Le divergenze tra Cina e Giappone tendono a degenerare rapidamente, sfociando in insulti e tensioni politiche. In questi giorni un console cinese ha parlato di “tagliare la gola” alla premier giapponese, mentre un editorialista l’ha definita “strega diabolica”. Il ministero degli esteri di Pechino si è mostrato appena più diplomatico.
A riaccendere vecchie braci mai del tutto spente è stata una dichiarazione pronunciata davanti al parlamento dalla nuova leader del governo giapponese Sanae Takaichi, una “lady di ferro”. Takaichi ha fatto presente che un’invasione cinese di Taiwan potrebbe essere considerata dal Giappone una “minaccia esistenziale” e richiedere una risposta militare. Mai un capo di governo giapponese si era spinto fino a tanto.
Per Pechino, che considera Taiwan un “affare interno”, la dichiarazione di Takaichi è una chiara ingerenza negli affari cinesi. Da quando è stata pronunciata, il governo cinese ha alzato costantemente i toni contro il vecchio nemico della seconda guerra mondiale, con il rischio di alimentare un nazionalismo già molto diffuso tra i giovani.
Nuovo contesto
La questione di Taiwan non è una novità, ma il contesto sì. I leader dell’isola rivendicata da Pechino, infatti, sono sempre più diffidenti davanti al comportamento del presidente statunitense Donald Trump, che ha sospeso la vendita di armi a Taiwan e ha riproposto una posizione strategica ambigua, mentre il suo predecessore Joe Biden aveva sostenuto Taipei in modo più esplicito. Oggi sull’isola temono che Trump possa abbandonare Taiwan nel caso in cui dovesse essergli utile per ottenere un deal, un accordo con Pechino.
Esasperando lo scontro, la premier giapponese vuole dimostrare alla Cina che le ambiguità statunitensi non devono essere interpretate come un via libera all’aumento della pressione su Taiwan. L’ex isola di Formosa è stata una colonia giapponese per più di cinquant’anni, ed è rimasta in buoni rapporti con Tokyo. Diversi anni fa, a Taipei alcuni funzionari mi avevano parlato di una protezione giapponese in caso di un cedimento statunitense.
D’altronde i leader taiwanesi stanno cercando di diversificare i contatti. La vicepresidente Hsiao Bi-khim, per esempio, è stata autorizzata per la prima volta a rivolgersi agli eurodeputati a Bruxelles, un gesto condannato da Pechino.
A Tokyo provano a calmare le acque sottolineando l’inesperienza della premier, che ha cominciato il suo mandato il mese scorso. Ma è chiaro che la dichiarazione di Takaichi corrisponde alla sua visione politica.
La crisi lascerà tracce profonde, anche perché arriva in un momento di ricomposizione dei rapporti di forze globali, soprattutto in Asia orientale all’ombra del gigante cinese. In caso di un indebolimento della presenza statunitense, il Giappone è l’unico paese a poter contrastare le rivendicazioni egemoniche della Cina nella regione.
Negli ultimi anni la questione di Taiwan è stata oscurata dalle guerre in Ucraina e in Medio Oriente, ma resta uno dei focolai di crisi del pianeta. Per Pechino un intervento militare non è l’unica opzione per ottenere una riunificazione sul modello di Hong Kong o Macao, ma i leader cinesi non l’hanno mai esclusa.
Forse Takaichi ha detto qualcosa che chi guida il Giappone non dovrebbe mai dire, ma almeno ha avuto il merito di ricordare alla Cina e al resto del mondo il potenziale esplosivo di un uso della forza a Taiwan.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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