Le violenze che si sono verificate nel sud della Siria dal 13 luglio tra la comunità drusa e i beduini sunniti evocano la brutalità, ma anche il linguaggio e i metodi, di un’epoca che molti speravano chiusa. Come nei massacri di marzo ai danni della comunità alawita sulla costa, l’altro – alawita, druso, beduino, sunnita, cristiano o sciita – diventa una bestia da macellare, con intere famiglie decimate e miliziani che inneggiano alla “pulizia etnica”. Le esecuzioni sommarie, gli stupri, i rapimenti, i saccheggi e le umiliazioni hanno riacceso il terrore. “Pensavamo che la paura fosse finita. Ma la diffidenza reciproca è così radicata che non può scomparire da un momento all’altro”, dice lo storico Amar Moustafa. I siriani contano nuovamente i morti: l’entità della distruzione non è la stessa, ma la situazione attuale ricorda crudelmente la vecchia. “Si ripete ciò che è stato già detto e fatto”, conferma lo scrittore e intellettuale Farouk Mardam Bey.

Per comprendere il peso dell’eredità del baathismo (un’ideologia nazionalista araba che si è affermata soprattutto in Siria e in Iraq) nella nuova era, bisogna esaminare i meccanismi del potere settario. Pur essendo fondato su un’ideologia laica basata sul nazionalismo arabo e sul panarabismo, il regime degli Assad si basava su un clan minoritario che si affidava a un gioco di alleanze e divisioni per mantenere il potere. Con il colpo di stato del 1963, gli esponenti della comunità alawita avevano progressivamente assunto posizioni di responsabilità nell’apparato militare. “Il nuovo partito voleva creare un esercito forte e ‘purificato’ su cui contare, effettuando licenziamenti di massa che colpirono soprattutto i sunniti”, spiega Mardam Bey.

L’epurazione dei centri di potere fu rafforzata dopo l’arrivo al potere di Hafez al Assad nel 1970. Il clan estese il suo dominio alla sicurezza, alla politica, all’economia e alla finanza. Allo stesso tempo, la sanguinosa repressione delle regioni a maggioranza sunnita aveva alimentato il risentimento dall’inizio degli anni ottanta. “Senza essere di natura confessionale, il regime di Assad era diventato il principale produttore di confessionalismo”, aggiunge Joseph Daher, esperto di Siria.

Quel confessionalismo era l’eredità di secoli di dominio ottomano e della formula dei “millet” (comunità religiose musulmane) che sistematizzava l’organizzazione della vita sociale e politica secondo criteri comunitari. Il mandato coloniale francese riprese e accentuò le divisioni con la creazione di entità politiche confessionali (lo stato della Siria, a maggioranza sunnita, lo stato degli alawiti e lo stato dei drusi), dagli anni venti del novecento.

Terreno fertile

Il regime di Assad non aveva inventato niente di nuovo ma ha contribuito ad amplificare un fenomeno, sopravvissuto alla sua fine. Joseph Daher osserva: “L’attività al vertice mette in moto dinamiche sottostanti nelle comunità e nei gruppi etnici, che in alcuni casi strumentalizzano le identità a fini politici”. Cinque decenni di dittatura hanno modellato una società frammentata lungo linee confessionali e regionali. Alawiti, drusi, beduini, cristiani, sunniti, sciiti, curdi: oggi nessuna comunità sfugge ai riflessi identitari, e ognuna adotta una griglia interpretativa relativa alla sua storia, guardando le altre con ostilità, mentre l’impulso di “sopravvivenza” delle une risponde alla “vendetta” di altre in un ciclo di violenza senza fine.

Il nuovo governo ha ereditato una società divisa anche da altri fattori su cui si innesta la dimensione confessionale. Il rapporto di forza tra centro e periferie resta fondamentale. Secondo il presidente ad interim Ahmed al Sharaa, il sud, l’ovest e il nordest sono territori che sfuggono al controllo dello stato. Inoltre va tenuto in considerazione il sostegno di potenze esterne all’una o all’altra comunità. Da dicembre, l’intervento di Israele a fianco dei drusi siriani ha rovesciato l’equilibrio delle forze tra Damasco e la provincia, a vantaggio della seconda.

Anche se il terreno era fertile, lo scenario peggiore che si è verificato non era inevitabile. “Le violenze sono state costruite con obiettivi politici”, insiste Daher. Cambiando veste, Al Sharaa voleva convincere di essere pronto a cambiare modo di agire. La facciata è stata ridipinta. La rivoluzione ha trionfato, Assad se n’è andato. L’industria della morte che ha tolto la vita a mezzo milione di siriani è terminata. A Damasco, i responsabili hanno cambiato volto. I nuovi amministratori parlano di “giustizia”, “diritti” e “libertà”. Giurano di voler mettere fine al dominio di una comunità sulle altre. Ora gli abusi sono condannati ai vertici. Dopo le uccisioni di Al Suweyda, Al Sharaa ha dichiarato di voler porre rimedio ai crimini commessi da “chi ha trasgredito e abusato del nostro popolo druso”. Il modello è tristemente familiare.

Gli ultimi sette mesi hanno dimostrato che una caratteristica fondamentale della politica dello stato è sopravvissuta al cambio di regime. La comunità è ancora il fulcro del potere centrale per imporre e mantenere la sua autorità, con la forza e il sangue se necessario. Il nuovo regime, che proviene dalla maggioranza sunnita, non ha più bisogno di stringere alleanze fuori della sua comunità. Ma i nuovi padroni di Damasco continuano a vedere la politica come un rapporto di forza in cui l’appartenenza alla comunità è una leva di potere.

“Nonostante le limitate capacità a tutti i livelli, il nuovo governo ha voluto consolidare il suo potere assicurandosene il monopolio, senza una transizione democratica inclusiva”, osserva Daher. “La sua strategia è triplice: fare affidamento sul riconoscimento internazionale, assumere il controllo delle istituzioni statali e strumentalizzare il confessionalismo, in particolare giocando sul concetto di ‘mazloumyié sunnyié’ (l’ingiustizia storica fatta ai sunniti) per creare un blocco sunnita omogeneo”. Ad Al Suwayda, come sulla costa, le operazioni militari condotte da Damasco sfruttano il risentimento della comunità contro le minoranze, accusate di aver beneficiato del vecchio sistema per piegare le resistenze locali all’autorità centrale. “Queste strategie di controllo, mobilitazione e divisione della popolazione ricordano quelle di Assad”, conclude Daher. Ma la scommessa è rischiosa. Puntando sulla carta confessionale, Damasco rischia di perdere il controllo del territorio. ◆ adg

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Questo articolo è uscito sul numero 1624 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati