I toni smorzati dell’ottavo album dei Kings of Leon sono ben lontani dal ruggito del suono che nel 2007 faceva tremare le arene di tutto il mondo. Una volta noti soprattutto per l’alcol, le risse e le urla di Sex on fire, i fratelli Followill di Nashville (e il loro cugino) ormai sono uomini di famiglia di mezza età. Nelle interviste pubblicate durante la pandemia, hanno detto che questo è il primo album che sono riusciti a registrare senza che fosse tirato un solo pugno. Non è un’impresa da poco. Come il precedente Walls, When you see yourself suona come un album progettato per essere apprezzato tanto su costose autoradio quanto negli stadi, ma il risultato stavolta è meno brillante. La superficie opaca del nuovo suono è frutto dell’ossessione del chitarrista Matthew Followill per le tastiere e i sintetizzatori vintage, che pulsano attraverso l’album come i motori di vecchie navi merci: solidi, rilassanti e leggermente distanti. Dal punto di vista dei testi, le canzoni sono piene zeppe di cliché e contraddizioni. Il momento più strano arriva in Supermarket, dove il cantante saluta un transa­tlantico di passaggio, invitandolo ad ancorarsi nel “mare del perdono” e vedere cosa ha trovato. Non ho idea di cosa voglia dire. When you see yourself è piacevolmente soporifero. È il tipo di album che in autostrada i genitori possono canticchiare senza svegliare i bambini che dormono nei sedili posteriori.
Helen Brown,
Independent

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Questo articolo è uscito sul numero 1401 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati