Arundhati Roy (Nick Lachance, Toronto Star/Getty)

Il memoir di Arundhati Roy è in buona parte il racconto della sua vita con la madre, Mary Roy. Si potrebbe dire che tutte le madri appaiano come delle pazze agli occhi dei propri figli: follia che qui significa una forza sconfinata, in contrasto con ciò che la società immagina sia una genitorialità “normale”. Le manifestazioni di questa follia sono disparate quanto quelle dell’amore, e due aspetti – l’anormale, l’opprimente, e il protettivo, l’accudente – possono, nelle nostre madri, essere intimamente intrecciati. È attraverso l’amore e la dipendenza da ciò che è misterioso e incomprensibile che impariamo a “tollerare”, perfino ad abbracciare, la cosa più strana di tutte: la vita stessa. Mary Roy era una sorta di visionaria, ma sembrava sconvolgere le persone intorno a sé, così come loro facevano con lei. Cristiana del Kerala, fuggì dai genitori sposando un esponente della borghesia bengalese, conosciuto dagli amici come Micky Roy, per poi lasciarlo quando diventò un alcolizzato. Portò sua figlia Arundhati con il fratello Lalith, in un cottage che apparteneva al nonno materno in Tamil Nadu, ma si scontrò con l’applicazione di una legge ereditaria della sua comunità: “Le figlie non avevano diritto alla proprietà paterna e dovevamo lasciare subito la casa”. Infine arrivarono ad Aymanam, un villaggio del Kerala, riconoscibile come il villaggio del suo primo romanzo, Il dio delle piccole cose, dove alloggiarono dapprima con la famiglia, “persone straordinarie, eccentriche, cosmopolite, sconfitte dalla vita”, per poi entrare in conflitto con loro. Mary in seguito ebbe una propria casa e, infine, creò una scuola che acquisì una reputazione nazionale. Gli anni di battaglie di Mary Roy le permisero di lasciare due straordinarie eredità: la sua scuola, ma anche la causa legale che portò fino alla corte suprema, ottenendo l’annullamento di quella legge discriminatoria. Queste pagine non sono significative perché ci permettono di accedere alle origini dell’ispirazione di Roy o come preludio alla sua vita di scrittrice di successo e di attivista. Anche se l’autrice non fosse mai diventata così famosa, sarebbero comunque pagine assolutamente avvincenti che hanno una meravigliosa e sicura autosufficienza.
Amit Chaudhuri, The Guardian

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Questo articolo è uscito sul numero 1638 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati