In un angolo del parco che circonda l’unico museo della capitale nigerina Niamey – un’originale complesso a cielo aperto che fa anche da zoo – c’è una struttura con il tetto in lamiera ondulata che ospita imponenti repliche di fossili di animali estinti milioni di anni fa. Un venerdì pomeriggio il museo nazionale Boubou Hama brulica di bambini elettrizzati. Gridano eccitati per i grugniti degli ippopotami e i ruggiti dei leoni poco più avanti. Le risate arrivano fino alla sezione dei fossili, ma le repliche in resina – tra cui quelle di un dinosauro dal lungo collo chiamato jobaria (Jobaria tiguidensis), di un suo cugino più piccolo con una vela dorsale e di un enorme coccodrillo – vengono per lo più ignorate, fatta eccezione per due uomini che si fanno delle foto lì davanti.
Anche se gli animali in carne e ossa sono l’attrazione principale, i fossili del Niger sono una rara testimonianza della vita che prosperava in questa parte del continente prima della comparsa degli esseri umani. Le ossa originali sono conservate in un magazzino per proteggerle da furti e danni, o sono custodite all’estero. Gran parte del Sahara, tra cui un’ampia fascia del nord del Niger, è disseminata di resti di dinosauri e altri animali, che aspettano solo di essere trovati da scienziati interessati a quel mondo antico.
“Risalgono a più di cento milioni di anni fa, incredibile…”, dice il direttore del museo, Abdouramane Gabidan, mentre guarda gli esemplari esposti. Per lui è difficile immaginare che il territorio arido del Niger un tempo fosse ricoperto da foreste e grandi specchi d’acqua, intorno ai quali prosperavano animali ormai estinti e, successivamente, antiche civiltà.
I dinosauri, per esempio, vissero tra 252 e 66 milioni di anni fa, nell’era mesozoica. Gli studiosi ipotizzano che i cambiamenti climatici seguiti allo schianto di un asteroide sulla Terra li abbia fatti estinguere. In seguito i primi gruppi umani di cacciatori-raccoglitori convissero con la fauna del Sahara verde. “Molti non ci credono quando gli spieghiamo che qui un tempo c’era tanta acqua”, continua Gabidan. “Per questo è importante che vedano tutto questo e imparino la storia”.
Nonostante i tesori custoditi nelle sue sabbie, il Niger non è riuscito a trasformare questo patrimonio in una risorsa economica e a imporsi come destinazione per gli appassionati di fossili di tutto il mondo.
A causa della povertà persistente, nonostante le riserve di oro e uranio, i vari governi nigerini hanno avuto altre priorità rispetto agli investimenti nell’archeologia e nella paleontologia. Così il paese è diventato un crocevia del contrabbando, con fossili e reperti antichi trafugati e venduti a prezzi esorbitanti sul mercato nero in occidente.
L’ultimo caso riguarda il presunto furto di un meteorite raro proveniente dalla regione settentrionale di Agadez, che nel luglio 2024 è stato venduto all’asta per 4,3 milioni di dollari (circa 3,7 milioni di euro) da Sotheby’s a New York. Il governo militare di Niamey sostiene che la roccia sia stata sottratta illegalmente e ha aperto un’indagine per capire come sia successo.
Ossa troppo fragili
Dopo milioni di anni passati sottoterra, i fossili appena riportati alla luce appaiono molto diversi da quelli che i visitatori ammirano nei musei. L’imballaggio, il trasporto, la pulizia e infine il riassemblaggio richiedono un grande lavoro e spesso il coinvolgimento di squadre di scienziati e guide locali. Inoltre, per evitare il deterioramento è essenziale ricorrere a macchinari sofisticati e a magazzini a temperatura controllata.
L’uso di sostanze specifiche, per esempio colle speciali e rivestimenti in gesso, permettono ai reperti di resistere agli spostamenti e di essere esibiti. E se le ossa sono troppo fragili, al loro posto si mostrano delle repliche fedeli.
In Niger però mancano le infrastrutture necessarie. Gli archeologi si contano sulle dita di una mano. Anche per questo, oltre che per ragioni di sicurezza, i musei spesso espongono delle riproduzioni. In passato le spedizioni erano quasi sempre guidate da stranieri, in particolare da studiosi francesi che accompagnavano l’esercito coloniale tra la fine dell’ottocento e il 1960. Il geologo Hugues Faure, per esempio, s’imbatté nei primi depositi fossili mentre era alla ricerca di minerali. Il paleontologo Philippe Taquet, invece, scoprì e identificò specie come l’Ouranosaurus, un dinosauro erbivoro simile a una lucertola dal corpo rigonfio e il dorso arcuato.
Oumarou Amadou Ide, tra i più importanti archeologi nigerini e direttore scientifico all’Istituto di ricerca in scienze umane di Niamey, attribuisce il ritardo nella formazione di competenze locali al sistema educativo del Niger. O meglio, alla sua assenza.
L’università Abdou Moumouni di Niamey, la più vecchia università pubblica del paese, fu fondata solo nel 1974, decenni dopo la nascita dei primi atenei negli stati vicini. Il corso di archeologia fu introdotto due anni più tardi, e a oggi non c’è ancora una facoltà di paleontologia.
Ide, che ha conseguito un dottorato in archeologia alla Sorbona di Parigi, ha condotto scavi di fossili di dinosauro e di siti funerari e rituali quasi intatti, appartenenti a culture antiche come quella di Bura-Asinda, fiorita tra il terzo e il tredicesimo secolo nell’ovest del Niger. Dalla sua scoperta nel 1975, il sito di Bura è stato depredato a tal punto da essere inserito nella lista dei patrimoni ad alto rischio di contrabbando compilata dall’International council of museums (Icom), un’organizzazione legata all’Unesco.
“Il Niger sta dissanguando la sua cultura nazionale”, dice il professore. Rimprovera alle autorità di non riuscire a fermare le rete di trafficanti che operano attraverso l’aeroporto internazionale di Niamey e di non aver istituito una commissione dedicata alla salvaguardia del patrimonio.
Un aiuto da Chicago
Lo statunitense Paul Sereno, che insegna paleontologia e archeologia all’università di Chicago e dirige il Fossil lab dell’ateneo, è d’accordo sul fatto che l’archeologia nigerina avrebbe bisogno di strutture più solide.
Sereno cominciò a scavare nel nord del Niger nel 1997, lavorando a fianco di studiosi come Ide. In seguito è tornato nel paese più volte e durante le spedizioni ha scoperto nove specie di dinosauri. Una è il jobaria, l’erbivoro dal lungo collo la cui replica è esposta al museo Boubou Hama e che prende il nome da uno spirito del folclore tuareg. A lui si deve anche la scoperta di centinaia di tombe, tra cui quella di una madre trovata in posizione rannicchiata con accanto due bambini.
Per Sereno l’ultima spedizione, nel 2022, è stata la più ambiziosa condotta finora: una carovana di quasi cento persone tra scienziati, studenti da Chicago, guide locali e soldati nigerini con tanto di mitragliatrici montate sui loro veicoli è partita da Niamey per raggiungere il cuore del Téneré, una regione arida nel nord del Niger. In quelle aree gli archeologi hanno bisogno di una scorta armata per proteggersi dai banditi, anche perché parte del Niger è controllata dai gruppi di miliziani che operano lungo i confini con il Mali e il Burkina Faso.
“Era un piccolo esercito”, racconta Sereno. “Forse un po’ eccessivo, ma lì non ci sono strade né aerei. Il deserto è meraviglioso ma bisogna anche pensare alla sicurezza”.
Il gruppo ha lavorato senza sosta per tre settimane sotto il sole cocente, fino a recuperare 55 tonnellate di fossili. Sereno di solito manda la maggior parte dei reperti a Chicago per gli interventi di conservazione, ma il colpo di stato del luglio 2023 e il cambio di governo a Niamey hanno fermato l’ultimo carico: le ossa sono ancora sigillate nei container in attesa di partire. Mentre lavora per farle spedire, lo studioso pensa già a come riportarle indietro, insieme ad altri ritrovamenti. Sereno collabora con le autorità locali di Niamey e Agadez per costruire due musei di livello internazionale in cui esporre i reperti.
Il progetto prevede anche la creazione di centri dove formare studenti che possano contribuire alla conservazione dei fossili. “Grazie al consenso e alla generosità del Niger ho portato via la più grande quantità di materiale fossile mai estratta in tutto il continente africano”, nota Sereno. “Ho raccolto un centinaio di antichi resti umani. Naturalmente tutto verrà restituito, ma è il segno di una relazione straordinaria”.
La nuova scuola
Gabidan, che insegna gestione del patrimonio culturale all’università di Niamey, si sorprende spesso per lo scarso interesse che alcuni studenti mostrano verso gli aspetti pratici del lavoro nei musei. Racconta di doverli convincere ad affiancarlo per fargli fare esperienza.
Ma quelli che seguono il suo consiglio poi non se ne vogliono più andare, nota. Così cresce il gruppo di giovani interessati a lavorare con i fossili.
Al campus universitario di Niamey, Rachidatou Hassane, 28 anni, una delle migliori allieve di Gabidan, chiacchiera con i compagni seduta all’ombra degli alberi. Quando tre anni fa ha fatto il tirocinio al museo non aveva bene in mente cosa la interessasse. Poi è rimasta affascinata dai dinosauri e non li ha più abbandonati. Da studente si occupava della pulizia degli esemplari conservati nei magazzini, minacciati dalle termiti, e delle repliche in esposizione.
“La prima volta che li ho visti sono rimasta senza parole”, ricorda Hassane. Si era emozionata all’idea che le ossa avessero resistito per così tanto tempo. “Mi ha colpito che bastasse un buon intervento di conservazione per tenerle intatte”. Ogni osso, continua Hassane, sembrava parte di un puzzle da decifrare, un pezzo in grado di rivelare decenni o secoli di storia perduta.
In quel periodo in città si era riunita la squadra internazionale guidata da Sereno per gli scavi nel nord del paese. Rachidatou ha avuto l’occasione di lavorare con loro, aiutando nella spazzolatura e nelle delicate operazioni di imballaggio delle ossa. Il suo entusiasmo ha attirato l’attenzione del gruppo di Chicago e, nel giro di un anno, l’organizzazione non profit di Sereno, Niger heritage, si è attivata per portarla negli Stati Uniti per farle seguire un corso di formazione.
“È stata un’esperienza incredibile”, racconta Rachidatou, rientrata a Niamey dal secondo soggiorno negli Stati Uniti. Ha dovuto rispolverare il suo inglese perché, se padroneggerà la lingua, potrà aspirare a una borsa di studio per specializzarsi come conservatrice museale. Questo aspetto, tuttavia, non è stato facile da affrontare. “Negli Stati Uniti vivevo con dei parenti, ma parlavamo tutti francese e hausa”, si lamenta.
Ma se tutto va secondo i suoi piani potrà presto diventare la prima museologa del Niger, un traguardo che ora considera uno degli obiettivi della sua vita. Nei prossimi anni, probabilmente, altri studenti nigerini andranno negli Stati Uniti per studiare e per approfondire le loro conoscenze in vista della restituzione di tonnellate di fossili a Niamey.
Questi reperti dipendono ancora dalle competenze straniere, dice Gabidan nel museo, mentre il sole comincia a calare e la folla si dirada.
Ma la speranza è che un giorno i nigerini saranno in grado di gestire autonomamente il loro patrimonio. “In Africa si dice che se vuoi aiutare qualcuno non devi regalargli un pesce ma insegnargli a pescare”, conclude Gabidan. “Dobbiamo imparare per noi e per il bene del nostro popolo. Il resto del mondo deve sapere che anche noi abbiamo qualcosa da mostrare, qualcosa di cui andare fieri”. ◆ vc
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Questo articolo è uscito sul numero 1637 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati