All’inizio di marzo, messa ko da un’intossicazione alimentare acuta sono entrata e uscita dalla razionalità cognitiva, annebbiata dalla nausea altalenante. Ho però avuto qualche intuizione sulla razza, amplificata probabilmente dalle notizie sull’affidabile immutabilità della famiglia britannica, che negli ultimi tempi è diventata, per fortuna, più mutevole. Le mie intuizioni, per così dire, sono sulla bianchezza e sulle famiglie. Ma in versione nordamericana, con due personaggi principali.
Thomas Jefferson (1743-1826), artefice della dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, primo segretario di stato della nazione (1790-94), secondo vicepresidente (1797-1801), terzo presidente (1801-09) e in questo ruolo statista responsabile dell’acquisto della Louisiana. Sostenitore della prima ora della separazione totale tra chiesa e stato, fu inoltre il fondatore e l’architetto dell’università della Virginia e il fautore più eloquente della libertà individuale come senso della rivoluzione americana.
Sally Hemings (1773-1835) arrivò a Monticello, la tenuta di Jefferson in Virginia, da bambina e schiava, parte dei beni ereditati dal suocero, John Wayles. Wayles non era solo il padre della moglie di Jefferson, Martha. Era anche il padre di Sally, attraverso lo stupro de facto di Betty Hemings, una delle sue serve, schiava e chiara di pelle, madre della bambina. Martha e Sally erano sorellastre e sembravano sorelle, anche se Sally aveva 25 anni meno di Martha.
Nel 1784, Jefferson fu nominato ambasciatore degli Stati Uniti in Francia. Era poco prima della rivoluzione francese. Portò con sé le sue due figlie, insieme a Sally, che all’epoca aveva 13 anni, e a suo fratello James Hemings. Jefferson aveva 44 anni ed era rimasto vedovo. Stando a quel che si dice, lui e Sally cominciarono la loro relazione in Francia.
Sally rimase in Francia per ventisei mesi. Lì la schiavitù era stata abolita, perciò Jefferson pagava un salario a lei e a James, che stava facendo pratica per diventare uno chef de cuisine. Alla fine del suo soggiorno, James aveva assunto un precettore francese e stava imparando la lingua, e così Sally.
In quel periodo lei rimase incinta di Jefferson. Aveva quindici anni. In base alla legge francese tanto Sally quanto James erano liberi. Tuttavia, se lei fosse rientrata in Virginia con Jefferson sarebbe stata di nuovo ridotta in schiavitù. I forti legami con la madre, i fratelli e le sorelle la richiamavano a Monticello, ma lei non voleva tornare finché non ebbe strappato a Jefferson la promessa che i suoi figli, a 21 anni, sarebbero stati affrancati.
Tornarono. Sally perse il suo primo figlio subito dopo, ma dai registri risulta che poi mise al mondo sei figli di Jefferson, tutti concepiti mentre lui era a Monticello. Lui non si risposò mai né ebbe mai figli da altre donne, libere o schiave. E non risulta che Sally abbia avuto rapporti con altri uomini. Durante i loro quarant’anni di unione lui diventò segretario di stato, poi vicepresidente, presidente e fondò e progettò l’università della Virginia.
Sally rimase con lui fino alla sua morte nel 1826. Tra le sue funzioni a Monticello: bambinaia-compagna, cameriera personale, domestica e sarta.
Non sappiamo se sapesse davvero leggere o scrivere, anche se i suoi fratelli James e Madison erano alfabetizzati. Era descritta come molto bella, con capelli lisci che le scendevano sulle spalle, e si crede che abbia vissuto nelle south dependencies, l’ala di Monticello da cui si accedeva alla dimora padronale attraverso un passaggio coperto. I suoi figli furono tutti addestrati come artigiani specializzati in mestieri come la falegnameria e la tessitura; nessuno lavorava nei campi, e a tutti i maschi fu insegnato a suonare il violino, strumento suonato dallo stesso Jefferson.
Questa è, ridotta all’osso, la loro relazione. Ma a chi fosse più curioso consiglio vivamente il bel libro di Annette Gordon-Reed, The Hemingses of Monticello: an american family, o la biografia Thomas Jefferson: an intimate history di Fawn Brodie. Anche se la “controversia Hemings” era ben nota già all’epoca di Jefferson (negli articoli di giornale lei era apertamente e offensivamente indicata come la bruna o la focosa Sally), lui personalmente non fece mai alcun commento in proposito e con il tempo lo scandalo fu opportunamente messo a tacere. Quando riaffiorò negli anni settanta del novecento, gli studiosi di Jefferson e i discendenti della sua famiglia bianca ne furono scandalizzati.
Ci sono voluti tutti questi anni di test del dna per provare una volta per tutte che i figli di Sally furono concepiti da Thomas Jefferson. Alla fine (dopo la sua morte, grazie al testamento) l’ex presidente affrancò via via che raggiungevano la maggiore età tutti i figli sopravvissuti di Sally: Beverly, Harriet, Madison e Eston. Delle centinaia di schiavi che possedeva legalmente, nelle sue disposizioni testamentarie Jefferson ne liberò solo cinque, tutti maschi della famiglia Hemings (Harriet fu la sola schiava a cui Jefferson consentì di andare libera). I figli di Sally erano per sette ottavi di discendenza europea e tre dei quattro, una volta ottenuta la libertà, entrarono a far parte della società bianca; i loro discendenti s’identificarono a loro volta come bianchi.
La stessa Sally non fu messa all’asta e alla fine fu liberata dalla figlia di Jefferson, Martha Jefferson Randolph. My name is James Madison Hemings di Jonah Winter, del 2016, è il libro più recente che abbiamo su di lei. Pochi anni fa la fondazione Monticello ha finalmente annunciato che quella che probabilmente fu la stanza degli Hemings, attigua alla camera da letto di Jefferson, era stata individuata ed era in via di ristrutturazione.
E da quando mi ci sono imbattuta che la storia di Sally Hemings e Thomas Jefferson mi affascina. In apparenza, e dal punto di vista politico anche in pratica, è una storia di potere, di stupro e di possesso. Dopotutto James Madison, padre della costituzione degli Stati Uniti, era uno schiavista. Lo era anche George Washington, padre della nazione, che durante tutta la sua presidenza andò a caccia di una giovane schiava fuggiasca, Ona Judge, che però riuscì a sfuggirgli. Su questa stessa ben radicata istituzione della schiavitù si stava costruendo metà del nuovo mondo, l’istituzione che monetizzava il corpo umano fino alla più piccola cellula: dalla donna incinta, venduta all’asta per la sua fecondità, a tutti gli anni di lavoro massacrante e di silenzio imposto con la mordacchia, le frustate, le punizioni, le amputazioni, lo stupro (per aumentare il proprio stock di carne umana) e il terrore, fino alla malattia e alla morte, e anche allora con la monetizzazione del cadavere per la sperimentazione della fiorente professione medica. Niente andava sprecato. L’ordinato, compatto, compiuto sistema capitalistico.
Ma Jefferson? Il custode della coscienza individuale e della fame di libertà individuale! Jefferson, il grande scrittore, la presenza magnetica, il padre fondatore per antonomasia! Sì, ogni desiderio di rendere romantica la sua storia con Sally Hemings si schianta contro la sofferenza di cui quella relazione era satura.
È vero, Jefferson aveva cercato d’inserire l’abolizione della schiavitù nella dichiarazione d’indipendenza, ma l’idea fu bloccata dal South Carolina e dalla Georgia. I suoi stessi scritti rimbalzano avanti e indietro tra il considerare lo schiavismo un “commercio esecrabile” o un “assemblaggio di orrori” e trovargli delle scusanti. Era un maestro della compartimentazione. Continuò a tenere una corrispondenza con James Hemings per anni e gli offrì la posizione (retribuita) di chef de cuisine alla Casa Bianca, ma lui declinò. Jefferson non separò e non vendette mai nessuno dei componenti della famiglia Hemings, che a Monticello avevano tutti posizioni di lavoro relativamente privilegiate. Ma dovremmo essergli grati per questo? E chissà, forse Sally osava sognare proprio lui? Forse quella ragazzina aveva davvero perso la testa per l’inviato americano a Parigi, di cui erano noti il fascino e l’avvenenza? Per il leader rivoluzionario, il grande uomo? In fondo, non era giusto compatirlo? Lui, non ancora vecchio ma vedovo, e solo?
Ma l’osservazione forse più strana di ogni altra è: cosa vide Jefferson nel volto di Sally? Forse le spettrali sembianze di Martha, sua moglie (morta all’età di 34 anni dopo sette gravidanze)? Una sua versione più giovane e malleabile?
Gli scritti di Thomas Jefferson rimbalzano tra il considerare lo schiavismo un “commercio esecrabile” o un “assemblaggio di orrori” e trovargli delle scusanti
Quarant’anni di intimità lasciano una traccia potente. Nel 1802, quando il giornalista James Callender riferì della relazione di Jefferson con Hemings, il suo racconto suggeriva che la loro unione fosse già ampiamente nota, visto che lei era descritta come “una specie di moglie per Jefferson”. Annette Gordon-Reed ha criticato i biografi che insistono a giudicare ridicola anche solo l’idea che Thomas Jefferson avesse potuto subire l’influenza positiva di un’insignificante schiava nera. Che Sally Hemings, francofona compagna di letto di Jefferson e ben organizzata custode delle sue stanze private, gli facesse anche da consigliera? Che sotto la superficie ci fosse in effetti, distorta e contorta, una storia d’amore? Queste tortuosità e queste ironie non saranno mai accertate. L’unica cosa che possiamo sperare di sapere è che c’era amore tra madre e figli, che c’era una fedeltà (imposta o volontaria) tra donna e uomo, che c’era sofferenza umana. E c’era la famiglia.
Questa famiglia-ombra di Thomas Jefferson è esemplare delle verità più profonde sul razzismo americano: non solo l’orrore delle cose che chi era bianco faceva a chi era nero, ma delle cose che i congiunti facevano alle loro stesse famiglie. Dove si colloca questa vasta tavolozza di relazioni intime (corredata da una gerarchia barocca di quanti incroci fossero necessari per “purificare il sangue”) nella storia della famiglia? O per contenerla è necessaria una storia ombra, il comune presupposto che il proprietario di una piantagione avesse due famiglie, una schiava e una bianca? La trama si assottiglia mentre il sangue si addensa.
Guarda bene. Madison Jefferson Hemings, 14 anni, figlio schiavo, occhi grigi, capelli rossi e lentiggini, alto e allampanato, l’immagine di suo padre, in piedi come servitore dietro la sedia di James Madison Jefferson, più o meno la stessa età, stessi colori, stesse caratteristiche fisiche, nipote legittimo: due ragazzi che potrebbero sembrare una coppia di gemelli. Che effetto ha questo sulla mente, sul senso di realtà, sulla realtà della politica jeffersoniana, forse l’unica tradizione democratica affidabile negli Stati Uniti?
Cosa significa che Thomas Jefferson poteva cercare la stessa donna nei lineamenti della sua bianca e legittima moglie Martha Wayles e della sua sorellastra, la propria schiava moglie amante concubina Sally Hemings continuamente riclassificata bianca o nera o illegittima? Cosa significa che nello stato della Virginia i rapporti sessuali con la sorellastra della propria moglie erano considerati un atto incestuoso illegale, eppure nessuno faceva niente? Cosa significa che Dolley Madison (moglie di James Madison, presidente degli Stati Uniti dal 1809 al 1817)nel 1837 poteva dire “la donna bianca del sud è la schiava principale dell’harem del padrone” e poi lasciare le cose come stavano? Cosa significa sapere che l’azione è impossibile, e non agire? Cosa significa sapere che l’azione è possibile, e non agire?
Jefferson, forse il migliore dei padri fondatori, puntò la sua vita sulla convinzione che l’anima individuale ha sete di libertà ed è in grado di sostenere quella responsabilità, qualunque cosa accada. Su questa convinzione scommise anche l’anima di Sally Hemings. Prima, però, non le chiese mai il permesso di farlo.
O forse le fece. E forse lei disse di no.
O forse lo fece. E forse dimenticò quello che lei aveva risposto.
O forse fu in primo luogo un’idea di Sally, ma lui non ci fece caso, perché era superiore a quei meschini dettagli di proprietà.
E hanno il coraggio di parlare di sacralità della famiglia! Oh America mia, c’è sangue sulle tue mani, ma non lo riconosci neanche come il tuo. Tu non esisti, America bianca, non sei mai esistita. L’agonia che crei per gli altri è reale, ma è sempre servita a convincere te stessa, e chi è in agonia, che l’illusione della tua esistenza era reale. Quella luce non si muoveva né cambiava colore muovendosi, come in uno spostamento verso il rosso o in un prisma.
Jefferson disconobbe i figli schiavi non perché erano neri, visto che, in base alla stessa struttura razziale delle sue classificazioni del sangue follemente meticolose, non lo erano. Li disconobbe perché erano schiavi. Tuttavia gli schiavi bianchi non si erano mai visti. Se sei bianco, non sei schiavo; se sei uno schiavo, non sei bianco. Se sei una donna, non sei un uomo; se sei un essere umano, non sei uno schiavo. Eppure Dolley Madison, a quanto pare, sapeva.
I figli schiavi di Jefferson furono disconosciuti non perché erano diversi, ma perché erano uguali. Il terrore di questa verità è stato distorto dalla pappa religiosa del “sotto la pelle siamo tutti fratelli”, di cui ci si può riempire tranquillamente la bocca senza che nessuno ci creda, perché la sua ipocrisia è assicurata dalla verità assunta come regola di vita della costante e perpetua compartimentazione.
La paura non è che siamo diversi. La paura è che siamo identici.
Le nostre ombre ci precedono e ci seguono. Ma solo quando siamo alla luce. Il sangue sulle nostre mani, America, è sempre stato il nostro stesso sangue. È una vecchia storia per chiunque lo abbia versato. ◆ mn
Robin Morgan è una poeta, scrittrice, attrice e attivista statunitense nata nel 1941. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Il demone amante. Sessualità del terrorismo (La Tartaruga 1998). Il titolo originale di questo articolo è A meditation on whiteness.
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Questo articolo è uscito sul numero 1407 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati