Da Nadar a Richard Avedon, da Étienne Carjat a Irving Penn passando per August Sander, per citarne solo alcuni, la storia della fotografia è scandita da ritrattisti che hanno influenzato la loro epoca stimolando le riflessioni su lavori di questo genere e sulla fotografia in generale.

Con l’importante eccezione di William Eggleston, la storia del ritratto fotografico ha privilegiato il bianco e nero. Questo fa capire bene l’importanza di Pieter Hugo, che dall’inizio della sua carriera porta avanti lavori a colori in cui il ritratto occupa un ruolo centrale.

Moe, Città del Capo, Sudafrica, 2021

Quando si parla di Hugo però non dobbiamo pensare solo al ritrattista, perché i suoi soggetti sono molto vari e d’impatto: dalle prime immagini di africani albini o ciechi a quelle più recenti sui ragazzi che sono o aspirano a diventare modelli, dagli attori del cinema di Nolly­wood alla serie Cucaracha ambientata in Messico. Al contrario di molti altri fotografi, Hugo sa variare le distanze, nel trovare la giusta ambientazione per raccontare la persona ritratta, e combinare foto di dettagli o di paesaggio pur rimanendo coerente con il suo lavoro.

Elinor, Londra, Regno Unito, 2020

Nella sua nuova serie Solus propone un approccio più estremo. Su uno sfondo neutro i personaggi sono inquadrati a mezzo busto – a eccezione di alcune immagini di nudo in piedi – e compongono un album in cui si è attratti da una misteriosa presenza.

Alicia, New York, Stati Uniti, 2020

Hugo spiega così com’è nato il progetto: “Alla fine del 2017 lavoravo a New York per un servizio di moda. L’agenzia Midland proponeva i modelli, persone reclutate per strada, e guardando i loro ritratti sulle pareti dello studio, semplici e diretti, trovavo che fossero molto più interessanti prima di essere modificati dall’illusione dell’abbigliamento, del trucco o dell’acconciatura. Erano foto molto più significative di quelle che dovevo realizzare. Nessuno era ‘bello’ nel senso tradizionale del termine, erano tutti atipici, ognuno a modo suo. E tutte le parole che usavo non riuscivano a rendergli giustizia. È proprio da questa difficoltà nel descrivere ciò che vedevo che è nata l’idea della serie”.

Alex, Londra, Regno Unito, 2020

Le immagini, apparentemente semplici, permettono di avvicinarsi a una realtà complessa su cui il fotografo – nato nel 1976 a Johannesburg, cresciuto nel Sudafrica che faceva i conti con la fine dell’apartheid e oggi residente a Città del Capo – continua a interrogarsi: la diversità. Un argomento che lo interessa sicuramente più dell’identità. Per questo ha scelto persone per cui l’aggettivo più giusto è “atipiche”, anche in un settore così stereotipato come la moda.

Raimundo, New York, Stati Uniti, 2020

Lo sguardo degli altri

Hugo si è formato alla scuola di Fabrica, in Italia, e ha collaborato a lungo con la rivista Colors insieme agli artisti Adam ­Broomberg e Oliver Chanarin. Nel suo lavoro dichiara di essere stato influenzato da David Goldblatt e Diane Arbus. Ma in questo momento storico sente di avere la necessità di esplorare l’uso del colore, controllato, senza effetti, e al tempo stesso vivace. È difficile attribuirgli uno stile, ma riesce sempre a combinare sociologia, impegno e impatto visivo. “Penso che questo derivi dall’intensità della relazione che s’instaura con il soggetto quando siamo fisicamente vicini al momento dello scatto. Per Solus mi sono confrontato con modelli di bellezza diversi, che hanno suscitato una reazione emotiva e psicologica. Queste foto mostrano l’altro lato del mondo della moda. Tutte e tutti vogliono essere, quando non lo sono già, dei modelli. Ma non è questo che sono o che vogliono realmente essere. In realtà sono prima di tutto un’immagine che appartiene a un’estetica globalizzata. Sono un’identità digitale che si valuta in numero di like su Instagram”.

Morgan, New York, Stati Uniti, 2020

Questa riflessione caratterizza tutti i lavori di Pieter Hugo, compresi quelli apparentemente lontani, come la serie The journey, in cui ritrae con una pellicola a infrarossi i passeggeri addormentati di un aereo, che s’inseriscono in uno spazio indefinito tra pubblico e privato.

Mziyanda, Città del Capo, Sudafrica, 2021

“Cos’è un ritratto? Ho cominciato a fare ritratti per curiosità, sicuramente perché vengo da un paese isolato e volevo attirare l’attenzione su alcune cose, situazioni e persone che trovavo particolari. Mi piace l’idea di sfidare le possibilità del ritratto, le sue capacità di rivelare alcune cose e d’ignorarne altre”. Questo approccio ha fatto di Hugo uno dei più brillanti rappresentanti del “nuovo stile documentario” e gli ha aperto le porte del mondo dell’arte contemporanea. Ma Hugo non si definisce un artista concettuale e neanche un postmoderno, solo un fotografo. “Il mio lavoro è incentrato sulla nozione di estraneo. Io stesso vivo in questo spazio, e accetto questa consapevolezza come un mezzo per impegnarmi con chi fotografo. Lavoro quasi sempre rivelando chi sono fin dall’inizio. Guardo e al tempo stesso sono guardato. Durante la realizzazione di un ritratto c’è un breve momento in cui il cinismo scompare. È piacevole sentirsi catturati dallo sguardo di un’altra persona, nell’essere presente c’è un’intimità, e si avverte in queste immagini. È un momento d’immobilità e di connessione diversa da tutto quello che è successo prima o dopo. È una sorta di collisione silenziosa tra le attese del fotografo e quelle del suo interlocutore. Per lavorare ti devi porre dei limiti. Devi decidere l’inquadratura e poi quello che metterai al suo interno”. Come in Solus, quando le foto, tutte verticali e con uno sfondo neutro, catturano la figura indefinibile di uomini e donne di oggi che sono, prima di tutto, delle immagini. ◆ adr

Da sapere
Il festival

◆ Le foto della serie Solus pubblicate in queste pagine sono inedite. Fanno parte della mostra di Pieter Hugo Être présent, a cura di Federica Angelucci, esposta fino al 26 settembre al Palazzo arcivescovile di Arles, nell’ambito del festival di fotografia francese Les Rencontres d’Arles. Solus uscirà in volume il prossimo autunno per la casa editrice RM.


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Questo articolo è uscito sul numero 1416 di Internazionale, a pagina 72. Compra questo numero | Abbonati