. Sudavo e mi tormentavo i capelli. Ho chiesto alle altre: ‘Cosa le sta succedendo?’. Mi hanno detto: ‘Sta’ zitta, non parlare. Se ti sentono, porteranno laggiù anche te’”.
“Cos’è successo a quella donna?”, chiedo.
“La stavano stuprando… Ho paura di…”. Verónica stava per dire: “La stavano stuprando tutti quanti, non uno solo. Quello che comanda è il primo a farsi avanti, poi tocca agli altri”. E avrebbe voluto aggiungere: “Ho paura della polizia migratoria”, cioè l’autorità colombiana responsabile del controllo dei migranti.
Verónica e le altre dieci donne venezuelane che hanno accettato di farsi intervistare hanno paura perché gli agenti della polizia migratoria, che svolgono anche il ruolo di polizia giudiziaria, le fermano al confine, le picchiano, le obbligano a salire sulle loro auto, le portano via e le “abbandonano laggiù”. Gli agenti sanno che attraversando il confine colombiano dai varchi non autorizzati le donne rischiano di subire violenza, “ma strappano lo stesso il nostro _ carnet fronterizo _(una tessera per attraversare legalmente il confine) per obbligarci a passare per i sentieri illegali”.
All’improvviso il rumore di un pianto c’interrompe. Una donna si alza ed esce dalla stanza dove stiamo registrando, sbattendo la porta. È Gabriela. Ancora non abbiamo parlato e piange dall’altra parte del muro.
Figlie o sorelle
Sto lavorando a un reportage sulle vittime dello sfruttamento sessuale e della tratta di persone alla frontiera tra Colombia e Venezuela. Ad aiutarmi ci sono due ragazze di un’organizzazione per la difesa dei diritti dei migranti. Una mi prende per il braccio e mi dice piano, in modo che nessuno possa sentire: “Gabriela non ha retto la testimonianza di Verónica. È stata violentata a uno dei varchi illegali al confine”.
M’inginocchio accanto a Gabriela, le prendo la mano e gliela stringo forte. È una donna spezzata e ha dovuto scegliere. In alcune situazioni le donne devono decidere se lasciarsi stuprare da sette uomini o sparire. Non sto esagerando. Parlo di sparizioni forzate.
“Ti dicono: ‘Se collabori potrai andare in Colombia o in Venezuela, dove vuoi. Altrimenti non ti rivedrà più nessuno’”, racconta Gabriela. “Poi ti portano da qualche parte e devi fare sesso con tutti. Se per caso gridi tirano fuori i coltelli”, continua. Per qualche secondo le trema la voce. Gabriela guarda a terra, fa un respiro profondo e va avanti: “Sono persone spregevoli. Se non gridi e non provi a ribellarti ti chiedono dove vuoi andare. È meglio se non racconti niente a nessuno, dicono, perché devi pensare alla tua famiglia”.
“Hanno minacciato la tua famiglia?”, chiedo.
“Sì. Lo fanno con molte donne venezuelane. Quel giorno mi sono salvata, insieme ad altre tre donne. Ma due ragazze sono state portate nella boscaglia e non le abbiamo più viste. Sono sparite molte donne in quel tratto di confine”.
Il 19 agosto 2015 a San Antonio del Táchira, una città venezuelana alla frontiera con la Colombia, due persone su una moto spararono contro quattro uomini impegnati in un’operazione anticontrabbando. Morirono tutti. Tre facevano parte della Fanb, le forze armate venezuelane. Il giorno dopo il presidente del Venezuela Nicolás Maduro definì gli attacchi alla Fanb “l’ultimo di una serie di episodi contro la popolazione degli stati di Táchira e Zulia”. Maduro aggiunse che la violenza in quelle regioni dipendeva dalla presenza dei paramilitari colombiani e che servivano misure straordinarie per fermare la “peste paramilitare”. Scattarono perquisizioni, arresti, espulsioni e l’imposizione, dal 21 agosto di quell’anno, dello stato d’eccezione in cinque comuni di confine. Maduro annunciò anche la chiusura della frontiera.
Tre giorni dopo, il 24 agosto, le autorità venezuelane presentarono i risultati di una delle più gravi crisi diplomatiche tra Venezuela e Colombia degli ultimi anni: più di mille colombiani espulsi dal paese e dieci presunti paramilitari arrestati. Il 27 agosto il quotidiano statunitense El Nuevo Herald scrisse che le misure del governo di Caracas erano una punizione per le recenti estradizioni, approvate dal presidente colombiano Juan Manuel Santos, di Gersaín Viáfara Mina e Óscar Hernando Giraldo Gómez, due presunti narcotrafficanti appartenenti al cartello Los Soles, gestito da militari venezuelani di alto rango e dirigenti del chavismo.
Sono passati cinque anni e la frontiera dell’area metropolitana di Cúcuta, in Colombia, è ancora chiusa a tempo indeterminato. Un governo illegale parallelo ha preso il comando dei ponti che collegano i due paesi: diverse strutture criminali gestiscono i 52 punti di passaggio non ufficiali individuati dalla polizia lungo il confine.
I gruppi criminali controllano il narcotraffico, il contrabbando, le armi, la benzina e il settore più redditizio, quello della tratta di persone. Chiunque passi dai varchi deve pagare 25mila pesos (quasi sette dollari). Se non ha soldi ed è un uomo, lo picchiano e gli tolgono tutto ma lo lasciano andare. Se è una donna no: un branco di uomini armati la stupra e minaccia di farla sparire.
Secondo l’istituto colombiano di medicina legale, nel 2015 a Cúcuta è stata denunciata la scomparsa di 88 donne. Nel 2017 le denunce sono state 78 e nel 2018 settanta. La statistica non fa differenza tra sparizioni forzate o meno. Ma l’ufficio dell’istituto a Cúcuta ha realizzato un rapporto con informazioni dettagliate su ogni sparizione. Nel documento ci sono i racconti di chi ha sporto denuncia, storie come questa: “Mia figlia stava tornando per prendere mio nipote e portarmi la spesa. Verso le sette o le otto di mattina mi ha chiamato. Mi ha detto di aspettarla dopo pranzo sul ponte La Parada per aiutarla. Quand’ero sul ponte ho ricevuto due messaggi vocali su WhatsApp. Erano di mia figlia: ‘Papà’”, diceva, “‘mi hanno tolto tutto. Prenditi cura del bambino. Ti mando questo messaggio perché ho ancora il cellulare, l’avevo nascosto. Mi hanno legata, non so dove mi stanno portando’. È stata l’ultima cosa che mi ha detto. Da quel momento non abbiamo più saputo niente e il suo telefono è spento”.
In quasi tutte le testimonianze è una figlia a essere scomparsa. Altre volte una sorella. Nel 2019 un rapporto della Rete dipartimentale dei difensori dei diritti umani (Corporeddeh), basato sui dati dell’Istituto di medicina legale e della polizia dell’area metropolitana di Cúcuta, ha reso noto che l’anno precedente le donne vittime presunte di sparizione forzata erano state 43.
La cella
Gabriela è ancora seduta a terra e io le tengo la mano. Le dico che conosco il suo dolore. Ho conosciuto gli uomini che usano le armi per sottomettere i corpi, e vorrei dirglielo, ma l’abbraccio e basta. Cerco di unire i pezzi sapendo che non ci sono tutti. Quelli che mancano sono rimasti lì, al confine. Le spiego che non deve parlarmi se non le va.
“Voglio che si sappia cosa succede laggiù. Magari qualcuno ascolta e si salva”, dice Gabriela.
Torniamo nella stanza. Riprendo l’intervista con Verónica, ma prima di ricominciare mi mostra da vicino il suo braccio destro. Mi accorgo che è storto. È rimasto così per le manganellate prese durante un’operazione della polizia migratoria.
“Quando mi hanno fermata non stavo scappando. Ero nel parco e ho visto le altre ragazze correre e gridare che stava arrivando la polizia. Non stavo facendo niente di male e avevo con me la tessera frontaliera. Ho pensato: ‘Chi nulla deve, nulla teme’. Invece mi hanno fermata e picchiata a lungo. Mi hanno fatto male al braccio, guarda come me l’hanno ridotto. Avevo lividi su tutto il corpo. Mi hanno fatto salire sulla loro auto e mi hanno portato al ponte di Ureña (al confine tra Colombia e Venezuela). Non ero l’unica, c’erano altre donne”.
“Quante eravate?”, chiedo.
“Saremo state duecento”.
“E poi cos’è successo?”.
“Ci hanno detto che ci avrebbero rispedite dall’altra parte del confine, usavano espressioni orribili. ‘Cosa fate qui’, ‘Tornatevene in Venezuela’, ‘Qui non avete niente da fare’. Ti pisciano addosso, ti umiliano”.
“A chi ti riferisci?”.
“Alla polizia migratoria colombiana”, risponde Verónica.
Un venerdì all’ora di pranzo vado nel parco Mercedes Ábrego, a Cúcuta, il principale luogo di prostituzione della città, dove finiscono molte migranti vittime della tratta. Sono insieme a due donne che conoscono il posto, salutiamo alcune ragazze che vendono caffè in un banchetto improvvisato in una strada laterale. Una donna si avvicina e, cercando di non farsi notare, dice: “Qui non possiamo parlare perché c’è la polizia”. In effetti nei dintorni sono appostati vari agenti in moto. “Se ci vedono finiamo nei guai. Siamo già state tutte minacciate”, aggiunge.
Ci accordiamo per incontrarci in un albergo: noi ci muoveremo prima e loro arriveranno più tardi in taxi. Poco prima di andarcene, un’altra ragazza dall’aria spaventata si avvicina a una delle mie accompagnatrici e la chiama da una parte. Parlano per un po’. All’improvviso la ragazza fa cenno di no con la testa e se ne va. La mia accompagnatrice mi dice: “È un peccato che tu non possa ascoltare la sua testimonianza. Ha una storia terribile. Le ho proposto di raggiungerci in albergo, ma non può. Sono sicura che ha paura”.
In albergo cominciamo la giornata di interviste. La prima è a Diana.
“La polizia migratoria è cattiva con noi venezuelane. Ci umilia. Un giorno ci ha portate in un campo e ci ha gettato addosso dell’acqua come se fossimo animali”, dice. “A volte gli agenti ci chiudono in una cella per tutto il giorno. La gente passa in moto o in autobus e ci guarda. Molti ci sputano addosso, ci tirano la frutta e ci dicono: ‘Venezuelane di merda, tornate nel vostro paese’. I poliziotti ridono”.
La cella è una recinzione fatta con sei transenne, come quelle che si usano per gli stadi: due per i lati lunghi e una per i lati corti. Le autorità l’hanno fatta sistemare in mezzo alla strada, vicino al parco Mercedes Ábrego. Un monito costante. Anche se la prostituzione in Colombia non è un reato, le donne che la esercitano, in particolare le migranti, vengono chiuse lì.
“Ci prendono a bastonate, ci ammanettano, urlano. Ci mettono in piazza così gli altri possono ridere di noi e riprenderci con il telefonino”, afferma Diana.
La Colombia nega di avere un problema interno di tratta di persone
“Avete mai denunciato il fatto?”.
“No, abbiamo paura”, dice. “E poi i poliziotti ci ripetono che non abbiamo diritti, perché siamo venezuelane. Un giorno ho detto a un agente: ‘Ho bisogno di lavorare, ho un figlio e devo sfamarlo’. Lui mi ha risposto: ‘Peggio per te, io non ho figli. Tu non fai parte della mia famiglia e se voglio ti spezzo una gamba’. Me l’ha detto davanti alle altre donne”.
Una delle ragazze mi racconta che all’inizio del 2020 Jairo Yáñez, che era appena stato eletto sindaco di Cúcuta, ha visitato il parco Mercedes Ábrego e ha visto la polizia che rinchiudeva alcune donne nella “cella”. Yáñez si era presentato come il candidato del cambiamento.
Chiedo a Diana se sa qualcosa di quest’episodio.
“Sì, quel giorno ero vicina al parco. I poliziotti ci hanno chiuse nella cella dalle otto di mattina alle sei del pomeriggio, il sindaco ci ha viste e non ha fatto niente. Anzi. Ha detto che non era un luogo adatto alla prostituzione, quindi la cella si poteva lasciare dov’era. È ancora lì”, dice.
“Hai sentito le parole del sindaco con le tue orecchie?”, le chiedo.
“Ha proprio detto che avrebbe fatto ‘pulizia’, che non avrebbero lasciato prostitute nella zona”, spiega Diana.
Poi le chiedo se qualcuno le ha mai offerto di lavorare fuori città. Risponde di sì, ma che ha paura di accettare.
“Ad alcune mie amiche hanno proposto un lavoro lontano da Cúcuta. In realtà gli hanno offerto molte cose, perfino la garanzia che avrebbero pagato il biglietto per il viaggio. Poi però si è scoperto che la realtà è diversa: il costo del biglietto va rimborsato e bisogna pagarsi vitto e alloggio. Altrimenti si paga una multa. Insomma, non si finisce mai di pagare i debiti e alla fine le donne non riescono ad andarsene da lì”.
“A cosa ti riferisci quando dici ‘lì’?”.
“Mi hanno detto che era un paesino vicino a Bucaramanga”, afferma.
Nel rapporto dell’istituto di medicina legale le denunce delle sparizioni hanno uno schema ricorrente: le vittime sono donne a cui era stato offerto di lavorare come baby-sitter, badanti, cuoche o guide turistiche fuori da Cúcuta. Anche le destinazioni sono le stesse: Arauca, Puerto Santander, Bucaramanga e Santa Marta. Nei primi giorni dopo il trasferimento le ragazze parlano con le famiglie su WhatsApp, poi all’improvviso smettono di rispondere ai messaggi, bloccano i contatti o disattivano i numeri.
Affare redditizio
Mentre Diana parla, qualcuno bussa alla porta facendoci trasalire. Un cameriere si affaccia e mi fa segno di uscire. Una delle donne dell’organizzazione che mi sta aiutando mi accompagna fuori dalla stanza. Quando arriviamo nel corridoio, l’impiegato dell’albergo mi spiega che una ragazza in strada ha chiesto di noi, vuole parlare con le “giornaliste”. Ci spaventiamo: nessuno sa che siamo qui. Ci affacciamo dalla finestra e vediamo la ragazza che poco prima aveva detto alla mia collega di non poter venire. Si chiama Gabriela.
I sentieri illegali più pericolosi si trovano in due aree: quella che collega San Antonio del Táchira a La Parada, nella zona di Villa del Rosario, un comune dell’area metropolitana di Cúcuta; e quella che collega il comune venezuelano di Ureña con un quartiere di Cúcuta chiamato El Escobal.
Tutte dicono che la seconda strada è più pericolosa, per questo preferiscono entrare in Colombia da San Antonio. Su uno dei sentieri illegali di Ureña sette uomini hanno stuprato Gabriela.
“Non fanno tutte le loro schifezze in una volta. Aspettano di avere a disposizione più donne. Ti tengono lì, ti dicono di aspettare. Nel pomeriggio alcuni uomini a volto coperto arrivano con i coltelli e ti portano via. Ti conducono sui sentieri al confine, tra la boscaglia. A quel punto ti spiegano che se non vuoi morire non devi fare resistenza”, dice.
Anche Verónica parla di uomini con il volto coperto, li ha visti quando hanno violentato la donna che chiedeva aiuto.
“Mi sono affacciata sul ponte ed erano lì sotto, nascosti tra i cespugli. Erano in tanti”, dice. “Avevano dei coltelli e parlavano con la polizia”.
“Con la polizia colombiana o venezuelana?”, chiedo.
“Entrambe. Per questo dico che è un giro d’affari enorme. Quel giorno c’erano poliziotti sia venezuelani sia colombiani”.
“Credi che la polizia migratoria e le autorità colombiane sappiano che le donne subiscono violenza?”.
“Secondo me sì, perché in ballo ci sono gli affari. Ho molta paura della polizia migratoria. Ogni mattina prego dio che mi dia un altro giorno da vivere”, dice Verónica.
◆ Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), a maggio del 2020 più di 1,8 milioni di venezuelani vivevano in Colombia. Di questi, il 56,6 per cento non ha un permesso di soggiorno regolare. Per la fine del 2020 il numero di migranti venezuelani nel paese vicino dovrebbe raggiungere i 2,4 milioni. Dall’inizio del 2014, con l’aggravarsi della crisi economica in Venezuela, più di quattro milioni di persone hanno lasciato il paese.
“Ma senti che per essere qui e fare quello che fai rischi in ogni momento di morire?”.
“Sì”, risponde. “Alcune mie amiche sono partite per lavoro. Avevo consigliato a una di loro di non andare, ma mi ha risposto: ‘Devo farlo perché ho tre bambini in Venezuela, devo mandargli i soldi per comprare da mangiare, per i vestiti e le medicine’. Dopo qualche giorno ho saputo che era scomparsa e da quel momento non ho più avuto sue notizie”.
“L’hai conosciuta qui?”.
“Sì, lavorando al parco Mercedes. Lei è partita di sua volontà. Le hanno pagato il viaggio, le hanno detto che le avrebbero dato anche la colazione, il pranzo e la cena, che avrebbe potuto avere un giorno intero libero. I primi giorni la sentivo dal telefono di una sua amica. Mi ha spiegato che il capo non le permetteva di avere il cellulare, infatti mi scriveva sempre da numeri diversi. ‘Sto bene, tranquilla, sto bene’, diceva. Ripeteva sempre la stessa cosa: che andava tutto bene e dovevo stare tranquilla. Poi ho saputo che se ne voleva andare, ma non ce l’ha fatta e l’hanno fatta sparire”.
“Dove la tenevano?”, chiedo.
“Non mi ha mai detto nulla. Mi diceva che non poteva parlare molto”.
“E chi ti ha detto che era scomparsa?”.
“Un’altra ragazza che è riuscita a scappare ed era con lei. La ragazza quando è arrivata a Cúcuta era piena di lividi, graffi e tagli. Si è presentata al parco Mercedes in uno stato spaventoso: nuda, scalza, piena di ferite. Ma ce l’ha fatta, la mia amica no”, conclude Verónica.
In Colombia la tratta di persone sembra invisibile. La legislazione è flessibile e le autorità non sempre hanno chiaro quando un determinato atto costituisce reato. Quattro verbi descrivono la tratta: catturare, trasferire, accogliere o ricevere una persona all’interno del territorio nazionale o all’estero per sfruttarla. La tratta è una transazione commerciale.
Come spiega Liliana Forero Montoya, una psicologa esperta di violenza sessuale, “trattare significa commerciare. La tratta di persone viene spesso confusa con il sequestro, la truffa o l’inganno per indurre qualcuno a fare qualcosa, ma non è così. Semplicemente, la tratta è sfruttare in qualche modo una persona. Trasferirla da un posto all’altro o accoglierla per sfruttarla. Ci sono vari tipi di sfruttamento: sessuale, lavorativo, per l’estrazione di organi o per l’accattonaggio. Il reato di tratta di persone è stato creato a livello internazionale per evitare che gli esseri umani siano considerati una merce”. Ma quello che sembra chiaro dalle parole di Forero Montoya non lo è per chi ha l’obbligo di prevenire il reato. Le autorità, soprattutto alla frontiera, non capiscono che uno solo di questi quattro verbi – catturare, trasferire, accogliere o ricevere – basta affinché si configuri il reato.
Un bottino
Il mercato illegale che si sta espandendo al confine tra la Colombia e il Venezuela è la tratta di persone finalizzata allo sfruttamento sessuale, e le migranti venezuelane sono le vittime principali.
Alla fine del 2019 il governo di Bogotá ha detto che in Colombia c’erano stati 615 casi di tratta nei sei anni precedenti, e tra i luoghi più colpiti non c’era il confine con il Venezuela. L’allarme è scattato nei dipartimenti di Valle del Cauca e Antioquia e nella capitale, dove ci sono i principali aeroporti internazionali del paese. “La Colombia nega di avere un problema interno di tratta di persone e dà visibilità alle vittime già identificate che arrivano da fuori”, spiega Forero Montoya. “In Colombia il sostegno alle vittime è pensato solo per i colombiani sfruttati all’estero. Ma non si fa attenzione alla tratta interna, e ancora meno alla tratta di persone migranti”.
Secondo un rapporto della Banca mondiale, ad aprile del 2019 quasi quattro milioni di persone avevano lasciato il Venezuela a causa della crisi economica, sociale e politica. Di queste, 1,2 milioni sono arrivate in Colombia. Le donne se ne vanno per cercare condizioni di vita migliori e nel paese vicino rischiano di morire: subiscono violenza, sono maltrattate, diventano vittime di tratta, spariscono o vengono uccise. I gruppi criminali e le autorità le considerano un bottino.
Ormai è sera. Alcune donne sono andate via in taxi. Mi offro di accompagnare al parco Mercedes Ábrego quelle che sono rimaste, vivono tutte nei dintorni. Accettano il passaggio, ma mi chiedono di lasciarle in una strada laterale. È meglio che nessuno le veda con me.
Mi fermo un isolato prima del parco. Le donne scendono e ognuna prende una strada diversa. Qualche minuto dopo, mentre sto registrando un video nel parco, vedo Gabriela che si allontana. Immagino che sia stanca e che voglia andare a dormire.
Un’auto nera frena di scatto e le si avvicina. Il conducente le dice qualcosa, Gabriela piega la testa per ascoltarlo e poi alza il braccio e indica un punto davanti a sé. Continua a camminare, ma l’auto non se ne va. Gabriela ha l’aria stanca, ha pianto tutto il giorno. Ha tirato fuori, con rabbia e ribrezzo, la storia del suo stupro. L’uomo al volante insiste. Allora lei rallenta, fa un respiro profondo, si gira completamente verso di lui e gli parla piegandosi fino a poggiare i gomiti sul finestrino. Non riesco a sentire cosa si dicono, ma la conversazione dura poco. Poi Gabriela si alza, l’auto resta ferma e lei si sposta dal lato del passeggero. Sta per aprire la portiera, ma prima si guarda intorno e si gira verso il parco, dove sono io. L’osservo e mi sembra che anche lei mi stia guardando, ma mi sbaglio. Gabriela cerca solo un paio di occhi amici che siano testimoni di quello che sta per fare, che la vedano un’ultima volta. A quel punto apre lo sportello e sale in macchina.
Cosa dirà la gente di Gabriela se un giorno sarà trovata morta?
Io almeno potrò raccontare che era una persona buona e cercava di sopravvivere in una situazione disumana. ◆ fr
**Andrea Aldana **è una giornalista colombiana freelance. Fa parte del comitato editoriale di Universo Centro, un mensile indipendente prodotto a Medellín da un collettivo di giornalisti e distribuito in varie città del paese.
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Questo articolo è uscito sul numero 1376 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati