L’ultima volta che ho visto la mia casa a Gaza è stato il giorno del mio trentunesimo compleanno, il 13 ottobre 2023. Avevo appena fatto il bagno ai miei figli, avevo piegato i loro vestiti e fatto una valigia con il poco che potevamo portare. Era arrivato il momento di andarcene. Non sapevamo se saremmo stati via una notte o per sempre. Due mesi dopo, la casa non c’era più, bombardata, come tante altre.

Ci ho vissuto meno di due anni. Ma quel tempo contiene più gioie e fatiche di una vita intera. Avevamo appena finito di pagare i debiti. Ho fatto tre lavori per costruire quella casa. Sono il tipo di persona che piange anche per una tazza scheggiata, che conserva un maglione per dieci anni perché mi ricorda un amico. Custodivo ancora i vestiti che portavo alle superiori. Sono una persona che si attacca alle cose. Do un significato agli oggetti. Quindi immaginate come ci si sente a perdere tutto, i muri tinteggiati con cura, le tende scelte con amore, la cucina in cui preparavo i pasti per le persone care, il corridoio in cui i miei gemelli hanno mosso i primi passi. Non era solo una casa: era la dimostrazione che eravamo già sopravvissuti in passato, che avevamo costruito qualcosa di bello dal nulla.

Il mondo non ha visto la mia storia. Come moltissimi altri a Gaza, sono stata invisibile. Sono una madre, un’insegnante, una sopravvissuta. Ma a Gaza non conta chi sei, il mondo si rifiuta di considerarci umani. Le nostre vite sono ridotte a numeri e perfino la nostra sopravvivenza passa inosservata. Sono stata sotto assedio per la maggior parte della mia vita. Ho vissuto le guerre, la fame, i bombardamenti. Ma ho vissuto anche matrimoni, letture di poesie, lauree e giornate di sole in spiaggia. Ho cresciuto i miei figli in mezzo a tutto questo.

Nella stampa occidentale e in quella araba le persone come me sono fatte sparire, abbattute dalle bombe o dai titoli di giornale. I palestinesi sono rappresentati non come persone, ma come statistiche. Decine di morti, centinaia di feriti, migliaia di sfollati. Siamo vittime, non voci. I civili israeliani, invece, sono citati per nome. Le loro carriere e i loro sogni sono descritti con passione. Giornali e tv danno spazio alle loro esperienze, alle loro paure e al loro futuro.

Raccontare la vita

La stampa occidentale cancella la differenza tra occupante e occupato, tra un bombardamento aereo e un razzo artigianale, tra un assedio sistematico e la resistenza disperata. Il linguaggio svolge un ruolo fondamentale in questa cancellazione. Quando i mezzi d’informazione parlano di Gaza ricorrono all’astrazione: “bersaglio combattente”, “danni collaterali”, “presunta distruzione”. I titoli sono evasivi, con espressioni come “si ritiene”, “sembra”. Anche i giornali arabi hanno i loro silenzi. Spesso presentano i palestinesi di Gaza come perennemente resilienti, capaci di sopportare qualsiasi cosa, fondandosi su miti di forza e sacrificio, ignorando la stanchezza, il dissenso e il costo insostenibile della sopravvivenza.

La verità è che le persone sono esauste. Non l’hanno scelta loro questa vita, sono state costrette a subirla. È una questione che ha a che fare con la storia, quali sofferenze si sceglie di documentare o cancellare, e quali voci plasmano l’opinione pubblica, la politica internazionale e il racconto storico.

I palestinesi non chiedono pietà. Chiediamo di essere riconosciuti, di essere considerati delle persone e che le nostre storie siano riferite con onestà, non oscurate, rimosse o cancellate. Questo significa raccontare non solo la nostra sofferenza, ma anche le nostre vite, le gioie e la dignità, la pienezza della nostra umanità.

Voglio che il mondo sappia che mio zio Mustafa ha perso la sua casa, un edificio che aveva impiegato una vita a costruire, con sette appartamenti, uno per ciascuno dei suoi figli, così che potessero sposarsi e crescere le loro famiglie restando vicini, come si fa spesso a Gaza. Voglio che il mondo sappia della figlia diciottenne del mio vicino, Sadeel, che avrebbe dovuto essere al primo anno di università. È ancora ferma alle superiori a causa della guerra. Era tra le più brave della classe. Per noi palestinesi l’istruzione è tutto. È il nostro potere, la nostra arma contro la disperazione. Voglio che il mondo sappia del figlio di mia sorella, Ashraf, nato quattro mesi dopo l’inizio del genocidio, nelle tende, nel caos, in condizioni che nessun bambino dovrebbe mai conoscere. Gioca nella polvere che ricopre i suoi giocattoli, i suoi vestiti, le sue mani. Le sue tre sorelle, una volta piene di sogni, ora parlano solo di quanto cibo è rimasto e di quanto devono risparmiare. La loro infanzia non c’è più, c’è solo il bisogno di sopravvivere.

Voglio che il mondo sappia cosa significa sopravvivere a un genocidio, portarne il peso ogni giorno. Due giorni prima che l’esercito israeliano invadesse Rafah, sono scappata con mio marito e i nostri tre figli. Tutta la mia famiglia è ancora a Gaza e vive un incubo al quale posso solo assistere da lontano. Alcuni parlano del senso di colpa dei sopravvissuti. Forse siamo sopravvissuti nel corpo, ma non nello spirito.

Al Cairo quando un aereo civile vola sopra di noi, io mi blocco. Non dormiamo mai per tutta la notte. Ci svegliamo continuamente per controllare le notizie, aggrappati alla speranza che i nostri cari si siano salvati dall’ennesima serie di bombardamenti aerei. Non ci godiamo il momento dei pasti. Non ridiamo come facevamo un tempo. In Egitto viviamo senza un riconoscimento legale. Il mondo non ci vede come rifugiati. La verità è che il mondo non ci vede affatto.

Non sono la prima a dire queste cose. I palestinesi condividono da decenni le loro storie. Ma a quasi venti mesi dall’inizio di questo genocidio ancora non siamo ascoltati. Il silenzio persiste, più forte delle bombe, più pesante delle macerie. Quanto ancora dobbiamo perdere prima di essere considerati delle persone? ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1616 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati