Siamo tutti esausti, vero? E chi avrebbe mai detto che una pandemia potesse essere così logorante sul piano psicologico? Non voglio esprimere dei facili luoghi comuni, ma penso che per tutti noi sia un vero shock il senso di sfinimento generato dallo stare rinchiusi per tanto tempo. Ciò che era cominciato come uno stato di emergenza – le emozioni al massimo, l’ansia, l’adrenalina, lo stato di allarme – si è trasformato nel tempo diventando un opprimente torpore. Le nostre reazioni si affievoliscono via via, tanto che a molti di noi ormai sembra impossibile coltivare la speranza o avere una reazione decisa a qualsiasi notizia, per bella o brutta che sia.

Forse questo atteggiamento pessimista rispetto all’idea di una fine di questa situazione è una sorta di meccanismo di autoprotezione. Di fronte alle promesse e alle dichiarazioni di intenti del governo storciamo il naso, ci irrigidiamo: come se avessimo costruito una corazza per proteggerci dal pericolo di nuove ferite. Volgo lo sguardo a un anno fa, a come tutti parlassimo allora di resistere e dar prova di pazienza, e penso: “Eh, già! Ma non hai idea di cosa significhi! Aspetta e vedrai!”.

E mentre la maggior parte di noi reagisce con irritazione a regole e limitazioni e rimpiange la “normalità” di prima, sempre più io penso alle persone per cui questa condizione è la normalità; chi è affetto da disabilità o soffre di una patologia cronica e chi con questo tipo di limitazioni deve avere a che fare quotidianamente.

Indizi allettanti
Una di queste persone è Josie George, che ha appena pubblicato una autobiografia in cui parla della sua convivenza con una malattia cronica. A still life è stato scritto prima della pandemia, eppure descrive un tipo di vita che ormai è familiare a molti di noi. “Ci sono sempre stati lunghissimi anni in cui ho dovuto lottare con tutte le mie forze per riuscire a stare fuori di casa per un’ora o due, perciò so bene cosa sia la solitudine”, scrive l’autrice quasi con disinvoltura, ridimensionando all’istante tutta nostra la rabbia per l’anno che abbiamo dovuto affrontare.

Josie ha 36 anni e sperimenta fin dall’infanzia una grande sofferenza fisica. I dottori, incapaci di diagnosticare la causa dei suoi dolori paralizzanti e dello stato di estrema spossatezza che la affligge, le hanno riempito la vita di di acronimi e sigle – Pots, Me, Cfs, Fnd – come fossero indizi allettanti che però non portano da nessuna parte, non aiutano a capire cosa abbia in realtà. In mezzo a tutto ciò, invece di aspettare la soluzione del mistero, lei fa di tutto per vivere una vita degna di essere definita tale.

Come nota Josie, siamo estremamente fragili e viviamo gioie fugaci

“Mi concentro con tutte le forze sulle cose che posso controllare, per piccole che siano; mi concentro sul mondo che mi circonda e su vivere, vivere e vivere. Ho una bella vita, una vita ricca. Evito di farmi troppe domande e per quel che si può, lascio che il resto vada come deve. Cos’altro c’è da fare?”. Molti di noi si sono accorti che il confinamento ci ha aperto la mente, rendendoci più attenti alle piccole cose e a ciò che è a portata di mano, e tutto questo risuona nel libro di George: “Io noto tutto, voglio tutto”.

Quelli sono i giorni buoni. Nei momenti peggiori la rabbia e il sentimento di frustrazione si impossessano di lei e non riesce nemmeno a fingere che non sia così. “Ci sono giorni in cui sono furiosa e sbatterei la mia vita al muro”. In queste parole leggo coraggio, non sete di martirio o un senso di ipocrita superiorità morale. È una persona vera, a pezzi eppure completa, ferita e imperfetta ma integra.

Di tanto in tanto ci sono periodi in cui le sue condizioni migliorano sensibilmente, poi di nuovo peggiorano e lei non può di nuovo camminare, lavorare, è costretta all’immobilità nonostante la sua forte volontà. In questi momenti, sulla tragedia prevale la monotonia: “Forse è per questo che storie del genere non sono mai state raccontate, storie basate sul prevedibile ciclo di una malattia cronica, con i continui eterni alti e bassi. È molto facile essere noiosi”.

Ma né lei né tantomeno il suo libro sono noiosi. Non starò qui a dirvi che avremmo tutti da imparare dal suo libro – mi sembrerebbe un’imposizione e non credo, comunque, che lei voglia essere presa come esempio o modello. È fin troppo onesta riguardo tutte le volte che sente di aver fallito nella vita. Ciò nonostante, per me è fonte di ispirazione, soprattutto nelle sue riflessioni sulla natura stessa della vita. Come nota Josie, siamo estremamente fragili e viviamo gioie fugaci. “Nessuno di noi è libero: siamo tutti in gabbia, ognuno di noi con le proprie ferite e sofferenze, ognuno terrorizzato dalla perdita e dal dolore”.

Leggendolo, mi sono messa a ragionare sul termine “patologie croniche pregresse”, sconosciuto a molti di noi prima di quest’anno e che invece è diventato per qualcuno la scusa di togliersi l’impaccio dei morti di covid, un modo di dar la colpa a loro, ai malati, di non essere stati abbastanza forti e in salute per scrollarsi di dosso il virus. Josie George ha molte patologie croniche, come d’altronde l’orribile maggior parte di noi.

Essere vivi è una patologia cronica. Essere umani lo è.

(Traduzione di Mariachiara Benini)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it