“Non me ne frega un cazzo del passato”. Per gli Arab Strap non c’era un altro modo per cominciare il loro album del ritorno. Dopo una lunga pausa, gli scozzesi hanno pubblicato As days get dark, il loro primo disco dal 2005, anno dell’eccellente commiato The last romance. Anche prima del volgere del millennio, Aidan Moffat e Malcolm Middleton hanno contribuito a definire il suono dell’underground degli anni duemila, dal post-rock dei Mogwai al cantato-parlato dei The Streets, fino ai synth splendenti degli M83. Ecco perché, mentre si prepara il revival degli anni duemila, non c’è momento migliore per tornare alla ribalta. L’apertura dell’album, The turning of our bones, sfodera una drum machine scheletrica e un ritmo irregolare, per gentile concessione del “rap” di Moffat, mentre Another clockwork day è una ballata acustica banale. La band raggiunge l’apice nell’immortale Kebabylon. Per quanto gli Arab Strap siano dei duri, a conti fatti questo disco è una lettera d’amore al loro pubblico. Daniel Sylvester, Exclaim
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Questo articolo è uscito sul numero 1399 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati