La hall del Renaissance Cairo Mirage City Hotel, in un quartiere benestante a est della capitale egiziana, è affollata. Un viavai di turisti cinesi che scaricano valigie, hostess che si sistemano i tailleur prima di raggiungere l’aeroporto e agenti baffuti dei servizi segreti egiziani che fumano sigarette.

In mezzo a questo caos, gruppi di ex detenuti palestinesi, con i volti emaciati e i capelli rasati, sono appoggiati ai tavoli del bar. Incollati ai loro smartphone, non riescono a credere al miracolo tecnologico che si sta compiendo tra le loro mani: i volti dei loro cari, con cui parlano per la prima volta dopo anni, appaiono sugli schermi.

Bassem Khandaqji al Cairo, Egitto, 14 novembre 2025 (Per Le Monde)

Due uomini sfoggiano occhiali da vista nuovi di zecca. Sarà perché non credono ai loro occhi o per via degli anni passati a scrivere nella penombra della prigione? Nasser Abu Srour, 56 anni, e Bassem Khandaqji, 42, fanno ancora fatica a distinguere i contorni di questo nuovo mondo. Condannati all’ergastolo (il primo nel 1993 per il presunto omicidio di un ufficiale dei servizi segreti israeliani, il secondo nel 2004 con l’accusa di aver partecipato a un attentato a Tel Aviv), hanno passato più della metà della loro vita in prigione.

Durante la detenzione, entrambi hanno preso la penna per cercare di far sparire le sbarre della loro cella. Il 18 novembre Nasser Abu Srour ha ricevuto il Prix de la littérature arabe, assegnato dall’Institut du monde arabe di Parigi, per il libro Il racconto di un muro (Feltrinelli 2024), tradotto in francese da Stéphanie Dujols (anche lei premiata). Ha ringraziato la giuria con un video. L’ultimo libro di Bassem Khandaqji, Una maschera color del cielo (e/o 2024), è stato premiato l’anno scorso con l’International prize for Arabic fiction, soprannominato il Booker prize arabo, mentre lui era ancora nelle carceri israeliane.

Il 13 ottobre, quattro giorni dopo l’accordo di cessate il fuoco promosso dagli Stati Uniti e concordato tra Israele e Hamas, che prevedeva il rilascio di circa duemila prigionieri palestinesi, i due scrittori sono stati liberati. Sono stati caricati su un autobus diretto al Cairo e in poche ore si sono ritrovati tra gli sfarzi di questo albergo a cinque stelle. Ora sono agli arresti domiciliari, salvo autorizzazione speciale rilasciata dai servizi di sicurezza egiziani.

Nasser Abu Srour al Cairo, Egitto, 16 novembre 2025 (Per Le Monde)

Sospiro di sollievo

Nel giardino tra le palme ben potate vagano figure incurvate da anni di reclusione. Alcuni ex detenuti sguazzano in piscina. Uno di loro, un colosso barbuto, fa ruotare i polsi nell’acqua, come per sciogliere articolazioni a lungo immobilizzate. “Sembra una cura disintossicante!”, dice Bassem Khandaqji con un sorriso, prima di accigliarsi. “Ho sognato a lungo questo momento. Quale sapore avrebbe avuto la libertà, quale odore? Ma oggi, se chiudo gli occhi, i miei pensieri tornano costantemente alla mia cella”, continua massaggiandosi le costole doloranti con mani sottili dalla pelle traslucida.

Il ricordo del frastuono della prigione lo perseguita senza sosta: “Rumori terrificanti di colpi, sirene, oppressione. Per non parlare delle voci di chi chiede di uscire”. Khandaqji è calvo, ha la barba a punta e indossa un’elegante camicia di velluto a coste. All’inizio di ottobre l’ong israeliana HaMoked ha registrato 11.056 palestinesi nelle carceri israeliane, di cui 3.544 in detenzione amministrativa e 2.673 “combattenti illegali”, uno status riservato principalmente agli abitanti di Gaza, che consente di tenerli rinchiusi senza processo né giudizio.

Nonostante il comfort del loro albergo, di cui è difficile sapere chi sostiene i costi, il gusto della libertà ritrovata è amaro. Tra quelli liberati, 154 detenuti sono ora banditi dalla Palestina, con il governo di Benjamin Netanyahu che invoca ragioni di “sicurezza nazionale”. “L’esilio è la continuazione della prigione: ti tiene lontano dalla tua terra e dalle persone che ami”, si rammarica Khandaqji. “Dopo 21 anni di catene e dolore, è come un nuovo trasferimento”.

Lui ha sempre nutrito la speranza di una liberazione. Nasser Abu Srour, invece, si era rassegnato alla reclusione. Solo quando ha attraversato il valico con l’Egitto, a Rafah, ha tirato un sospiro di sollievo. Scostando con un colpo secco la tenda dell’autobus, ha esclamato: “Mio Dio, quanto è immenso il cielo!”. Dalla finestra della sua camera d’albergo inondata dalla luce di metà ottobre, guarda fuori con stupore. Appoggiati al bancone del bar della piscina, due turisti in costume da bagno ordinano dei cocktail. “È surreale. Per 33 anni ho vissuto come in una caverna. In carcere vedi il mondo attraverso la cruna di un ago. E, all’improvviso, non è solo una porta che si apre davanti a te, ma la vita intera”, continua, sopraffatto dai tanti colori e suoni. Dopo decenni di detenzione, è assalito da domande futili. “Ho preso la chiave della mia stanza? Gli occhiali, il telefono, l’accendino? Dimentico sempre qualcosa. In prigione, la vita quotidiana si riduce a pochi dettagli. Fuori, è complessa. Al ristorante passo ore a guardare il menù e alla fine non mangio nulla”, scherza accendendo una sigaretta. Immerso nelle spirali di fumo, si lascia trasportare dai ricordi.

Nato nel 1969 nelle misere baracche del campo profughi di Aida, alla periferia di Betlemme, “città della pace che la pace non l’ha mai conosciuta”, Nasser Abu Srour è un figlio della “generazione delle pietre”, quelle lanciate contro l’occupante israeliano. Di una famiglia modesta, “persone senza voce che non avevano più la forza di gridare” – il padre rigattiere, la madre addetta alle pulizie, altri sette fratelli e sorelle –, si unì al movimento di lotta contro l’occupazione quando scoppiò la prima intifada, nel 1987.

Una notte del gennaio 1993 fu svegliato dal freddo metallo di un fucile sulla fronte. Accusato dell’omicidio di un ufficiale dei servizi segreti israeliani, fu arrestato e mandato alla sezione interrogatori, dove i suoi carcerieri gli strapparono una confessione. “Colpevole o innocente, sotto tortura avrei ammesso qualsiasi cosa”, dice. Parla lentamente, soppesando ogni parola. Rinchiuso in isolamento nella prigione di Ramleh, a sudest di Tel Aviv, scarabocchiò due parole sul muro: “Addio, mondo”. “Ho deciso di abbandonare la vita all’esterno. Era davvero vita quella di un bambino in un campo profughi che il mondo intero ignora? In quella vita ero già prigioniero. Il muro che circondava il mio campo era lo stesso che ho trovato in prigione. Aveva solo assunto un altro volto”, riflette.

Una generazione separa i due scrittori. Quattordici anni segnati dalla lenta agonia della rivoluzione palestinese e dal cocente fallimento del processo di pace nato con gli accordi di Oslo del 1993. All’inizio degli anni duemila, Bassem Khandaqji studiava giornalismo all’università An-Najah di Nablus, in Cisgiordania. Era nato in quella città nel 1983, crescendo tra i libri di una famiglia di bibliotecari, e poi aveva aderito al Partito comunista. Quando la popolazione palestinese si ribellò nella seconda intifada (2000-2005), entrò nel Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp, fondato da George Habash nel 1967). Accusato di aver partecipato a un attentato compiuto nel 2004 al mercato Carmel di Tel Aviv, che causò tre morti e più di cinquanta feriti, fu arrestato a 21 anni e condannato a tre ergastoli. “Abbiamo preso le armi per difendere la nostra libertà. Era la guerra. Il sangue è stato versato da entrambe le parti. Come palestinese, non sono nato per uccidere né per essere ucciso. Sono nato per essere libero, uguale a qualsiasi altra persona su questa terra”, si giustifica, rimanendo vago sulla natura esatta del suo coinvolgimento.

Inventare un alfabeto

Entrambi gli scrittori hanno conosciuto l’isolamento, la tortura, i maltrattamenti e i trasferimenti continui. Si sono incontrati più volte nei dedali del sistema carcerario israeliano, in particolare nel centro di massima sicurezza di Hadarim. A volte si rileggevano a vicenda, scambiandosi i manoscritti.

Scrivere in carcere è un’impresa difficile. Bisogna procurarsi blocchi per gli appunti e penne, sfuggire allo sguardo delle guardie. Soprattutto, bisogna usare l’astuzia per far uscire i testi. Se per comporre il suo primo libro Abu Srour ci ha messo dieci mesi, per far uscire tutte le pagine gli ci sono voluti due anni. Le ha disseminate, nascondendole in lettere ai suoi cari o inviando foto e registrazioni vocali con telefoni di contrabbando.

I due autori condividevano il desiderio di comprendere la società israeliana. Dietro le sbarre, entrambi hanno frequentato un master in studi israeliani all’università Al Quds di Gerusalemme. Hanno studiato l’ebraico, guardavano la tv e leggevano i giornali israeliani. “Ho imparato l’ebraico dalla ‘bocca del lupo’, per riprendere le parole dello scrittore algerino Kateb Yacine”, spiega Khandaqji. “In fin dei conti la lingua è un bottino di guerra, è qualcosa che vinci su chi ti ha colonizzato”.

“Quando entri in carcere, la prima cosa che ti tolgono è la voce”, racconta Abu Srour. “Ti privano della tua capacità di esprimerti. Ti portano via le parole. Così ho dovuto rassegnarmi a inventare il mio alfabeto”. L’incontro con il pensiero del filosofo danese Søren Kierkegaard, in un articolo pubblicato su un giornale israeliano nel 2018, ha scatenato in lui una febbre per la scrittura che non l’ha più abbandonato.

Nel corso delle pagine del Racconto di un muro allarga il guscio che lo imprigiona, scarabocchia e si arrampica sulle pareti, dialoga con la sua unica costante: un muro freddo e muto. “Ho smesso di considerarlo un pezzo che fa parte di un immenso blocco di cemento, la prigione, che mi rinchiudeva e mi soffocava. L’immaginazione mi ha permesso di dargli una nuova forma, quella di un compagno. Abbracciando la mia geografia carceraria, ho ritrovato la mia capacità di esprimermi. Non ho voluto sfuggire al mio muro, mi sono legato a lui”.

Se Abu Srour s’immerge nell’introspezione, Khandaqji fugge all’esterno. La sua penna lo proietta all’aria aperta. In Una maschera color del cielo si intrufola clandestinamente nel cuore dello stato ebraico. Munito di una carta d’identità israeliana trovata per caso che gli servirà da “maschera”, l’eroe, Nour, diventa Orr, un archeologo. Passa dall’altra parte dello specchio, assume le sembianze dell’occupante e vede attraverso i suoi occhi.

Le opere

Il racconto di un muro, l’autobiografia di Nasser Abu Srour, è uscito nel giugno 2024 edito da Feltrinelli, con la traduzione di Elisabetta Bartuli. Abu Srour è stato arrestato nel 1993 con l’accusa di essere coinvolto nell’omicidio di un ufficiale dei servizi segreti israeliani ed è stato condannato all’ergastolo.

Una maschera color del cielo di Bassem Khandaqji è stato pubblicato nell’ottobre 2024 da edizioni e/o, tradotto da Barbara Teresi. Lo stesso anno Khandaqji ha vinto l’International prize for arabic fiction, il premio internazionale per la narrativa araba. Nel 2004 è stato condannato da un tribunale militare israeliano a tre ergastoli perché ritenuto colpevole di aver partecipato a un attentato a Tel Aviv.

◆ Abu Srour e Khandaqji sono stati liberati insieme ad altri duemila detenuti palestinesi il 13 ottobre 2025, nell’ambito dell’accordo di cessate il fuoco nella Striscia di Gaza raggiunto pochi giorni prima da Israele e Hamas. Sono tra i 154 detenuti, la maggior parte condannati all’ergastolo per attentati contro israeliani, esiliati da Tel Aviv in Egitto.


Pagina dopo pagina, Khandaqji fa dialogare le due società, mette in discussione i vincoli dell’identità in un territorio segregato e offre una critica anticoloniale dell’occupazione ispirata alle “maschere bianche” di Frantz Fanon. “In carcere mi sono creato una nuova identità. La scrittura mi ha protetto, mi ha dato una piccola patria. La reclusione ti costringe a diventare più forte. Ho scambiato il fucile con la penna. Ho scoperto che le idee sono più forti dei proiettili”, afferma Khandaqji, per il quale la pubblicazione di ogni suo libro è stata una “vittoria”. Ogni giorno si alzava all’alba per scrivere in segreto. La mattina del 7 ottobre 2023 “la luce si è spenta”, racconta. Niente più discussioni, colloqui, evasioni letterarie. Niente carta né matita, niente rasoio né specchio. Oltre alla tortura e alle percosse, ai detenuti sono state negate anche le cure e le medicine. “In tempo di guerra, le carceri israeliane si trasformano in macchine per uccidere e disumanizzare. Non sei altro che un corpo su cui non hai più alcun diritto”, aggiunge Abu Srour. Almeno 98 palestinesi sono morti nelle prigioni israeliane dal 7 ottobre 2023, ha affermato il 17 novembre Physicians for human rights Israel, un’organizzazione di medici impegnati nella difesa dei diritti umani.

Da quando è arrivato al Cairo, Khandaqji ha partecipato ad alcuni incontri nei club letterari della capitale egiziana. “Come palestinesi, abbiamo bisogno di una rifondazione. La battaglia non si combatte più con le armi, la violenza e l’odio. Ora è una battaglia culturale, universale e anticoloniale”, conclude. Khandaqji ha già scritto mentalmente il prossimo libro, ripetendo all’infinito le frasi nella sua testa.

Per i due autori, come per gli ex detenuti esiliati in Egitto, il futuro è solo tratteggiato. L’ambasciata palestinese al Cairo presto dovrebbe dargli i passaporti. Diversi paesi, come la Turchia, il Qatar, l’Algeria o il Pakistan, si sarebbero detti pronti ad accoglierli, ma non ci sono conferme. “Che senso dare alla parola libertà? Vivevo recluso in Palestina e non ero libero. Oggi sono fuori, bandito, e non sono libero”, recrimina Abu Srour.

Bloccato in Egitto senza uno status giuridico, ha avuto la fortuna di abbracciare alcuni suoi cari, venuti dalla Giordania. Hanno portato salvia palestinese e bottiglie di profumo per coccolare un fratello e un figlio che temevano di non rivedere mai più. Ma soprattutto, Abu Srour ha ritrovato la donna che ha ispirato la seconda parte del suo libro: Nadia Daqqa, un’avvocata italo-palestinese incontrata nel parlatorio di Hadarim. “La nostra relazione è cominciata quando tra noi c’erano confini permanenti. Ho imparato ad amarla nonostante questi ostacoli, senza poterla toccare né conoscere la consistenza dei suoi vestiti, della sua mano. L’amavo così. Oggi il vetro è scomparso”, si rallegra.

Lo scrittore si sente investito di un’immensa responsabilità: “D’ora in poi, voglio raccontare la storia di questo paese a chiunque voglia ascoltarla. Voglio essere la sua lingua. La sua voce che è stata soffocata”. Abu Srour e Khandaqji sono convinti che la dolorosa lontananza dalla Palestina rafforzerà la loro penna ostinata. Hanno già inviato i manoscritti dei loro prossimi libri alla casa editrice, la Dar al Adab di Beirut. ◆ adg

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Questo articolo è uscito sul numero 1644 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati