All’inizio di febbraio sei inquirenti italiani sono arrivati al Cairo dopo la scoperta del corpo martoriato di Giulio Regeni, un dottorando italiano di 28 anni. Non sembravano avere molte possibilità di risolvere il mistero della sua scomparsa e della sua morte. Le autorità egiziane avevano dichiarato alla stampa che probabilmente Regeni era stato investito da un’auto, nonostante i chiari segni di tortura.

Le autorità avevano anche garantito la loro “piena collaborazione”, ma si sarebbe rivelata una promessa vuota. Gli inquirenti italiani sono stati autorizzati a interrogare i testimoni, ma solo per qualche minuto e solo dopo la polizia egiziana. E in ogni caso gli agenti egiziani sarebbero stati presenti anche durante l’interrogatorio degli italiani. I tre poliziotti e i tre carabinieri hanno chiesto di vedere le riprese delle telecamere della stazione della metropolitana dove Regeni aveva usato il cellulare per l’ultima volta, ma gli egiziani hanno lasciato passare diversi giorni e quando alla fine hanno detto di sì ormai la registrazione era stata cancellata. Le autorità egiziane si sono anche rifiutate di consegnare i tabulati telefonici della zona intorno all’abitazione di Regeni (da dove il ricercatore era scomparso il 25 gennaio) e quelli del luogo dove era stato trovato il suo corpo nove giorni dopo.

Uno degli investigatori egiziani, il generale Khaled Shalaby, che ai giornalisti ha dichiarato che sul corpo di Regeni non c’erano segni di tortura, era stato condannato per sequestro e tortura più di dieci anni fa e se l’era cavata con una sospensione condizionale della pena. Forse gli egiziani speravano che il resto del mondo, non potendo indagare direttamente sul caso, non avrebbe avuto altra scelta che accettare le spiegazioni del Cairo. Ma nell’era digitale è diventato più difficile farla franca dopo un omicidio. Dieci giorni dopo il ritrovamento del corpo di Regeni, il sostituto procuratore Sergio Colaiocco e due ufficiali di polizia italiani sono andati a Fiumicello, in Friuli-Venezia Giulia, dov’è nato Regeni, per partecipare al suo funerale. E interrogare molti testimoni riuniti nello stesso posto.

La famiglia aveva chiesto che non ci fossero né telecamere né cartelli di protesta perché voleva una cerimonia sobria. Alla funzione, però, si sono presentate tremila persone, la maggior parte delle quali non è riuscita a entrare nella palestra dove venivano celebrate le esequie. Il funerale ha trasformato una cittadina di meno di cinquemila abitanti in una specie di assemblea generale delle Nazioni Unite. Un omaggio alla vita breve, ma da cittadino del mondo, del ricercatore italiano.

C’erano amici venuti dagli Stati Uniti, dove Regeni aveva studiato durante gli anni delle superiori; dall’America Latina, una regione che conosceva bene; dal Regno Unito, dove si era laureato e specializzato; dalla Germania e dall’Austria, dove aveva lavorato; dall’Egitto, dove dal novembre del 2015 stava facendo una ricerca sui movimenti sindacali per il suo dottorato a Cambridge. “Abbiamo sistemato le persone a casa di amici in base alla lingua che avevano in comune”, ha raccontato la madre di Giulio, Paola Regeni, che è un’insegnante.

Confutare una serie di bugie

La polizia italiana non solo ha avuto la possibilità d’interrogare i testimoni ma ha ricevuto anche un regalo inaspettato. Con un gesto di sorprendente generosità, gli amici e i parenti di Regeni hanno consegnato agli investigatori i loro cellulari e i loro computer. Quei ragazzi della generazione di Facebook, abituati alla trasparenza e a rinunciare a parte della loro privacy per vivere in un mondo connesso, erano pronti a condividere i loro dati personali per fare un po’ di luce sulle circostanze della morte di Giulio. I genitori di Regeni hanno consegnato anche il computer del figlio, che avevano portato via dall’appartamento del Cairo. Questo, in aggiunta alle centinaia di email e di messaggi raccolti dai suoi amici, ha permesso alle autorità italiane di colmare alcune lacune rimaste dopo aver esaminato le prove fornite dal governo egiziano e di ricostruire il mondo di Giulio. Le autorità italiane sono riuscite a ottenere anche un’altra prova fondamentale: il corpo del ragazzo. L’autopsia fatta in Italia ha fornito molte informazioni sugli ultimi nove giorni della sua vita, dal momento della scomparsa a quando il suo corpo è stato trovato in un fosso accanto alla superstrada che va dal Cairo ad Alessandria.

Queste prove quasi sicuramente non basteranno per scoprire il nome degli assassini di Regeni, ma hanno permesso di smascherare una serie di depistaggi e scenari fantasiosi sull’omicidio diffusi da varie autorità egiziane. Inoltre hanno dato la possibilità di fare pressione sul Cairo per ottenere maggiori informazioni.

Si diceva che al Cairo erano stati perquisiti più di cinquemila appartamenti

Di recente gli inquirenti italiani hanno fatto un grande passo avanti: hanno ottenuto dal governo egiziano i tabulati telefonici della zona dove Regeni è stato visto per l’ultima volta e di quella dove è stato trovato il suo corpo. E durante una visita a Roma, all’inizio di settembre, gli investigatori egiziani hanno ammesso che Regeni era sorvegliato dalla polizia. Il governo del Cairo, però, continua a negare di essere coinvolto nella sua morte. Negli ultimi otto mesi gli inquirenti italiani hanno escluso una serie di piste e prove false.

“Sto uscendo”, aveva scritto Regeni alla sua ragazza alle 7.41 del 25 gennaio 2015. Usciva dal suo appartamento per andare alla fermata della metropolitana che si trova nelle vicinanze. Era diretto al centro del Cairo. Questo messaggio è l’ultima traccia che ha lasciato da vivo.

Una data simbolica

Il fatto che Regeni sia scomparso proprio il 25 gennaio non è un caso. Anzi è un indizio cruciale per capire le ragioni del suo omicidio. Era il quinto anniversario della rivoluzione egiziana del 2011 e delle manifestazioni di piazza Tahrir, che avevano portato la primavera araba in Egitto e determinato la caduta del presidente Hosni Mubarak. Quella data ha un significato simbolico per il regime di Abdel Fattah al Sisi: rappresenta il momento traumatico in cui l’esercito, che ha un potere apparentemente inattaccabile, era sembrato sul punto di perdere il controllo. I militari erano stati costretti ad accettare il processo a Mubarak e l’elezione del leader islamista Mohamed Morsi, due fatti che mettevano a rischio il ruolo dell’esercito nella vita egiziana. I militari non potevano permettere che una cosa simile succedesse di nuovo.

Quando a luglio del 2013 Al Sisi e i militari avevano preso il controllo del paese e arrestato Morsi, i sostenitori del leader islamista avevano occupato due piazze e organizzato dei sit-in, nella speranza di ripetere la rivoluzione pacifica di piazza Tahrir. Ma questa volta Al Sisi aveva mandato i carri armati e massacrato almeno mille persone.

Anche se Al Sisi stesso è andato al potere grazie a delle manifestazioni (quelle contro Morsi), sembra vivere nel terrore della folla. Uno dei suoi primi atti ufficiali è stato vietare qualsiasi assembramento non autorizzato di più di dieci persone. E a ogni anniversario della rivolta di piazza Tahrir c’è stato uno spargimento di sangue. Nel 2014 le forze governative hanno ucciso più di sessanta manifestanti in tutto il paese, l’anno dopo i morti sono stati venticinque, tra cui una poeta che cercava di portare una corona di fiori nella piazza.

Dall’esame del computer di Regeni è emerso che nei giorni prima della scomparsa aveva cercato di non dare nell’occhio ed era rimasto nel suo appartamento, sapendo che le autorità egiziane erano nervose per l’anniversario. Si diceva che al Cairo erano stati perquisiti più di cinquemila appartamenti con l’obiettivo di intimidire chiunque avesse in mente di organizzare una manifestazione. I controlli erano concentrati soprattutto in centro e quindi non avevano raggiunto l’appartamento di Regeni, che era nel quartiere di Dokki, a Giza, nella cintura metropolitana dalla capitale egiziana.

Anche se la madre gli aveva chiesto di restare a casa, la sera del 25 gennaio Giulio aveva deciso di andare alla festa di compleanno di un amico. Al tramonto il centro del Cairo sembrava essere tornato alla normalità e Regeni aveva deciso con un altro amico di incontrarsi al loro solito posto, non lontano da piazza Tahrir. Ma quella era la zona dove la polizia era in massima allerta.

Il 21 aprile la Reuters ha riferito che la notte della sua scomparsa Regeni era stato fermato dalla polizia egiziana al centro del Cairo, vicino alla fermata della metropolitana Nasser. Secondo l’agenzia di stampa era stato portato in un commissariato di polizia e trattenuto per mezz’ora, per poi essere trasferito in un ufficio di zona dei servizi della sicurezza nazionale. Il governo egiziano ha categoricamente smentito la notizia, insistendo nel dire che Regeni non era mai stato arrestato. Ma la Reuters ha citato sei fonti indipendenti e anonime, tre della polizia e tre dei servizi segreti. Dopo la pubblicazione dell’articolo il direttore della sede del Cairo della Reuters è stato denunciato per aver diffuso notizie false ed è stato costretto a lasciare il paese. Inoltre di recente la polizia ha fermato, senza un motivo, un reporter egiziano della Reuters.

Argomento delicato

A maggio di quest’anno il ministro dell’interno egiziano ha lasciato involontariamente trapelare un comunicato interno in cui proponeva di vietare alla stampa di parlare del caso Regeni.

Non è chiaro se l’arresto di Regeni fosse stato programmato o se sia stato il risultato di una retata casuale, ma una volta arrestato, le autorità egiziane devono aver fatto presto ad accorgersi che avevano già un fascicolo su di lui. “Non c’è dubbio che lo stavano tenendo sotto controllo”, ha dichiarato Marie Duboc, una studiosa francese che insegna all’università tedesca di Tubinga. Come Regeni, anche lei si era occupata dei sindacati egiziani. “Perfino le ricerche storiche che sembrano innocue, in Egitto sono considerate argomenti delicati”, afferma Duboc.

Quando era al Cairo per il suo dottorato, Duboc ha vissuto sotto sorveglianza dal 2008 al 2010. “Ricevevo strane telefonate dal ministero dell’università, in cui mi chiedevano delle mie ricerche”, ha raccontato. Quando è tornata in Egitto per proseguire il suo lavoro è stata fermata all’aeroporto e le è stato vietato di entrare nel paese. Chiaramente il suo nome era finito in una lista nera. In seguito le è stato permesso di tornare.

Il Cairo, 24 gennaio 2016. Piazza Tahrir alla vigilia del quinto anniversario delle rivolte del 2011 (Khaled Elfiqi, Epa/Ansa)

I sindacati indipendenti sono un argomento particolarmente delicato per il governo di Al Sisi, perché sono considerati la forza scatenante della rivoluzione del 2011. Tradizionalmente i sindacati dei lavoratori sono sempre stati gestiti dal governo: servivano più a controllare i lavoratori che a difendere i loro diritti. Il primo sindacato indipendente è nato nel 2009, ma il movimento è cresciuto dopo le manifestazioni di piazza Tahrir. Con la caduta di Mubarak sono nati un migliaio di sindacati indipendenti e pochi giorni dopo la rivoluzione del 2011 è nata la prima federazione di sindacati indipendenti. Molti difensori della democrazia, non solo in Egitto, compresi Regeni e la sua relatrice, la politologa egiziana Maha Abdelrahman, consideravano il movimento uno sviluppo positivo che avrebbe potuto rafforzare la partecipazione democratica e i diritti dei lavoratori, tutte cose che un regime militare, ostile a ogni fonte di potere autonoma, considera una minaccia.

L’11 dicembre, sei settimane prima di scomparire, Regeni aveva partecipato a un’assemblea pubblica dei sindacati indipendenti. Era rimasto colpito dalla loro energia e combattività e aveva scritto con un amico un articolo, che aveva pubblicato (in italiano) usando uno pseudonimo. Durante l’assemblea era successa una cosa sconcertante: anche se Regeni era in disparte e non era previsto che intervenisse, una donna con il capo coperto si era avvicinata e lo aveva fotografato. Regeni era rimasto turbato e ne aveva parlato con diversi amici. Era il primo segnale che forse lo stavano tenendo d’occhio.

L’oggetto specifico della sua ricerca era il nuovo sindacato indipendente dei venditori ambulanti, una categoria molto numerosa, difficile da controllare e che preoccupava il governo. In Egitto ci sono circa cinque milioni di venditori ambulanti, che vendono di tutto, dagli snack alle bibite, dall’abbigliamento economico agli utensili da cucina. In un paese che ha più di 80 milioni di abitanti, un quarto delle famiglie dipende in qualche modo dal loro lavoro.

E il governo di Al Sisi guarda con sospetto questa categoria. Nel 2011 i venditori ambulanti arrivarono subito in piazza Tahrir. Per lo più si erano limitati a guadagnare qualche soldo vendendo da bere e da mangiare ai manifestanti, ma la loro presenza era considerata dalle autorità come un aiuto e un sostegno alla rivoluzione. Da allora si è cercato senza successo di eliminarli dal centro del Cairo con multe, arresti e violenze. “Dopo i vari tentativi falliti di liberare il centro dagli ambulanti, il governatorato del Cairo ha emesso un’ordinanza molto astuta”, scriveva l’anno scorso Abdelrahman in un articolo. Se non volevano che gli fosse revocata la licenza, i commercianti dovevano denunciare tutti gli ambulanti che si trovavano vicino ai loro negozi. In questo modo le autorità raggiungevano due scopi: obbligavano i negozianti a tenere d’occhio gli ambulanti al posto della polizia e ne facilitavano l’arresto.

Per poter rimanere in strada, a loro volta gli ambulanti dovevano informare la polizia di qualsiasi situazione o persona sospetta. “Una delle cose che sono successe in Egitto negli ultimi anni, e della quale non ci siamo ancora resi conto, è che gli ambulanti sono usati dalla polizia come informatori”, ha detto uno studioso di Cambridge che preferisce rimanere anonimo. Sparsi in tutta la città, gli ambulanti formano una rete di sorveglianza naturale.

Dall’autopsia sono emerse le responsabilità della polizia egiziana

Per il suo dottorato, Regeni era impegnato in quella che viene chiamata una “ricerca partecipativa”, per la quale è previsto che si passi molto tempo sul posto. E probabilmente un giovane straniero che parla arabo e si aggira per ore tra le bancarelle, facendo domande ai venditori sulla loro sindacalizzazione, su come intendono organizzarsi in futuro e su quello che pensano del governo deve sembrare sospetto alla maggior parte degli egiziani, ai quali è stato sempre raccomandato di prestare attenzione alla presenza di eventuali agenti stranieri.

Diecimila sterline

Date le sue buone intenzioni, forse Regeni non si rendeva conto di come poteva essere interpretato il suo comportamento. Nell’autunno del 2015 aveva saputo di un bando di una fondazione britannica per un finanziamento di diecimila sterline a un progetto di sviluppo. Voleva presentare la domanda perché con quei soldi avrebbe potuto mantenersi durante la sua ricerca e aiutare le persone di cui si stava occupando. Ne aveva parlato con uno dei leader del sindacato indipendente degli ambulanti, Mohammed Abdallah, ma lui sembrava interessato ai soldi più che al progetto, e questo non era piaciuto a Regeni, che aveva rinunciato all’idea. Probabilmente la notizia di un giovane straniero pronto a finanziare un movimento interno egiziano aveva portato la polizia a sospettare un complotto che andava stroncato.

Le persone che erano al corrente del lavoro di Regeni in Egitto escludono che potesse aver scoperto qualcosa in grado di minacciare il governo egiziano. “Giulio era andato a parlare con gli ambulanti sei o sette volte”, dice uno dei suoi amici del Cairo. “Probabilmente sapeva una minima parte di quello che qualsiasi informatore avrebbe potuto dire al governo”. Perfino l’assemblea del sindacato indipendente a cui aveva partecipato e su cui aveva scritto era stata autorizzata e sorvegliata dalle autorità. Anche se i sindacati indipendenti sono guardati con sospetto dal regime, il governo ha già fatto di tutto per renderli innocui. Uno dei primi provvedimenti di Al Sisi è stato nominare a capo della loro federazione il ministro del lavoro, con l’obiettivo di portare il movimento sotto il controllo del governo. Proprio questa estate, per ridurre ulteriormente la loro indipendenza, è stata introdotta una nuova norma che impone agli iscritti di registrarsi di nuovo se vogliono essere rappresentati.

Sfidare lo stato d’emergenza

Tuttavia un governo sempre sensibile alle questioni di sicurezza potrebbe aver trovato allarmanti diverse cose in quella riunione e in un articolo uscito sul Manifesto in cui Regeni scriveva: “L’idea è quella di organizzare una serie di conferenze regionali che portino nel giro di pochi mesi ad una grande assemblea nazionale e possibilmente ad una manifestazione unitaria di protesta (‘a Tahrir!’ diceva anche qualcuno tra i presenti)”. L’articolo si chiudeva con alcune frasi che sembravano invitare alla lotta: “In un contesto autoritario e repressivo come quello dell’Egitto dell’ex generale Al Sisi, il semplice fatto che vi siano iniziative popolari e spontanee che rompono il muro della paura rappresenta di per sé una spinta importante per il cambiamento. Sfidare lo stato di emergenza e gli appelli alla stabilità e alla pace sociale giustificati dalla ‘guerra al terrorismo’, significa oggi, pur se indirettamente, mettere in discussione alla base la retorica su cui il regime giustifica la sua stessa esistenza e la repressione della società civile”.

Il 7 gennaio, un mese dopo l’assemblea, Abdallah, il leader del sindacato degli ambulanti, ha denunciato Regeni, e dopo la sua morte ha dichiarato al sito Aswat Masriya che Regeni lo aveva insospettito perché “non faceva domande sugli ambulanti, aveva altre intenzioni”. E ha aggiunto: “Non sono un informatore, ma ho pensato di proteggere il mio paese”.

Il governo egiziano sostiene che in seguito alla soffiata di Abdallah aveva cominciato a indagare su Regeni, ma dopo pochi giorni si era reso conto che il lavoro del ricercatore italiano “non interessava la sicurezza nazionale”.

Durante i nove giorni in cui Regeni risultava scomparso, il suo caso aveva attirato l’attenzione della comunità internazionale. Su Twitter era stato lanciato l’hashtag #whereisgiulio? La vicenda preoccupava anche l’ambasciata italiana al Cairo, che si stava preparando alla visita di una delegazione commerciale guidata da Federica Guidi, all’epoca ministra dello sviluppo economico. Il 3 febbraio, mentre Guidi incontrava Al Sisi e le altre autorità egiziane, l’autista di un furgoncino si è fermato per cambiare una gomma bucata sulla superstrada che va dal Cairo ad Alessandria e ha scoperto il corpo di Regeni.

I primi medici legali egiziani che hanno esaminato il cadavere hanno dichiarato che i numerosi segni di tortura facevano pensare a una “morte lenta”. Ma questa affermazione è stata subito ritrattata. Il vicecapo della polizia giudiziaria di Giza, la cittadina dove è stato trovato il corpo, ha dichiarato all’Associated Press che dalle prime indagini sembrava che Regeni fosse rimasto ucciso in un incidente stradale.

Teorie smontate

Nel frattempo in Italia il caso Regeni aveva attirato una grande attenzione. Nei giorni successivi, con l’aumentare della pressione, le autorità egiziane hanno cominciato a far circolare varie teorie: che Regeni era gay ed era stato vittima di un delitto passionale, che era coinvolto in un affare di droga finito male e che era una spia. Le indagini sono proseguite e queste teorie sono state smontate. Le informazioni in possesso degli investigatori italiani – email, sms e conversazioni su Skype – dimostravano che Regeni aveva una fidanzata in Ucraina. Dal suo computer e dal suo estratto conto bancario non risultavano tracce di contatti con i servizi segreti. “Sul suo conto in banca non c’era quasi nulla”, ha dichiarato Alessandra Ballerini, l’avvocata dei Regeni. “Era un ragazzo che usava il vecchio costume da bagno del padre e lo zaino della madre perché non voleva essere di peso alla famiglia”.

Ma la cosa più importante è stata la seconda e più rigorosa autopsia effettuata in Italia con la tac e l’analisi dei tessuti. Dal rapporto dell’anatomopatologo egiziano risultava che Regeni era stato ucciso con un colpo alla testa. Dall’analisi condotta dai medici italiani è emerso che era stato picchiato ripetutamente sulla testa, ma quei colpi non erano stati fatali. Intorno ai punti in cui era stato percosso, il sangue si era coagulato. E altri tagli, lividi e abrasioni sul corpo mostravano diversi livelli di guarigione. Questo indicava che Regeni era stato torturato ripetutamente. E che erano passati diversi giorni tra la prima tortura, le successive e il momento della morte. Era pieno di tagli e bruciature. Le ossa delle mani e dei piedi erano rotte. I denti spaccati. Sembra che i torturatori avessero inciso delle lettere sul suo corpo, come fa di solito la polizia egiziana.

I medici legali dell’università di Roma hanno usato una tecnica molto precisa per stabilire il momento della morte, che si basa sulla misurazione del livello di potassio nel liquido vitreale degli occhi, e hanno stabilito che Regeni è morto tra le dieci di sera del primo febbraio e le dieci di sera del giorno successivo. “Questo è importante perché significa che è rimasto vivo per almeno sei o sette giorni e in quel periodo è stato torturato più volte”, ha dichiarato uno degli inquirenti italiani. La causa della morte è stata la frattura del collo. La madre di Regeni è convinta che siano stati dei professionisti della tortura.

Il Cairo, 26 marzo 2016. I documenti di Giulio Regeni mostrati dalle autorità egiziane (Ansa)

L’indiscutibilità delle prove emerse dall’autopsia italiana ha costretto le autorità egiziane ad abbandonare tutte le teorie improbabili su una morte accidentale e a cominciare una nuova offensiva sul piano della comunicazione. Improvvisamente Al Sisi ha concesso un’intervista al direttore di Repubblica, pubblicata il 16 marzo, in cui l’argomento principale era il caso Regeni. Dato che dall’autopsia erano emerse le responsabilità della polizia egiziana, Al Sisi ha insinuato che la morte del ricercatore rientrava in un complotto contro l’Egitto. “Perché”, ha chiesto Al Sisi, “il corpo è stato trovato proprio quando il ministro dello sviluppo economico e la delegazione italiana stavano per stringere un accordo che avrebbe rafforzato la collaborazione tra i nostri due paesi?”. Secondo Al Sisi nella cospirazione rientrerebbe anche l’abbattimento dell’aereo russo che nell’ottobre del 2015 sorvolava la penisola del Sinai. “In Egitto il turismo italiano e quello russo sono quasi ridotti a zero. Se colleghiamo questi due episodi, appare chiaro che è in atto un tentativo di danneggiare la nostra economia e di isolare l’Egitto”.

Solo qualche giorno dopo, si è fatto avanti un testimone con una nuova teoria. Un ingegnere egiziano ha detto di aver visto Regeni nel pomeriggio prima della sua scomparsa mentre litigava con un altro straniero vicino al consolato italiano. L’uomo, Mohammed Fawzy, è poi apparso in un programma televisivo per dire che il governo italiano sapeva chi aveva ucciso Regeni ma stava occultando le prove. Facendo eco ad Al Sisi, ha ipotizzato che gli assassini di Regeni cercavano di sabotare i rapporti commerciali tra l’Egitto e l’Italia.

La sua versione della storia è crollata quando l’archivio digitale della procura italiana ha dimostrato che il 24 febbraio Regeni era rimasto a casa tutto il pomeriggio. Aveva parlato su Skype con la fidanzata. Avevano visto insieme un film in streaming e lo avevano commentato a 3.500 chilometri di distanza. E anche i tabulati dei cellulari hanno dimostrato che al momento della presunta lite l’ingegnere non era nei pressi del consolato italiano al Cairo.

Poi il 24 marzo il ministero dell’interno egiziano ha annunciato di aver risolto definitivamente il caso: sulla sua pagina Facebook ha scritto che i responsabili dell’omicidio erano quattro uomini “specializzati nel fingersi poliziotti per rapire gli stranieri e derubarli”. Come prova, il governo presentava una serie di oggetti, tra cui il passaporto di Regeni, la sua carta d’identità italiana e il suo tesserino dell’università di Cambridge. La polizia egiziana non solo aveva trovato i colpevoli, ma li aveva già uccisi. “In una sparatoria tra la banda e gli agenti”, spiegava il ministero, “i criminali erano stati colpiti a morte”.

Dai tabulati telefonici risultava però che al momento della scomparsa di Regeni il capo della banda era a più di cento chilometri dal Cairo. I parenti dei presunti rapitori continuavano a sostenere che erano stati uccisi a sangue freddo, a distanza ravvicinata, in uno scontro a fuoco. Inoltre la tesi del governo non sembrava avere senso: perché una banda di ladri avrebbe conservato i documenti di Regeni, che potevano essere usati per collegarla all’omicidio? E perché avrebbe torturato la vittima di una rapina per una settimana senza chiedere un riscatto o usare la sua carta di credito? Le autorità egiziane hanno ormai ammesso che è improbabile che quei morti avessero a che fare con l’omicidio di Regeni. Anzi, tirando fuori il passaporto e la carta di identità del ricercatore italiano, la polizia egiziana si è di fatto accusata da sola.

La serie di improbabili coperture stava diventando imbarazzante perfino per l’Egitto. In un raro sfogo pubblico, Mohammed Abdel-Hadi Allam, il direttore del quotidiano governativo Al Ahram, ha scritto: “Le ingenue bugie sulla morte di Regeni hanno danneggiato l’Egitto, nel paese e all’estero. Inoltre hanno offerto buoni motivi per pensare che quello che sta succedendo oggi non è diverso da quello che succedeva prima della rivoluzione del 25 gennaio”. Allam ha paragonato il caso Regeni a quello di Khaled Said, un giovane egiziano arrestato nel 2010 in un internet café e picchiato a morte. Le fotografie del corpo scattate dal fratello di Said erano state pubblicare su Facebook ed erano diventate un importante elemento di mobilitazione per i manifestanti che avevano contribuito alla caduta di Hosni Mubarak.

“Giulio è morto come un egiziano”, dice l’avvocata della famiglia Regeni

Nonostante le evidenti prove del coinvolgimento delle forze di sicurezza, al governo egiziano è rimasta solo quella che potremmo chiamare la difesa della stupidità. Per usare le parole dell’ambasciatore egiziano a Roma: “Non siamo così ingenui da uccidere un ragazzo italiano e liberarci del suo corpo nel giorno della visita al Cairo della ministra Guidi”.

Un clima di paranoia

“Le ipotesi più plausibili sono due”, dice Karim Abdelrady, un avvocato egiziano specializzato nella difesa dei diritti umani. “Una è che ci sia una faida all’interno dei servizi segreti, e che una parte abbia lasciato il corpo in strada per mettere in difficoltà l’altra”. Una lunga e dettagliata lettera anonima inviata all’ambasciata italiana a Berna e pubblicata dal quotidiano la Repubblica accenna a complicate manovre all’interno dei vari rami dei servizi segreti egiziani. Nella lettera si afferma che il corpo di Regeni è stato trovato avvolto in una coperta dell’esercito egiziano per indirizzare i sospetti verso la polizia militare. Ma gli investigatori italiani hanno detto che non hanno modo di confermare né smentire le informazioni contenute in quel documento. “L’altra ipotesi”, spiega Abdelrady, “è che la polizia egiziana abbia sperato di farla franca accusando una banda di criminali, contando sul fatto che nessuno avrebbe pensato che fosse così stupida da lasciare il corpo dove poteva essere facilmente ritrovato”.

“Non è possibile capire questo caso senza conoscere il clima di paranoia del paese”, dice uno studioso straniero che ha vissuto al Cairo per molti anni. “Negli ultimi tre anni, molti alti funzionari governativi, compresi alcuni militari, hanno parlato pubblicamente di un complotto contro l’Egitto. Questa convinzione ormai dev’essere diffusa a tutti i livelli della polizia e dell’esercito”. Poco dopo aver preso il potere nell’estate del 2013, il regime di Al Sisi è apparso ansioso di sottolineare che la rivoluzione del 2011 non era nata dall’insoddisfazione popolare, ma da un complotto tra potenze straniere ed estremisti egiziani. Da allora la situazione dei diritti umani, che già non era buona sotto Mubarak, è peggiorata. Oggi si calcola che ci siano quarantamila prigionieri politici. Tra la fine di gennaio e il novembre del 2015, il centro El Nadeem per la riabilitazione delle vittime della violenza ha documentato 281 esecuzioni sommarie, 119 omicidi di detenuti, 440 casi di tortura nei commissariati di polizia e 335 sparizioni forzate. Dopo aver denunciato questi casi, il centro è stato costretto a chiudere per presunta violazione del suo statuto di organizzazione con finalità terapeutiche.

Se in passato l’Egitto aveva tentato di evitare problemi agli stranieri, ora sembra volerli usare come esempi. “Giulio è morto come un egiziano”, dice l’avvocata Ballerini. Il clima di xenofobia e di brutalità poliziesca che regna in Egitto ha spinto la procura italiana a chiedersi se sia stato opportuno che l’università di Cambridge abbia permesso a un giovane straniero di andare al Cairo a condurre una ricerca sul campo su un argomento così delicato. La relatrice di Regeni, Maha Abdelrahman, conosce bene la situazione: ha criticato spesso i governi militari egiziani e ha scritto molto sui sindacati e sui movimenti di protesta del paese. All’inizio del 2015 aveva scritto un articolo sulla tendenza a trasformare i cittadini comuni in informatori della polizia e sulla crescente criminalizzazione di attività prima considerate innocue.

La difesa di Cambridge

I rapporti tra gli inquirenti italiani e l’università di Cambridge sono partiti con il piede sbagliato, perché al funerale di Regeni Abdelrahman si è rifiutata di consegnare le sue email e i suoi sms. Ha anche fatto aspettare la polizia per tre ore, presentandosi al commissariato alle dieci di sera. La riluttanza della studiosa a consegnare i suoi dati personali è comprensibile, se si considera che è cresciuta in Egitto sotto un regime militare in cui nessuno consegnava nulla spontaneamente alla polizia. Dopo la morte di Regeni, Abdelrahman ha deciso di non parlare con i giornalisti, ma ha detto ai suoi colleghi di Cambridge che il giorno del funerale ha collaborato con la polizia.

La procura italiana voleva sapere di chi fosse stata l’idea di assegnare a Regeni una tesi di dottorato sui sindacati indipendenti, e in particolare su quello degli ambulanti. Quando gli inquirenti le hanno chiesto se era stata lei a spingere Regeni a fare una ricerca su quel particolare argomento, e se era consapevole che il ragazzo avrebbe potuto correre dei rischi, Abdelrahman ha avuto la sensazione di essere trattata con sospetto.

Lo scorso giugno il sostituto procuratore Colaiocco è andato nel Regno Unito per incontrare due professori di Cambridge, dopo aver mandato una richiesta di colloquio. L’università sostiene di non aver ricevuto una comunicazione dal governo italiano, ma di aver saputo della richiesta in modo informale dalla polizia di Cambridge. All’inizio i due professori hanno accettato di incontrare il sostituto procuratore, ma poi si sono rifiutati di vederlo. Questo ha scatenato una piccola tempesta e su Twitter il viceministro degli esteri italiano, Mario Giro, ha accusato l’università di non voler collaborare. Anche un professore italiano che insegna a Oxford, Federico Varese, ha criticato Cambridge in un’intervista rilasciata a Repubblica: “Una parte di responsabilità morale la porta anche l’università che non è riuscita a sottrarre quel ragazzo al suo destino non intuendo che una ‘ricerca partecipata’ aumenta il rischio. Sembra che la sua priorità sia difendersi da qualsiasi responsabilità legale e richiesta di danni”.

A giugno il vicerettore di Cambridge e un certo numero di docenti hanno firmato una lettera in cui dichiarano che l’università non ha ricevuto nessuna richiesta di aiuto da parte della magistratura italiana e che Regeni non aveva alcun motivo particolare per temere per la propria sicurezza, perché “nessuno studente, ricercatore o accademico” era mai stato ucciso in Egitto. In seguito l’ateneo ha assunto un avvocato italiano per facilitare i rapporti con Roma e ha ricevuto e adempiuto alla richiesta di alcuni documenti sul caso Regeni.

“Penso che questa polemica con Cambridge sia stata gonfiata”, ha dichiarato un amico di Regeni in Egitto, facendo notare che Abdelrahman ha continuato a fare ricerca sul campo, proprio come Giulio. “Non è una professoressa che rimane in biblioteca e manda i suoi studenti a lavorare sul campo. La verità sulla morte di Giulio va cercata in Egitto, nella crescente paranoia del regime, non a Cambridge”.

A dicembre del 2015 la polizia egiziana ha arrestato un giovane studioso francese che stava conducendo una ricerca sul movimento dei lavoratori e lo ha tenuto in cella per una notte, ha raccontato l’amico di Regeni: “Sono cose che succedono spesso, ma gli studiosi non le denunciano, per poter tornare in Egitto”.

Ma l’approccio più morbido e collaborativo degli ultimi mesi fa pensare che ormai il governo egiziano tenti di rifarsi un’immagine. Ha accettato di incontrare la famiglia del ricercatore, e i genitori sperano che questo possa servire a fare qualche passo avanti verso la verità.

La morte di Regeni è un mistero sotto gli occhi di tutti. Le torture apparentemente inspiegabili che ha subìto e la sua uccisione riflettono la situazione dell’Egitto: la crisi della democrazia, la perdita di spazi di libertà e di garanzia già limitate, la brutale repressione di ogni tipo di dissenso, l’aumento delle torture e delle persone scomparse, e la tendenza ad attribuire i problemi del paese a complotti stranieri. In questo mondo chiuso, Giulio Regeni, che parlava cinque lingue e aveva il cellulare pieno di contatti egiziani e stranieri, poteva sembrare una spia e la polizia, in un sistema nel quale non deve rendere conto a nessuno, può commettere errori.

Sembra che i procuratori egiziani non riuscissero a capire perché i loro colleghi italiani non accettavano le prove che gli erano state fornite. “Le autorità egiziane sembravano sconvolte dal fatto che la nostra polizia continuasse a fare domande dopo che avevano trovato la ‘banda’ di assassini e i documenti di Regeni”, ha dichiarato uno degli inquirenti italiani. “Con il loro atteggiamento sembravano voler dire: ‘Abbiamo trovato gli assassini, li abbiamo anche uccisi. Questo dovrebbe mettere fine alla faccenda’”. Pensavano che le questioni di stato – gli stretti rapporti tra i due paesi, i miliardi di dollari di scambi commerciali – fossero più importanti della vita di una persona uccisa per sbaglio. Sembrava che non riuscissero a capire che il governo italiano deve rendere conto alla sua opinione pubblica e non può accettare una spiegazione incoerente e poco plausibile della morte di Regeni.

“Questo omicidio non è avvenuto per caso”, dice Heba Morayef, direttrice associata dell’Egyptian initiative for personal rights. “È arrivato dopo tre anni di propaganda xenofoba da parte dei servizi segreti, che incoraggiano i cittadini a denunciare gli stranieri. Gli agenti dei servizi di sicurezza egiziani che parlano di complotto straniero sono talmente numerosi che la gente sta cominciando a crederci. È così che si comporta uno stato di polizia paranoico”. ◆ bt

Alexander Stille è un giornalista statunitense.

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Questo articolo è uscito sul numero 1175 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati