Panamá vive in questi giorni la peggiore crisi dal ritorno della democrazia nel 1989. Alla fine di aprile i sindacati degli operai e degli insegnanti hanno dato il via a uno sciopero nazionale che ha paralizzato settori chiave del paese. Protestavano contro la riforma del sistema pensionistico, l’accordo con cui il governo ha garantito agli Stati Uniti la restituzione delle sue ex basi militari e l’intenzione di riaprire una miniera che la corte suprema aveva ordinato di chiudere nel 2023, dopo aver dichiarato incostituzionale la concessione mineraria.
Le scene sono diventate familiari: marce di protesta dirette verso il palazzo presidenziale, blocchi stradali sulla Panamericana e una repressione violenta, denunciata sui social network. Al confine con la Costa Rica i lavoratori dell’azienda bananiera Chiquita hanno bloccato Bocas del Toro per tre settimane, fino al 27 maggio, quando il governo ha dichiarato lo stato d’emergenza; nella capitale attivisti, donne e studenti convocano manifestazioni ogni settimana; alla frontiera con la Colombia i nativi hanno denunciato le violenze della polizia e hanno scritto una lettera a papa Leone XIV chiedendo il suo aiuto. Tutto il paese sembra vivere in uno stato di mobilitazione permanente, che comincia ad assumere i contorni di una crisi di governabilità.
“Panamá ha perso la sua stabilità politica”, afferma Harry Brown Aráuz, sociologo del Centro internazionale di studi politici e sociali di Panamá.
Crisi strutturale
Il malessere in uno dei paesi con le disuguaglianze più forti della regione viene da lontano e nasce da una combinazione di fattori, o meglio, di mancanze. Da una parte ci sono quelle materiali: la disoccupazione e il peso dell’economia informale sono in aumento, gli stipendi sono bassi e mancano i servizi di base. Dall’altra ci sono le mancanze politiche: i cittadini non riescono a incidere sui processi decisionali. È un modello ingiusto, sostenuto da alcuni gruppi di potere che si sono accaparrati i benefici generati dagli eccezionali tassi di crescita degli ultimi trent’anni. Secondo gli esperti, tutto ciò spiega perché le proteste superano i tentativi di mediazione.
Nel 2019 studenti, insegnanti, lavoratori e attivisti avevano bloccato una riforma costituzionale che il governo voleva approvare senza consultare la popolazione. Durante la pandemia dai balconi delle case i cittadini avevano protestato a colpi di pentola contro la corruzione e per chiedere migliori politiche pubbliche, sanitarie e di gestione dell’acqua.
Nel 2022 l’aumento del costo della vita ha fatto scendere in piazza migliaia di panamensi, bloccando le strade per mesi. L’anno dopo le proteste contro l’industria mineraria, ancora in corso, hanno superato tutte le manifestazioni precedenti per numero e intensità.
Oggi si aggiungono la paura di ricevere una pensione misera, la percezione di un governo disposto a tutto per compiacere gli Stati Uniti e la marcia indietro su una conquista popolare senza precedenti nella regione: la chiusura nel 2023 dell’enorme miniera Cobre Panamá, gestita dall’azienda canadese First Quantum. Nonostante il grave malcontento, il governo del presidente conservatore José Raúl Mulino reagisce con le ricette di sempre.
Ma rispetto a qualche anno fa, è aumentata la rabbia contro la violenza della polizia, la criminalizzazione delle proteste e gli arresti dei leader sindacalisti. Mulino, in carica dal luglio 2024, ha fatto campagna facendo leva sull’immagine dell’ex presidente Ricardo Martinelli (2009-2014) e promettendo denaro fresco con lo slogan “chen chen (soldi) nelle tue tasche”. Un anno dopo, con uno scarso sostegno al di fuori del settore imprenditoriale, invece dei soldi è esplosa la rabbia. A febbraio il presidente ha definito “mafioso” e “criminale” il sindacato più potente di Panamá, il Suntracs, e ha avvisato: “Pagherete il prezzo della legge”. In tre settimane molti sindacalisti sono stati arrestati con varie accuse, dal disturbo dell’ordine pubblico alla truffa aggravata. Il caso più eclatante è quello di Saúl Méndez, il segretario generale di Suntracs, che ha chiesto asilo politico nell’ambasciata della Bolivia a Panamá. La richiesta di asilo di Méndez non ha precedenti, anche se c’è chi lo paragona all’impunità che Martinelli, condannato per corruzione e riciclaggio di denaro, ha ottenuto fuggendo in Colombia.
Mulino ha anche definito “cinque gatti che non pagano le tasse” i milioni di persone che nel 2023 hanno protestato contro l’industria mineraria, e sta facendo pressione su chi sciopera minacciando licenziamenti. Mentre la sua amministrazione investe in armi e attrezzature di “dissuasione”, le organizzazioni locali e internazionali sono preoccupate per l’uso sproporzionato della forza, la mancanza di canali di dialogo e un deterioramento dell’ordine istituzionale.
Via d’uscita
Le posizioni del governo e quelle dei manifestanti continuano ad allontanarsi. Secondo gli esperti, la via d’uscita è nelle mani del presidente, che dovrebbe aprire un dialogo. “È l’unico a poter placare gli animi in questo momento”, assicura l’avvocata esperta di diritti umani Ana Carolina Rodríguez.
Per Harry Brown Aráuz è il momento di andare oltre i gesti: “Bisogna riformare e aggiornare il nostro sistema di rappresentanza”, dice. È il solo modo per far sì che le proteste di oggi trovino una risposta istituzionale.
Sulla stessa linea la politologa Claire Nevache, che propone alcune misure urgenti. Il governo deve rispondere alle richieste più forti dei manifestanti – come politiche pubbliche di qualità, lotta alla corruzione e riduzione delle disuguaglianze – e soprattutto capire un punto chiave: “La gente non è disposta a cedere sull’attività mineraria”. ◆fr
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Questo articolo è uscito sul numero 1617 di Internazionale, a pagina 38. Compra questo numero | Abbonati