Negli anni novanta dell’ottocento nel mondo si diffuse una delle più devastanti pandemie della storia. Fu chiamata “influenza russa” e fece un milione di vittime. Oggi si pensa che il nome non sia esatto. Probabilmente non era un’influenza, ma un coronavirus antenato di quello che oggi provoca i sintomi del raffreddore. Allora, tuttavia, in pochi avevano gli anticorpi per combatterlo, e il virus era quindi spesso letale. E non solo. Quando la pandemia finì, lasciò dietro di sé un’ondata di disturbi nervosi. Un fenomeno simile si verificò anche dopo la grande pandemia successiva, l’influenza spagnola del 1918 (che non aveva molto a che fare con la Spagna, ma era in effetti un’influenza). Tra i sintomi più comuni c’era una forma di letargia così grave che in Tanganica (l’odierna Tanzania) contribuì a provocare una carestia: molte persone erano troppo debilitate per occuparsi dei raccolti.

Qualcosa di simile sta succedendo oggi con la pandemia di covid-19. Nei paesi in cui i casi gravi sono in calo, si sta assistendo a un’ondata del cosiddetto long covid, o covid lungo. Ufficialmente, questo disturbo viene chiamato “sindrome post-covid” (Pcs). Ma la definizione dei suoi sintomi è fluida, perché la conoscenza dei dettagli della malattia è ancora in evoluzione. Il National institute for health and care excellence britannico, per esempio, definisce la Pcs come un insieme di “segni e sintomi che si sviluppano durante o dopo un’infezione coerente con il covid-19, permangono per più di 12 settimane e non sono spiegabili con una diagnosi alternativa”. Tuttavia, non specifica quali siano questi sintomi. Che, per la verità, sono molti.

Un sondaggio condotto su 3.800 persone in tutto il mondo ne ha individuati 205. Di solito un malato ne mostra diversi contemporaneamente; i più debilitanti sono questi tre: grave dispnea, affaticamento e “annebbiamento mentale”, brain fog in inglese.

L’Office for national statistics (Ons) britannico stima che il 14 per cento delle persone che sono state positive al covid-19 ha sintomi che successivamente persistono per più di tre mesi. In più del 90 per cento dei casi i sintomi originali non erano abbastanza gravi da giustificare il ricovero in ospedale. Secondo l’Ons, nelle quattro settimane successive al 6 febbraio 2020, nel Regno Unito quasi mezzo milione di persone ha affermato di aver avuto sintomi post-covid per più di sei mesi. Nel momento in cui l’Ons ha raccolto questi dati, almeno l’1,1 per cento della popolazione britannica, compreso l’1,5 per cento degli adulti in età lavorativa, dichiarava che i sintomi erano durati almeno tre mesi. Se applichiamo queste percentuali alle centinaia di milioni di persone che in tutto il mondo sono state infettate dal sars-cov-2, il virus che causa il covid-19, potrebbe essere in atto una catastrofe. A breve termine era giusto che gli sforzi si concentrassero sulla forma più acuta della malattia, ma oggi bisogna occuparsi anche dei postumi cronici del covid-19.

Una diagnosi complicata

Non tutti i disturbi registrati come postumi del covid sono effettivamente causati dal sars-cov-2. Anche prima che il virus si manifestasse, molte persone giovani e sane sviluppavano, per ragioni mediche inspiegabili, sintomi debilitanti simili. Il classico esempio è la sindrome da stanchezza cronica (Cfs), che spesso sembra seguire un’infezione virale o batterica. Le emicranie croniche e gli altri sintomi spesso osservati nel long covid colpiscono molte persone all’improvviso anche in anni normali. I dati, tuttavia, fanno pensare che gli effetti a lungo termine del covid stiano invadendo questo campo sintomatico. I ricercatori britannici hanno confrontato la persistenza di una decina di tipici sintomi post-covid in quasi 22mila persone risultate positive al virus con la presenza degli stessi sintomi in un campione simile che non era stato infettato. In entrambi i casi, molte persone sono migliorate con il passare del tempo. Ma dopo 12 settimane il gruppo dei contagiati aveva otto volte più possibilità di avere sintomi rispetto a quello dei non contagiati.

Non è ancora chiaro a chi dovrebbe essere diagnosticata la sindrome post-covid. Molte persone con sintomi persistenti non sono risultate positive al sars-cov-2 né hanno sviluppato gli anticorpi per combatterlo, forse perché quando erano malate i test non erano disponibili o non erano abbastanza efficaci da registrare gli anticorpi specifici prima che scomparissero. Gli studi che confrontano individui sintomatici con o senza un test virale o anticorpale positivo generalmente individuano gli stessi tipi di sintomi. Eppure spesso i medici ignorano chi non ha prove di laboratorio di un’infezione pregressa. Le persone che si presentano nei reparti di post-covid negli Stati Uniti e in Europa sono prevalentemente donne di mezza età. Le minoranze etniche sono poco rappresentate, anche se hanno tassi d’infezione acuta più elevati. Molti medici sospettano che ciò sia dovuto al fatto che i bianchi spesso hanno più possibilità di permettersi le cure. Alcuni vedono un parallelismo con la Cfs, che in passato era definita “influenza degli yuppie” a causa del profilo demografico di chi ne soffriva.

Da uno studio del King’s college di Londra è emerso che l’età media delle persone affette da sindrome post-covid è di 45 anni, il che conferma i dati dei reparti. Ma l’Ons ha scoperto, contrariamente a quanto suggeriscono quei dati, che le donne rischiano solo poco più degli uomini di sviluppare i sintomi, sebbene non sia chiaro se i sintomi delle donne siano più debilitanti.

Teresa Dominguez, 55 anni, e il suo diario. Madrid, 4 marzo 2021 (Susana Vera, Reuters/Contrasto)

In generale, i pazienti con sintomi post-covid persistenti si possono dividere in tre gruppi, afferma Avindra Nath dei National institutes of health statunitensi. Il primo soffre di “l’intolleranza all’esercizio”: i pazienti hanno il fiato corto e si sentono esausti anche dopo una minima attività fisica. Il secondo soffre di disturbi cognitivi sotto forma di annebbiamento mentale e problemi di memoria. Il terzo ha disturbi al sistema nervoso autonomo, l’insieme di nervi che controlla funzioni come il battito cardiaco, la respirazione e la digestione. I pazienti che rientrano in questo gruppo soffrono di palpitazioni cardiache e vertigini.

Nel complesso, i disturbi del sistema nervoso autonomo sono chiamati disautonomia, un termine generico usato per una varietà di sindromi. Igor Koralnik del Northwestern memorial hospital di Chicago, che ha curato pazienti post-covid con sintomi neurologici, afferma che dall’inizio della pandemia c’è stato un notevole aumento dei casi di disautonomia. Secondo David Putrino, direttore del reparto innovazione riabilitativa del Mount Sinai hospital di New York, l’80 per cento circa delle persone che si presentano nella sua clinica mostra sintomi “simili a quelli della disautonomia”.

Sulla base di questi sintomi e di esami di laboratorio a cui sono stati sottoposti i pazienti post-covid, i medici si stanno concentrando su tre possibili spiegazioni biologiche. Una è che si tratti di una persistenza dell’infezione virale. La seconda è che siamo davanti a una malattia autoimmune. La terza ipotizza invece che sia una conseguenza del danno ai tessuti provocato dall’infiammazione durante la fase acuta iniziale dell’infezione.

Sollievo temporaneo

Stando alla prima di queste ipotesi, alcuni pazienti non eliminano mai del tutto il virus. Non sono contagiosi, spiega il dottor Nath, ma probabilmente ospitano una forma alterata del patogeno che non si replica e non è rilevabile dai test standard per il sars-cov-2, ma che sta comunque fabbricando un qualche prodotto virale che l’organismo sta cercando di combattere. È noto che questo si verifica con altri virus, tra cui quelli del morbillo, della dengue e dell’ebola. I virus a Rna, tra cui c’è il sars-cov-2, sono particolarmente inclini a provocare questo fenomeno.

Quest’ipotesi non è dimostrata, ma è supportata da alcuni indizi. Gli scienziati stanno cercando il sars-cov-2, o uno dei suoi prodotti, in tutti i liquidi e i tessuti delle persone contagiate. Esistono già le prove del fatto che il virus può rimanere nell’organismo, anche se i dati arrivano soprattutto da individui che non hanno sviluppato sintomi a lungo termine. Uno studio pubblicato di recente su Nature ha dimostrato che alcune persone avevano ancora tracce delle proteine del sars-cov-2 nell’intestino quattro mesi dopo la fine della fase acuta della malattia. Prodotti virali del sars-cov-2 sono stati trovati anche nelle urine e nelle feci di alcuni pazienti guariti da diversi mesi.

Il secondo meccanismo ipotizzato per spiegare il post-covid, e cioè che si tratti di una malattia autoimmune, prevede che il virus, anche se scomparso, abbia causato un malfunzionamento del sistema immunitario. A sostegno di quest’idea ci sono diverse prove. Il sistema immunitario è una macchina complessa, con molte componenti cellulari e molecolari, ognuna delle quali potrebbe essere danneggiata e causare sintomi. In alcune persone che soffrono di sintomi post-covid persistenti i macrofagi, le cellule responsabili della rilevazione e dell’inglobamento degli invasori dannosi, funzionano male. Altri mostrano un’attivazione anomala dei linfociti B, i globuli bianchi che producono anticorpi specifici per bloccare determinati patogeni. In questi casi, i linfociti B sembrano produrre una quantità e una varietà insolita di “autoanticorpi”, che attaccano le cellule del corpo anziché gli invasori. Altri ancora hanno bassi livelli di interferoni, che lottano contro le infezioni virali. E alcuni hanno problemi con i linfociti T, quelle parti del sistema immunitario che hanno il compito di distruggere le cellule infette e avvisare i linfociti B della presenza di agenti patogeni.

Da sapere
I sintomi a lungo termine
Prevalenza dei sintomi registrati su persone positive al covid-19 nel Regno Unito, percentuale (fonte: economist/ons 2021)

Diversi studi hanno riscontrato una riduzione della conta dei linfociti T nelle persone che hanno avuto forme acute di covid, e hanno mostrato anche che i linfociti T sopravvissuti sono “esausti”, cioè rispondono solo debolmente alle infezioni. Alcuni studi condotti dall’équipe del dottor Koralnik hanno scoperto che i pazienti con forme di annebbiamento mentale mostrano risposte dei linfociti T diverse da quelle delle persone che sono state infettate ma non hanno più sintomi.

Tutto questo fa pensare che alcuni individui non riescano a eliminare completamente il virus o che parti del loro sistema immunitario agiscano in modo dannoso per l’organismo. Secondo alcuni medici, nelle persone già predisposte a sviluppare una condizione autoimmune lo stress causato all’organismo dal covid-19 funziona da acceleratore. Disturbi simili sono in genere diagnosticati nelle persone di mezza età e sono più comuni nelle donne, come anche, seppure in misura minore, la sindrome post-covid.

Secondo la terza ipotesi, cioè l’infiammazione, la lotta dell’organismo contro la malattia acuta provocherebbe danni collaterali irreparabili. Questo succede spesso nel caso di un’infezione virale, ma potrebbe essere particolarmente probabile nel caso del covid-19. L’infiammazione fuori controllo, causata dalle citochine, è un segno distintivo della malattia.

Si pensa che sia l’infiammazione stessa a danneggiare in qualche modo parti del sistema nervoso autonomo. Un’altra ipotesi, avanzata da Koralnik, è che in alcuni pazienti il sars-cov-2 possa danneggiare le cellule che rivestono i vasi sanguigni, infettandole direttamente o tramite l’infiammazione. Questo cambierebbe il modo in cui il sangue arriva al cervello e spiegherebbe l’annebbiamento.

Da sapere
Una speranza dal vaccino

◆ I vaccini potrebbero alleviare i sintomi del long covid, contrariamente a quanto si era pensato fino a oggi. È quanto emerge da uno studio, che deve ancora essere passato al vaglio della peer review, condotto dall’organizzazione britannica LongCovid SOS su un campione di 812 persone (soprattutto donne bianche) con i sintomi del long covid, nel Regno Unito e in altri paesi. I test sono stati svolti una settimana dopo la somministrazione della prima dose del vaccino. Il 56,7 per cento dei partecipanti ha notato un netto miglioramento dei sintomi, mentre per il 24,6 per cento non ci sono stati cambiamenti. Il 18,7 ha denunciato invece un peggioramento della situazione. In generale, i soggetti immunizzati con vaccini a Rna (Pfizer-Biontech e Moderna) hanno constatato maggiori progressi rispetto a chi aveva ricevuto un vaccino a vettore virale (AstraZeneca). The Guardian


Al momento sono in corso studi su ciascuna di queste possibilità. Ma le tre teorie non si escludono a vicenda. La maggior parte dei ricercatori concorda sul fatto che “sindrome post-covid” sia probabilmente una definizione che abbraccia problemi diversi con cause diverse. Individuarli contribuirà sia a sviluppare trattamenti specifici sia a prescriverli. Se l’infezione virale persistente risulterà essere una causa, si faranno ricerche sui farmaci antivirali. Il trattamento potrebbe consistere nell’assunzione di farmaci per un determinato periodo, per distruggere completamente il virus, o nell’assumerli regolarmente per tenerlo a bada.

Esistono già trattamenti per i disturbi immunitari e alcuni potrebbero funzionare per il long covid. “Non appena definiremo qual è l’anomalia immunitaria presente in questi pazienti, sapremo più chiaramente come curarli”, afferma Nath. “È del tutto possibile che siano necessari trattamenti diversi per diversi tipi di risposta immunitaria, e a quel punto dovremmo essere in grado di capirlo”.

Alcune persone con sintomi persistenti sono migliorate dopo la vaccinazione contro il covid-19. Ma il sollievo tende a essere temporaneo. I medici l’hanno già verificato. Le persone che soffrono di annebbiamento mentale, per esempio, a volte si sentono temporaneamente meglio dopo il vaccino antinfluenzale o un’altra vaccinazione. Nessuno sa perché. Una possibilità è che l’entrata in azione del sistema immunitario allevi per un po’ i sintomi. Potrebbe anche trattarsi di un effetto placebo. Akiko Iwasaki, dell’università di Yale, ha proposto di effettuare test clinici con i vari vaccini contro il covid: individuare quale funziona, anche se solo per un breve periodo, può aiutarci a scoprire la specifica anomalia immunitaria di una persona e farci capire quali farmaci potrebbero essere efficaci.

Al momento, l’unico trattamento possibile è la riabilitazione. Per progettare protocolli adeguati, il team del dottor Putrino ha collaborato con alcuni esperti di disturbi che presentano sintomi simili, tra cui disautonomia, Cfs e malattia di Lyme. “Ci siamo concentrati soprattutto sui sintomi”, dice. “Scaviamo nella vita di una persona per capire cosa provoca i fattori scatenanti (dei sintomi) che interferiscono di più con la vita quotidiana”.

Putrino fa alcuni esempi pratici. Molti pazienti arrivano da lui dopo essere molto dimagriti, perché se mangiano un pasto completo “scattano sintomi che durano tutta la giornata”. Questo succede nei casi di disautonomia, perché l’allargamento dello stomaco provoca una reazione del sistema nervoso autonomo. I nutrizionisti consigliano a questi pazienti di fare pasti più piccoli e nutrienti con alimenti facili da digerire. Alcuni pazienti, appena si muovono, subiscono un calo della pressione sanguigna e hanno le vertigini, un altro segnale della disautonomia. Indossare calze compressive per prevenire il ristagno di sangue nelle gambe può essere d’aiuto, come evitare di uscire nelle giornate calde e umide. A chi è molto affaticato s’insegna come individuare e sfruttare le “finestre energetiche”, per svolgere i compiti più importanti della giornata.

Il team del dottor Putrino ha identificato un altro problema comune. Ha testato 25 dei suoi pazienti post-covid e ha scoperto che tutti avevano livelli di anidride carbonica troppo bassi. Questo può sembrare sorprendente, dato che la Co2 è un prodotto di scarto derivato dalla respirazione che, se presente in concentrazione troppo elevata, diventa nociva. Ma aiuta anche a regolare l’acidità; e un’acidità errata può disturbare tutti i processi metabolici. Bassi livelli di Co2 si riscontrano spesso anche nei casi di disautonomia e Cfs. La soluzione è affidarsi a esercizi di respirazione per aumentare la ritenzione di Co2.

Dopo la pandemia

Nella clinica neurologica del dottor Koralnik, l’approccio è simile. I pazienti vengono prima esaminati per vedere se il loro problema specifico è la memoria, l’attenzione, la fluidità nel parlare o “qualunque sintomo diverso da quelli di chi soffre di annebbiamento mentale”. La riabilitazione cognitiva viene quindi adattata alle loro esigenze.

È un lavoro minuzioso. Dopo una media di 150 giorni di riabilitazione i pazienti del dottor Putrino riscontrano un miglioramento del 30-40 per cento dei livelli di affaticamento. Un miglioramento del genere non è stato osservato in pazienti che non sono in riabilitazione, dettaglio che porta il team di Putrino a essere ottimista sugli effetti del trattamento. Tuttavia, su circa cento pazienti monitorati ai fini della ricerca, solo tre affermano di essersi ripresi completamente.

Questo significa che anche con un’adeguata assistenza sanitaria, molti di quelli che soffrono di conseguenze prolungate del covid continueranno ad avere difficoltà nella vita quotidiana. Da un sondaggio condotto nel Regno Unito su un gruppo di volontari, è emerso che la malattia influisce sulla capacità di lavorare nell’80 per cento delle persone che ne soffrono e che, in circa il 40 per cento dei casi, ha conseguenze anche sulla capacità di prendersi cura degli altri. Questo fa pensare che, anche una volta superata la pandemia di covid-19, rimarrà un grosso problema. Sindromi post-virali di queste proporzioni non solo condizionano le persone che ne soffrono, ma hanno conseguenze gravi anche per gli altri. ◆ bt

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Questo articolo è uscito sul numero 1411 di Internazionale, a pagina 66. Compra questo numero | Abbonati