Capita che St. Vincent esageri nella cura dei dettagli, racconti storie strane e si lasci trasportare dal guardaroba, ma il suo lavoro è sempre carico di un’emotività sincera. Nel nuovo album, ispirato agli anni settanta, tra baveri generosi e sguardi annebbiati nascosti da occhiali fuori misura, contempla il rapporto con il padre. Accompagnata dal mormorio di un organo Wurlitzer, fiati e ritmiche soul, riflette su un genitore assente, che suona tutto il giorno e cucina al microonde per ogni pasto. Il tormento non se ne va mai in queste canzoni e, anche se non parlano tutte di rabbia intergenerazionale, St. Vincent ha scelto il titolo pensando al suo vero padre, che è uscito dal carcere nel 2019. In Daddy’s home il funk e il soul prendono il posto del synth rock e del prog pop dei precedenti lavori, e nell’attenzione ai particolari la produzione, curata insieme a Jack Antonoff, è decisamente ispirata. Se in altri momenti la sua opera da brillante chitarrista risultava più minacciosa, qui St. Vincent si concede un andamento calmo e melodioso. Musica per mattinate confuse e reginette sfatte. Kitty Empire,
The Observer

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Questo articolo è uscito sul numero 1409 di Internazionale, a pagina 114. Compra questo numero | Abbonati