Proprio nella settimana dell’anniversario dell’accordo del venerdì santo, siglato a Belfast nel 1998, abbiamo visto quanto sia fragile la pace in Irlanda del Nord. A poca distanza da casa mia diverse macchine sono state date alle fiamme. I miei genitori sono cresciuti assistendo a scene simili. Ma io ho 22 anni e ho visto solo la pace. Le ragazze e i ragazzi come me sono arrabbiati e preoccupati. Perché rischiano di essere trascinati nella violenza di un tempo. Il più giovane tra gli arrestati ha appena 13 anni.

Dopo l’accordo di Belfast in Irlanda del Nord sono nate più di 600mila persone. Ma in questa generazione non tutti hanno vissuto la pace nello stesso modo. I nostri leader non sono riusciti a costruire un paese in cui i giovani non abbiano più l’impressione di vivere nel passato.

Se gli ultimi disordini hanno dimostrato qualcosa, è che più di vent’anni dopo l’accordo i “muri della pace” (che dividono i quartieri protestanti da quelli cattolici) sono ancora necessari. Ma separando sistematicamente le nuove generazioni, si alimentano sentimenti di esclusione e ostilità, aggravati dal fatto che nessuno aiuta i ragazzi e le ragazze a guardare oltre questi muri.

Più del 90 per cento degli studenti nordirlandesi frequenta scuole segregate, cioè aperte agli alunni di una sola comunità. Ma è significativo che i pochi istituti integrati abbiano più domande di iscrizione di quante ne possano accogliere. I giovani chiedono inclusione.

L’accordo di Belfast prometteva giustizia e uguali opportunità per tutti. I giovani avrebbero avuto possibilità inimmaginabili per i loro genitori. Eppure c’è ancora un sorprendente legame tra scuole e quartieri segregati. Ed è soprattutto la classe operaia a subire la segregazione: più del 90 per cento delle case popolari si trova in zone segregate.

Non investendo abbastanza risorse per cambiare le cose, i politici impediscono ai ragazzi della classe operaia di entrare in contatto con le altre comunità. Tenere i giovani separati non è solo un cedimento scandaloso alle logiche del passato, è anche pericoloso e ingiusto. Il fatto che non abbiamo vissuto i traumi dei nostri genitori non significa che non ne portiamo le cicatrici. L’Irlanda del Nord ha il più alto tasso di disturbi mentali nel Regno Unito. Le vecchie ferite sono state ereditate dalle nuove generazioni per la cronica mancanza d’investimenti nei servizi per la salute mentale.

Chi vuole la pace

È difficile spiegare a chi non è cresciuto in Irlanda del Nord il peso delle azioni politiche. Anche se a far scoppiare le violenze di questi giorni può essere stata la decisione di non perseguire alcuni dirigenti dello Sinn féin, oltre al malcontento degli unionisti per il confine nel mare d’Irlanda, le radici sono più profonde.

In questi giorni abbiamo visto quello che succede quando un sistema non riesce a proteggere i membri più vulnerabili delle sue comunità. Di recente, l’ex primo ministro nordirlandese e leader unionista Peter Robinson ha detto che ci troviamo pericolosamente vicini a una linea che, una volta superata, potrebbe portare a una situazione che la sua generazione conosce fin troppo bene. Oggi, però, i politici devono cominciare a preoccuparsi della mia generazione.

I giovani sono stanchi di leader che non capiscono le loro priorità. Sono disillusi e distanti dalla politica, e rischiano di cadere vittime della pericolosa retorica dei gruppi paramilitari. Tuttavia, per ogni ragazzo che sceglie la violenza, ce ne sono altri impegnati a ottenere la pace che ci è stata promessa vent’anni fa. I giovani guardano al futuro. È ora che i nostri leader facciano lo stesso. ◆ gac

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Questo articolo è uscito sul numero 1405 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati