Di questi tempi durante qualunque visita medica è molto probabile sentire la parola “infiammazione”. “L’infezione ha danneggiato il suo intestino”, mi ha spiegato recentemente un gastroenterologo, “tecnicamente si tratta di un’infiammazione”. Un altro medico, leggendo il referto di una biopsia, mi ha detto: “Buone notizie, non è endometriosi né tumore, è solo un’infiammazione cronica aspecifica”. Quando gli ho chiesto cosa significasse, mi ha suggerito di consultare la patologa, che a sua volta mi ha spiegato di aver semplicemente classificato il tessuto in base al manuale.

Semplicemente o semplicisticamente? Non sono forme infiammatorie anche l’endometriosi e il cancro? Perché tutte queste risposte significano cose così diverse? Come avevano fatto a capire che era cronica? Dovevo liberarmene? Stressarmi per questo avrebbe peggiorato la mia infiammazione? L’infiammazione può in realtà essere benefica in piccole dosi? È una entità specifica?

A differenza di quella cronica, il tipo di infiammazione acuta descritta nei manuali di medicina ha una lunga storia. Nella cultura medica occidentale è sempre stata intesa come la risposta a una lesione o un’infezione, “il meccanismo del corpo per mantenere la propria integrità in risposta a lesioni macroscopiche o microscopiche”, come dicono la psicologa sanitaria Jeanette Bennett e i suoi colleghi.

Da una distorsione alla caviglia a un taglio infetto, l’infiammazione acuta è il modo principale in cui il nostro corpo reagisce e si ripara. Classicamente è stata definita in base a cinque segnali fondamentali: arrossamento, gonfiore, calore, dolore e perdita di funzione. I progressi in microscopia, biologia cellulare, immunologia e campi correlati hanno continuato a perfezionare questo paradigma, e oggi l’infiammazione è descritta come l’attivazione di cellule immunitarie e non immunitarie, mediatori e risposte sistemiche di risparmio energetico dopo lesioni, infezioni o malattie, che influenzano una serie di sistemi corporei, sonno, appetito e comportamento.

Questa versione acuta dell’infiammazione, sebbene spesso dolorosa, ha una funzione protettiva: il gonfiore attira i “difensori” immunitari verso la ferita, il calore rende l’ambiente ostile ai patogeni e il dolore costringe il corpo a riposare affinché possa ripararsi. Le antiche civiltà trattavano queste infiammazioni con piante contenenti quelli che la scienza oggi chiama salicilati, i composti usati nell’aspirina. Gli specialisti dell’apparato muscoloscheletrico studiano come ottimizzare la guarigione con temperatura, pressione, cambiamenti comportamentali e terapie chimiche. Oggi il mercato globale dei farmaci antinfiammatori ammonta a centinaia di miliardi di dollari all’anno. E il fatto che questa spiegazione dell’infiammazione acuta sembri sensata sia nella medicina sia fuori di essa è la prova di quanto sia culturalmente accettata.

L’anomalia è l’infiammazione cronica. A differenza dei segni visibili di quella acuta, l’infiammazione cronica è di basso livello – ribolle silenziosamente ma a volte si accende in modo drammatico – ed è sistemica, cioè colpisce l’intero corpo invece di essere circoscritta al sito della lesione. Sembra accompagnare molte malattie croniche, sia come causa sia come effetto. L’infiammazione cronica ha fattori scatenanti, cronicità, gravità, sintomi e biomarcatori diversi da quelli dell’infiammazione acuta, così diversi che a prima vista sembrano non correlati. Ciò che li lega – e spiega perché in entrambi i casi si parla di infiammazione – è la risposta immunitaria: i globuli bianchi entrano in azione, rilasciando citochine che inviano segnali chimici e alterano i tessuti. Nell’infiammazione acuta quest’attività è così importante per la guarigione che in alcuni campi della medicina l’uso degli antinfiammatori è sconsigliato. Nell’infiammazione cronica il processo non si interrompe mai completamente, creando uno stato persistente che può danneggiare gradualmente il corpo invece di ripararlo.

Jenna Gang, Gallery stock

L’infiammazione cronica complica il quadro. Raramente mostra i consueti segni di arrossamento, gonfiore o calore, e può manifestarsi senza una causa chiara: a volte è collegata a infezioni o lesioni, ma spesso non lo è. Alcuni ricercatori suggeriscono che non sia tanto una malattia quanto un “percorso fisiologico attraverso cui l’ambiente delle prime fasi della vita influenza l’andamento della salute in età adulta”. Secondo questa teoria, l’esposizione precoce allo stress, la cattiva alimentazione o l’inquinamento possono condizionare le risposte immunitarie del corpo per tutta la vita, preparandolo a reagire in modo eccessivo o a rimanere attivo anche quando non esiste alcuna minaccia.

Anche i test offrono poche certezze: marcatori ematici come la proteina C-reattiva (Pcr) indicano se è in corso un’infiammazione ma non dove o perché, e le letture possono variare a seconda del tipo di test, della sua sensibilità e di come vengono interpretati i risultati. Come osserva la nutrizionista Catharine Ross, usare la stessa parola per le forme acute e per quelle croniche non permette di distinguere i processi biologici che le causano.

Eppure le conseguenze dell’infiammazione cronica sono gravi. L’elenco dei disturbi che possono essere raggruppati sotto l’etichetta “malattie infiammatorie croniche” è sorprendentemente lungo: obesità, asma, malattie cardiache, intestino irritabile, alzheimer, cancro, artrite, broncopneumopatia cronica ostruttiva, endometriosi, ictus, hiv/aids, diabete di tipo 2, fibromialgia e perfino alcune forme di depressione e schizofrenia. Molte di queste malattie stanno aumentando in tutto il mondo, e rappresentano “alcune delle più significative emergenze biomediche del nostro tempo”, afferma l’immunologo Martin Trapecar. Secondo il ricercatore David Furman e i suoi colleghi, complessivamente le condizioni infiammatorie croniche rappresentano “la principale causa di morte al mondo”.

Non c’è da meravigliarsi se oggi si parla di una “epidemia silenziosa” di infiammazione cronica. I governi sono esortati a promuovere “stili di vita antinfiammatori” intervenendo su dieta, attività fisica, stress, sonno, infrastrutture e disparità sociali. Gran parte di questi consigli somiglia molto a linee guida di sanità pubblica vecchie di decenni sull’obesità e sulle malattie non trasmissibili legate all’alimentazione, che finora hanno avuto poca presa sulla popolazione. Gli influencer sui social media offrono una miriade di consigli su tutto ciò che può essere antinfiammatorio. Esperti di campi diversi come la chiropratica, la gastroenterologia e la psicologia inseriscono l’infiammazione nelle loro teorie, dando spiegazioni e consigli sulle migliori pratiche.

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Ma nonostante tutta questa attenzione – e nonostante secoli di studi medici – l’infiammazione nella sua forma cronica continua a sfuggirci. Non mostra i segnali tipici, può non causare sintomi evidenti e perfino sfuggire ai test. I suoi fattori scatenanti sono spesso incerti, i suoi biomarcatori inaffidabili, e gli scienziati discutono ancora su quale ruolo abbia realmente: è una difesa sbagliata o un tentativo maldestro del corpo di guarirsi? Con l’aumento delle anomalie, il modello classico dell’infiammazione come processo di guarigione a breve termine comincia a cedere. Forse non siamo davanti a un semplice enigma medico, ma all’inizio di una crisi di paradigma, di un disfacimento del quadro che un tempo definiva l’infiammazione stessa.

Effetti comportamentali

Con il progredire della ricerca, le contraddizioni legate all’infiammazione cronica si sono moltiplicate. Clinicamente non è una categoria coerente né un’area specialistica. Per esempio, la malattia coronarica è collegata all’infiammazione, eppure “non si usano farmaci strettamente antinfiammatori per trattarla”, spiega il cardiologo Robert Harrington. L’endometriosi è considerata un’infiammazione, ma i nuovi trattamenti danno comunque la priorità all’intervento chirurgico e agli ormoni invece di affrontare l’infiammazione sistemica. Altre condizioni, come l’artrite, sono invece trattate con gli antinfiammatori. Nonostante l’onnipresenza del termine, i pazienti con condizioni infiammatorie croniche raramente si rivolgono a un immunologo, e la maggior parte dei sistemi sanitari nazionali non riconosce l’infiammazione cronica come una categoria diagnostica distinta.

Il quadro si fa ancora più complesso quando l’infiammazione cronica si manifesta in contesti che escono dalle normali categorie biomediche. Secondo alcuni studi può influenzare il comportamento sociale, promuovendo l’isolamento o la ricerca di specifiche affinità, a seconda delle circostanze. In piccole dosi può scatenare “comportamenti da ammalato” come la stanchezza e il desiderio di isolamento, dice la psicologa Emily Lindsay. Secondo altre ricerche contribuisce a influenzare la salute a lungo termine attraverso meccanismi epigenetici. Il microbiota è sempre più spesso considerato un fattore chiave, capace di accelerare o mitigare i processi infiammatori. E sono state anche documentate differenze legate al sesso: le donne sono molto più esposte alle condizioni infiammatorie croniche in termini di incidenza, prognosi e risposta al trattamento.

Di fronte a questo groviglio di anomalie alcuni ricercatori hanno cominciato a tracciare nuove ipotesi. Una riformula l’infiammazione come un segnale all’interno di un sistema dinamico di cicli di retroazione che collegano corpo, ambiente e società. Un’altra la interpreta come un meccanismo di controllo omeostatico, suggerendo che la sua maggiore frequenza è segno che il sistema corporeo è sopraffatto dal mondo contemporaneo. Secondo altri il problema potrebbe risiedere nell’architettura stessa del modello biomedico: isolando la malattia in organi e specialità, la medicina occidentale potrebbe non essere in grado di comprendere fenomeni che riguardano l’intero corpo. Alcuni chiedono di ampliare le nostre teorie sul sistema immunitario stesso, mentre altri spingono nella direzione opposta, resistendo al cambiamento.

Il superamento di un vecchio paradigma non è quasi mai completo o immediato

L’unica cosa chiara è che i pezzi del puzzle non corrispondono più all’immagine sulla scatola. Le osservazioni e le esperienze dei pazienti resistono a una spiegazione, le vecchie regole della “scienza normale” si confondono, i consigli sono messi in discussione e le contraddizioni si accumulano. Con l’aumento della pressione sociale per la riforma delle condizioni infiammatorie croniche e dei costi per i sistemi sanitari, la delusione e il disaccordo all’interno della medicina si aggravano. Il risultato è una crisi: la sensazione che il paradigma prevalente dell’infiammazione stia cedendo.

Prima della rivoluzione

Potrebbe essere il segnale di una rivoluzione scientifica? Nel suo libro del 1962 La struttura delle rivoluzioni scientifiche (Einaudi 2009) il filosofo Thomas Kuhn mette in dubbio la convinzione che la scienza progredisca in modo costante e incrementale, accumulando conoscenza attraverso esperimenti e dati. Kuhn sostiene invece che la scienza procede per cicli. Per lunghi periodi i ricercatori praticano quella che lui chiama scienza normale, risolvono i problemi usando le regole di un paradigma accettato: il quadro condiviso di teorie, metodi e ipotesi che determina come un campo di ricerca interpreta il mondo.

È come mettere insieme un puzzle: l’immagine sulla scatola rappresenta il paradigma, e il lavoro consiste nel mettere i pezzi al posto giusto e farli combaciare. Ma quando troppi pezzi non si incastrano più, quando le anomalie si accumulano e l’immagine stessa comincia a sembrare sbagliata, il paradigma vacilla. A quel punto scatta una rivoluzione: vecchie ipotesi crollano, nuove ne prendono il posto e le comunità scientifiche si riorganizzano attorno a una visione del mondo diversa.

Secondo Kuhn il progresso scientifico si svolge in tre fasi. Nella prima, i periodi di scienza normale si susseguono con successo seguendo un paradigma stabile, in cui le anomalie sono spesso liquidate come errori, pseudoscienza o rumore di fondo. Nella seconda, le anomalie si moltiplicano finché non possono più essere ignorate, generando uno stato di crisi. Nella terza si arriva alla soluzione adottando un nuovo paradigma che riformula il problema, stabilisce un nuovo enigma da risolvere e cambia le domande stesse che la scienza si può porre. Il superamento di un vecchio paradigma, osserva Kuhn, non è quasi mai completo o immediato: tende a verificarsi solo quando ci sono un’alternativa valida e una crisi che determina un’urgenza. Non tutti gli scienziati accettano il cambiamento, e non tutti si adattano, ma il baricentro si sposta. Come osserva la dottoressa Sophia Samuel, quando in medicina si verifica un cambiamento di paradigma “ciò che pensavamo di sapere viene riesaminato alla luce di nuove informazioni e forse riformulato in modo completamente diverso”. Un nuovo paradigma porta con sé nuovi metodi e nuove discipline. Si pongono nuovi tipi di domande e sono necessari nuovi tipi di ricercatori e operatori. Specialmente in medicina, gli effetti si sentono anche fuori dal laboratorio: le categorie mediche cambiano, i trattamenti si adattano, la fiducia dei pazienti vacilla e intere aree della vita e della pratica, una volta considerate marginali, possono diventare centrali per la salute.

Il microbiota è un esempio recente di questo fenomeno. Nel diciannovesimo secolo, con l’ascesa della teoria dei germi, i microbi erano considerati nemici del corpo. Negli anni dieci del duemila, dopo decenni di crescenti anomalie, è arrivato un nuovo paradigma: i microbi sono stati riconosciuti non più solo come minacce, ma anche come alleati importanti. Questo cambiamento ha introdotto nuove professioni, centri di ricerca interdisciplinari, prodotti per la casa, pratiche cliniche e perfino scelte politiche. I medici hanno cominciato a pensare meno all’eradicazione e più a quella che Samuel chiama una “simbiosi negoziata”, che bilancia la resistenza antimicrobica con la protezione del microbiota. Le aziende hanno cominciato a sfruttare l’opportunità creando nuovi prodotti, dalle compresse probiotiche agli alimenti prebiotici. In breve la teoria del microbiota è diventata così diffusa che Forbes ha definito quel periodo “il decennio del microbiota”.

Alcuni segnali suggeriscono che l’infiammazione potrebbe subire una trasformazione simile. La scienza normale finora ha funzionato bene con il modello acuto, spiegando il gonfiore, il dolore e la riparazione. Ma quella cronica sta suscitando contraddizioni che il paradigma dominante fatica a spiegare.

Il quadro tracciato da Kuhn non è perfetto: alcuni criticano la sua vaghezza e la tendenza a dividere la scienza in fasi troppo ordinate. Eppure rimane una delle teorie più influenti sull’evoluzione del progresso scientifico. Potrebbe aiutarci ad anticipare una rivoluzione scientifica riguardo all’infiammazione? E cosa ci guadagneremmo?

Un vantaggio potrebbe essere un nuovo modo di comprendere la malattia e la salute stessa, che ci fornisca finalmente gli strumenti per affrontare le condizioni croniche del nostro tempo. Prendiamo l’obesità, oggi considerata sia una malattia cronica sia un fattore di rischio che predispone a una serie di altre malattie. Per molto tempo è stata considerata una questione di squilibrio energetico, e gli interventi si sono concentrati sulla dieta e sull’esercizio fisico. Questo ha provocato stigma sociale, senso di colpa e stress tra i pazienti, i cui stili di vita finiscono sotto esame. E non ha portato a una riduzione dell’obesità o delle malattie a essa correlate, anzi potrebbe perfino aver aggravato il problema. Ma ora che l’obesità è riconosciuta come una condizione infiammatoria di basso livello, una rivoluzione scientifica potrebbe aprire nuove strade per il trattamento.

Oppure prendiamo l’alzheimer, una malattia neurodegenerativa progressiva generalmente attribuita a depositi anomali chiamati placche amiloidi e grovigli tau nel cervello. I trattamenti attuali cercano di rallentare il progredire dei sintomi colpendo queste placche e nodi. Ma fin dagli anni novanta i ricercatori hanno rilevato legami tra l’alzheimer e l’infiammazione, e stabilito che quest’ultima è al tempo stesso causa e conseguenza della malattia. Quando un paradigma non è dominante, passare dalla teoria alla pratica richiede tempo, ma trent’anni dopo gran parte dei farmaci usati nei trial clinici sono antinfiammatori. Questi interventi stimolano il sistema immunitario o prendono di mira l’infiammazione cronica sistemica, e possono avere benefici collaterali su altri disturbi.

Fin dagli anni novanta sono stati rilevati legami tra l’alzheimer e l’infiammazione

Dal cancro alla psoriasi, i pazienti hanno a che fare da molto tempo con quelle che oggi chiamiamo “condizioni infiammatorie croniche” . Alcune sono state affrontate in modo efficace, ma i trattamenti presentano sempre delle incognite. Molti pazienti si sentono curati in modo inadeguato, ignorati dalla comunità medica e discriminati dai datori di lavoro e dai sistemi sanitari.

Prendiamo l’endometriosi, una condizione infiammatoria cronica che si ritiene colpisca una donna su dieci. La diagnosi può richiedere anni, e i sintomi possono essere minimizzati o ignorati. Le opzioni di trattamento variano, con innumerevoli testimonianze di prove ed errori, successi e fallimenti, confusione e delusione. Molte di queste esperienze erodono la fiducia nella medicina, ma la maggior parte dei professionisti non è né misogina né impreparata. Si potrebbe piuttosto dire che tutte le componenti del sistema sanitario – in particolare i pazienti – soffrono i danni collaterali di una crisi paradigmatica.

Spazi autogestiti

Questa frustrazione può essere lo stimolo per cercare nuove soluzioni. All’inizio del diciottesimo secolo Mary Wortley Montagu si ispirò alla sua esperienza con il vaiolo e all’osservazione delle donne turche che praticavano l’inoculazione per promuovere la stessa procedura in Inghilterra. Allora la malattia era spiegata con la teoria del miasma: si credeva che derivasse dai vapori o dall’aria cattiva proveniente dalle paludi, dalla materia in decomposizione o dallo sporco.

Questa idea era legata a un modello medico ancora più antico, la teoria dei quattro umori, secondo cui la salute dipendeva dall’equilibrio di quattro fluidi corporei: sangue, flegma, bile gialla e bile nera. Si credeva che ci si ammalasse quando questi fluidi non erano più in equilibrio a causa della dieta, dell’ambiente o dell’esposizione all’aria corrotta, e non si pensava che la malattia potesse avere una causa unica e identificabile, o che intervenire sul corpo potesse offrire protezione in futuro.

La vaccinazione ha sconvolto la logica prevalente. Esponendo deliberatamente le persone a una piccola dose di virus del vaiolo, le donne turche avevano dimostrato che la malattia poteva essere provocata e prevenuta in modi precisi e ripetibili. La decisione di Montagu di vaccinare i propri figli, e la sua difesa in tribunale, portarono all’introduzione della pratica nella medicina occidentale. La vaccinazione suggerì la possibilità che la malattia derivasse da agenti specifici che potevano essere gestiti direttamente e contribuì a gettare le basi per un cambiamento di paradigma nel modo in cui la malattia veniva intesa.

Una rivoluzione dal basso potrebbe essere in atto anche oggi. I ragionamenti dei pazienti sull’infiammazione cronica sono per alcuni aspetti più avanzati di quelli dei medici, e sicuramente più aperti a nuove prospettive. Sono organizzati in comunità e gruppi, facilitati dai social media. Su Facebook i gruppi sull’endometriosi hanno più di 250mila iscritti. Attraverso queste reti i pazienti condividono informazioni, sviluppano ipotesi, testano interventi, confrontano i risultati e coniano perfino nomi di nuove malattie.

Il caso del covid lungo è stato particolarmente significativo. All’inizio della pandemia di covid-19, le persone con sintomi persistenti erano escluse dai test clinici e dagli studi perché non rientravano nel paradigma prevalente delle malattie infettive. Ma su internet confrontavano esperienze, documentavano esempi di stanchezza, annebbiamento mentale e infiammazione, e ribadivano che ciò che stavano vivendo non era solo ansia o debolezza, ma una nuova sindrome. L’hanno chiamata long covid, e hanno costretto la medicina a riconoscerla e studiarla. Quella che era nata come una categoria inventata dai pazienti ha rapidamente dato il via a programmi di ricerca, finanziamenti e nuovi quadri diagnostici.

Le comunità di pazienti spesso si muovono più velocemente delle istituzioni scientifiche. Non solo generano conoscenze per se stessi, ma a volte spingono la medicina a recuperare terreno. Se la scienza è davvero in crisi sull’infiammazione, potrebbe essere in questi spazi guidati dai pazienti che sorgeranno i primi contorni di nuovi paradigmi.

Poi ci sono i medici. Alcuni, ancorati alla vecchia visione, possono liquidare prospettive che esulano dal paradigma dominante. Ma molti altri si affrettano a mettersi al passo con le nuove scoperte e a tradurle in pratica, spiegando ai pazienti che l’incertezza c’è ancora: la ricerca è incompleta, le linee guida e l’istruzione sono indietro e ci sono poche cure o soluzioni miracolose. Anche i ricercatori rientrano in questo processo. Alcuni formano nuove comunità per esplorare paradigmi emergenti, anche se solo pochi di questi progetti avranno effetti concreti. Altri rimangono intrappolati in uno stato di sospensione. E alcuni, le cui identità e carriere sono profondamente intrecciate con l’ordine dominante, possono esitare a rivedere le loro idee, scartare approcci innovativi o difendere metodi superati per proteggere la vecchia visione del mondo.

Se affronteremo con successo questa crisi, ciò che ora sembra disordine potrebbe segnare l’alba di una rivoluzione medica. Un giorno potremmo dire che gli anni venti del duemila sono stati il decennio dell’infiammazione. ◆ bt

Amy K McLennan è un’antropologa medica australiana. Insegna alla Anu School of cybernetics di Canberra.

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Questo articolo è uscito sul numero 1645 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati