Il 20 gennaio Mohammed al Najjar è tornato a casa sua a Rafah, all’estremità meridionale della Striscia di Gaza. L’avvocato di 24 anni, costretto a sfollare a Deir al Balah a causa dei bombardamenti israeliani, ha approfittato della tregua per visitare la casa di famiglia insieme al fratello. Quando sono arrivati, hanno scoperto che l’edificio di sei piani era ridotto a un cumulo di macerie, in cui i rottami metallici si mescolavano a pezzi di mobili e di plastica.
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Al Najjar, che è cieco, racconta la scena al telefono come gliel’ha descritta il fratello. Parla dall’ultimo piano di un palazzo di Deir al Balah, l’unico posto dov’è riuscito ad avere il segnale per telefonare. Le autorità israeliane vietano ai giornalisti stranieri di entrare nel territorio. La conversazione è intervallata dal suono delle armi automatiche nelle vicinanze. “Del nostro quartiere resta in piedi solo un edificio: un rudere bruciato dove non si può vivere”, dice Al Najjar. “Non riuscivamo a orientarci, a capire dove fosse la nostra strada, le case. Non c’era più niente”. Questo vale per quasi tutta Rafah. La città, che prima del 7 ottobre 2023 aveva circa 250mila abitanti, è stata rasa al suolo. Secondo un’analisi delle immagini satellitari condotta da Le Monde, è stato demolito il 68 per cento delle costruzioni. Quelle risparmiate dalla pioggia di bombe e missili degli ultimi diciannove mesi sono state distrutte con i bulldozer. I pochi edifici ancora in piedi sono totalmente distrutti dall’interno.
Cancellati dalla storia
Rafah, la porta d’ingresso per il Levante, la città che ha visto passare Napoleone Bonaparte e il generale britannico Edmund Allenby, sembra essere stata cancellata dalla mappa del Medio Oriente, bandita dalla storia. Un destino che simboleggia la nozione di “futuricidio”, un concetto usato da Stéphanie Latte Abdallah del Centre national de la recherche scientifique (Cnrs), per descrivere il trattamento inflitto da Israele alla Striscia di Gaza. “È una forma di violenza diretta contro una popolazione civile per sradicarla, costringerla a spostarsi, distruggere ogni possibilità di proiettarsi nel futuro”, spiega la politologa, che ha pubblicato insieme all’antropologa Véronique Bontemps il libro Gaza. Une guerre coloniale (Actes Sud). “L’idea di futuricidio comprende diverse forme di distruzione. Genocidio, ecocidio, culturicidio. È un attacco al futuro stesso”.
Il futuricidio comincia nel presente con la frammentazione o la distruzione di una determinata area e della sua popolazione. Gaza è un esempio lampante, visto che è stata ridotta in macerie da una serie di bombardamenti senza precedenti in questo secolo. Dall’inizio della guerra scatenata dal massacro compiuto in Israele da Hamas il 7 ottobre 2023, secondo le Nazioni Unite più del 90 per cento delle case è stato parzialmente o completamente distrutto. L’esercito israeliano ha ucciso quasi 53mila palestinesi, in maggior parte donne e bambini, secondo un conteggio delle autorità sanitarie dell’enclave, considerato affidabile dalle Nazioni Unite.
Il sistema scolastico di Gaza non esiste più: il 95 per cento delle 564 scuole della Striscia è inutilizzabile e le dodici università sono state distrutte. Un colpo duro per una popolazione che si vantava di avere il 4 per cento di studenti, una percentuale paragonabile a quella della Francia. Il sistema sanitario sopravvive a stento, con solo sette o otto ospedali su 36 che funzionano parzialmente. Gaza è stata distrutta, asservita al suo vicino israeliano e ridotta a mendicare aiuti alimentari dalle ong internazionali.
Un tempo gli abitanti di Gaza producevano autonomamente la maggior parte della frutta e della verdura che consumavano. Non più: l’esercito israeliano ha esteso il suo controllo a tutto il perimetro della Striscia, dov’erano presenti le coltivazioni. Serre, alberi, tutto quello che poteva bloccare la vista o fornire un nascondiglio è stato metodicamente distrutto. L’unica porta di accesso al resto del mondo, il valico di Rafah, è chiusa da quando i carri armati israeliani sono entrati nel maggio 2024.
Dopo due mesi e mezzo di blocco, che hanno portato la Striscia sull’orlo della carestia, lo stato ebraico vuole istituire un sistema di distribuzione alimentare militarizzato, affidato a una nuova organizzazione statunitense, la Gaza humanitarian foundation. Gli aiuti viaggeranno scortati da aziende di sicurezza privata statunitensi verso i centri di distribuzione nel sud della Striscia. Questo potrebbe costringere le persone che erano rimaste o erano tornate a nord a spostarsi di nuovo, se non vogliono morire di fame, senza la garanzia di poter tornare indietro. Solo una persona per famiglia potrà accedere a queste zone “neutre”, cioè senza una presenza politica palestinese, che sia di Hamas o di altre formazioni. L’ingresso a queste aree sarà gestito con un sistema di riconoscimento facciale.
“L’esercito israeliano sogna di parcheggiare la popolazione di Gaza nei campi a Rafah”, dice Al Najjar. “Il prossimo passo per noi è: bevi, mangia, taci”. Il “futuricidio” a Gaza riduce gli esseri umani ai bisogni primari: dormire, mangiare e lavarsi. “Questo diventa possibile con l’introduzione di un sistema di governo basato su un algoritmo. Non ci si rivolge più a persone, soggetti politici o a una società, ma il compito del governo è gestire un presunto pericolo”, spiega Stéphanie Latte Abdallah.
Il punto è controllare territori e corpi, ma anche l’immaginario dei palestinesi. I ventenni di Gaza hanno vissuto solo l’isolamento e una lunga serie di guerre sempre più brutali. Non hanno mai visto città senza rovine, famiglie senza “martiri” – le persone uccise dell’esercito israeliano – o il cielo senza droni.
“Un obiettivo degli israeliani è piantare nella mente delle persone il seme dell’emigrazione”, afferma Amjad Shawa, direttore di una rete di ong palestinesi, che abbiamo sentito al telefono dalla città di Gaza. In un articolo per il sito Orient XXI il giornalista Rami Abou Jamous ha scritto: “Mi rendo conto che tutto quello che facciamo, tutto quello che sperimentiamo ci fa odiare il posto in cui viviamo. Ed è proprio questo che vogliono gli israeliani”.
Territorio tossico
I bombardamenti hanno prodotto cinquanta milioni di tonnellate di macerie. Per rimuoverle serviranno più di dieci anni. Il terreno è disseminato di ordigni inesplosi. In giro sono sparse 350mila tonnellate di rifiuti che avvelenano l’aria e contaminano le falde acquifere. La terra, l’acqua e l’aria sono diventate pericolose.
“Sono stati distrutti anche gli uccelli, i campi, la natura”, afferma Samir Zaqout, uno dei direttori dell’ong Al Mezan, al telefono da Deir al Balah. “I cani e i gatti vivono per strada in condizioni insostenibili: non hanno da mangiare gli esseri umani, quindi nemmeno gli animali”.
Nel maggio 2024, in risposta alle pressioni internazionali e dei vertici dell’esercito, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha svelato il piano Gaza 2035. Una presentazione in nove pagine, con immagini create dall’intelligenza artificiale, che prevede di trasformare il territorio palestinese in un centro di scambi commerciali, con grattacieli, campi verdi e reti di trasporto rapido. Dietro un immaginario in stile Dubai e l’eco del sogno degli anni novanta dell’allora primo ministro Shimon Peres di trasformare Gaza nella “Singapore del Medio Oriente”, si nasconde un vecchio progetto israeliano: liquidare i palestinesi e le loro rivendicazioni con la promessa del libero commercio.
Il progetto in stile costa azzurra presentato dal presidente statunitense Donald Trump a febbraio porta questa logica all’estremo, perché dichiara apertamente di voler cacciare gli abitanti di Gaza dalla loro terra. Dopo il clamore suscitato dal progetto, il presidente statunitense non ha precisato le sue intenzioni. Ma il governo israeliano lo porta avanti. Il 21 maggio Netanyahu l’ha ufficialmente aggiunto agli obiettivi di guerra, insieme al ritorno degli ostaggi, alla distruzione di Hamas e alla smilitarizzazione del territorio. L’82 per cento degli ebrei israeliani vuole la pulizia etnica dell’enclave, secondo un sondaggio citato dal quotidiano Haaretz.
I nomi dei paesi che secondo Tel Aviv potrebbero accogliere i palestinesi espulsi da Gaza sono pubblicati regolarmente sui mezzi d’informazione israeliani: Egitto, Giordania, Libia, Sudan e Somaliland. Non importa che i piani siano irrealistici: una componente del “futuricidio” è creare incertezza. È impossibile proiettarsi in un futuro a breve o medio termine quando si ha paura di essere sfollati il giorno dopo. Da questa prospettiva, la guerra diventa un processo di espropriazione esistenziale. “Il futuricidio è un’intenzione”, sottolinea Latte Abdallah. “Per i palestinesi la sfida è proiettarsi in altre possibilità, non sottomettersi a una prospettiva di futuro coloniale che gli è imposta”.
E gli abitanti di Gaza resistono. Quando l’esercito israeliano ha ordinato alla popolazione di spostarsi a sud nell’ottobre 2023, è fuggito più di un milione di palestinesi. Ma quando il 19 gennaio è entrato in vigore il cessate il fuoco, in 400mila sono tornati a nord. Non gli importava che le loro abitazioni fossero ridotte in macerie. Bisognava ricreare la società, ricostruire insieme la possibilità di un futuro. Samir Zaqout non è tornato nella città di Gaza, dove la sua casa è ancora in piedi ma malridotta. Tuttavia non vuole scappare. “Il mio futuro è nella Striscia di Gaza”, assicura. “Non ho mai pensato di andarmene. E molti qui la pensano come me”. ◆ adg
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Questo articolo è uscito sul numero 1616 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati