Domenica mattina il parco di Belgrado, di fronte alla stazione degli autobus, era quasi vuoto. Due giorni prima la Macedonia aveva chiuso le frontiere dopo aver decretato lo stato di emergenza per fermare l’arrivo di migliaia di migranti. Con la riapertura delle frontiere venerdì sera, secondo la Croce rossa, più di seimila persone sarebbero entrate in Serbia attraverso la Macedonia, dirette a Belgrado in autobus o in treno.

In serata il parco era di nuovo pienissimo. Centinaia di persone cercavano di riposare un po’. Tra gli alberi erano state montate decine di tende, ma la stragrande maggioranza dei nuovi arrivati ha passato la notte all’aperto. Tra loro molte donne e bambini, spesso piccolissimi (dall’inizio dell’anno 15mila minori hanno chiesto asilo in Serbia, quattromila non accompagnati).

Mentre non smettono di arrivare profughi stremati, le autorità, le istituzioni internazionali e le ong si fanno notare per la loro assenza. Veicoli della polizia pattugliano i dintorni del parco, ma sono rarissimi i poliziotti che entrano, lasciando così ampio spazio a strane manovre: una decina di uomini con addosso dei gilet fosforescenti cercano di farsi pagare un passaggio fino alla frontiera con l’Ungheria.

Alcuni cittadini si organizzano per offrire aiuto agli 83mila profughi che hanno attraversato la Serbia dall’inizio dell’anno, ma la miseria attira anche un buon numero di approfittatori. “È la comédie humaine tale e quale alle descrizioni di Balzac, trasposta nel ventunesimo secolo”, osserva Kawa, un curdo siriano che insegnava francese a Hassaké.

L’esercito sparava proiettili di gomma, ci siamo messi a correre senza mai fermarci e abbiamo superato la frontiera

Kawa è appena arrivato a Belgrado con la sua famiglia. Ha aspettato 24 ore alla frontiera grecomacedone. Ancora sconvolto, racconta che sua figlia di un anno è svenuta dopo aver respirato i gas lacrimogeni usati dai poliziotti macedoni per respingere la folla. Ex dipendente del consolato francese ad Aleppo, adesso vuole raggiungere la Germania, dopo aver lasciato la sua città natale di fronte all’avanzata del gruppo Stato islamico.

Anche Abir racconta le scene di sconforto e caos alle quali ha assistito alla frontiera con la Macedonia: “L’esercito sparava con proiettili di gomma, ci siamo messi a correre senza mai fermarci e abbiamo superato la frontiera”. Questa giovane di vent’anni è responsabile dei suoi fratelli e delle sue sorelle più piccole. Insieme tentano di arrivare in Svezia, dove la loro madre vive già da qualche anno. “Desidero con tutta me stessa arrivare, fare una doccia, avere dei vestiti puliti e dormire”, dice. “È tutto quello che desidero in questo momento”.

Il 19 agosto, il primo ministro serbo Aleksandar Vučić è andato nel parco per incontrare alcuni profughi. Ha detto di voler “fare di tutto” affinché si sentano al sicuro in Serbia. Ha inoltre annunciato l’apertura di un centro di accoglienza a Belgrado.

Con l’imminente chiusura della frontiera meridionale dell’Ungheria, alcuni temono un blocco al nord della Serbia. Secondo il ministro dell’interno Ivica Dačić, questa nuova “cortina di ferro” non dovrebbe comportare un aumento del numero di profughi in Serbia, che potrebbero dirigersi verso la Croazia o la Bulgaria.

Per il momento, la situazione dimostra l’incapacità attuale della Serbia di far fronte a un afflusso importante di profughi. Domenica sera, nel parco di fronte alla stazione, malgrado le promesse del primo ministro, erano abbandonati al loro destino.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo reportage è stato pubblicato su Courrier des Balkans all’interno del progetto#OpenEurope, un osservatorio sulle migrazioni a cui Internazionale aderisce insieme ad altri nove giornali. I partner del progetto sono Mediapart (Francia), Infolibre (Spagna), Correct!v (Germania), Le Courrier des Balkans (Balcani), Hulala (Ungheria), Efimerida ton syntakton (Grecia), VoxEurop, Inkyfada (Tunisia), CaféBabel.

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