Ad Abel Quentin, romanziere e avvocato, piace lanciare allarmi. Nei suoi lavori ha spesso dato prova di ironia tagliente ma nei Quattro che predissero la fine del mondo, il suo terzo corposo romanzo, si confronta con le derive mortifere della nostra cultura della crescita a ogni costo. Quattro ricercatori di Berkeley senza alcun legame tra loro – la coppia statunitense Mildred ed Eugene Dundee, il francese Paul Quérillot, il giovane matematico norvegese Johannes Gudsonn – analizzano, per conto di un gruppo di industriali, banchieri e alti funzionari, le conseguenze della crescita. Ognuno con una competenza specifica: produzione industriale, inquinamento, risorse non rinnovabili e popolazione mondiale. Pubblicato nel 1972, il loro Rapporto 21 diventa un bestseller e semina preoccupazione: se non rallentiamo crescita industriale e demografica siamo condannati alla fine. Purtroppo, non seguirà alcuna presa d’atto concreta dei problemi. Quentin segue fino a oggi il destino dei Dundee, diventati allevatori di maiali nonostante il loro ecologismo; di Quérillot, ormai cinico e convertito all’industria petrolifera; di Gudsonn, diventato apostolo della decrescita. Ne risulta un affresco brillante che attraversa ambienti e luoghi diversi. Il narratore del romanzo, un giornalista idealista e un po’ spaesato, è l’unico personaggio farsesco di questo viaggio nel regno delle illusioni perdute dello sviluppo.
Fabien Pascaud, Télérama
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Questo articolo è uscito sul numero 1632 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati