Sul parabrezza di Langton Mutubuka ci sono tre orsi e una tigre. Ogni orso tiene tra le zampe un cuore con la scritta I love you, mentre la tigre ha lunghe zampe e dei capelli bianchi che le spuntano bizzarramente da dietro le orecchie. I pupazzetti sono legati da una cordicella fissata al vetro con delle ventose. Mentre guida, Mutubuka li ha sempre davanti. Fanno allegria. In fondo questa è la sua seconda casa, se non la prima.

Come un sismografo, i peluche mostrano a quanti scossoni siamo sottoposti: sul primo tratto di strada, dalle condizioni accettabili, oscillano dolcemente ma, appena la strada peggiora, cominciano a ballare. Quando la strada diventa una distesa di buche interrotta da qualche isolotto di asfalto, i pupazzetti si scatenano. La tigre sembra tarantolata.

“Che roba”, esclama Mutubuka aggrappandosi al volante. E questa dovrebbe essere l’autostrada. Benvenuti sull’A1 dello Zimbabwe. La strada, lunga 350 chilometri, esce dalla capitale Harare in direzione nordovest e arriva fino al confine con lo Zambia. È una delle principali vie di transito, non solo del paese, ma dell’intero continente: se dal Sudafrica o dal Mozambico si vuole raggiungere lo Zambia o la Repubblica Democratica del Congo (Rdc) è una strada obbligata. Ma la percorre solo chi non può farne a meno: secondo Mutubuka, che ci passa una parte non trascurabile della sua vita, l’A1 è la strada peggiore di tutto lo Zimbabwe. E la più pericolosa.

L’Africa è il continente con il più alto rischio di morte in un incidente stradale al mondo. Secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), nel 2021 – l’ultimo anno per cui sono disponibili dati affidabili – i morti sulle strade africane sono stati 225.482, quasi il 20 per cento degli 1,19 milioni di morti in incidenti stradali al livello globale.

Questo nonostante l’Africa ospiti solo il 15 per cento della popolazione terrestre e il 3 per cento dei veicoli in circolazione in tutto il mondo. Intanto, nel resto del pianeta, le strade diventano più sicure: tra il 2010 e il 2021 il numero di morti negli incidenti stradali al livello mondiale è diminuito del 5 per cento, in Europa del 36 per cento. È un successo notevole, soprattutto se si calcola che nello stesso periodo la popolazione mondiale è aumentata di quasi un miliardo di persone e il numero di veicoli a due, tre o quattro ruote è più che raddoppiato. Quest’ultimo aumento è dovuto soprattutto alla crescita di moto e risciò a motore in Asia.

Incidenti frequenti

Il traffico aumenta e i morti diminuiscono ovunque, con la sola eccezione dell’Africa. In questo continente tra il 2010 e il 2021 le vittime di incidenti stradali sono aumentate del 17 per cento. Se in Germania su centomila abitanti ne sono morti tre, in Europa sette, nelle Americhe quattordici e nel sudest asiatico sedici, in Africa sono stati diciannove. In Zimbabwe addirittura trenta: il paese è al quinto posto, a pari merito con la Siria, nella classifica dei paesi con le strade più pericolose del mondo. Sono peggio solo quelle di Libia, Haiti, Guinea e Gui­nea-Bissau.

Questa classifica dell’Oms è basata su stime, non sui dati ufficiali comunicati dei governi, quindi c’è un margine di incertezza. Altre classifiche vedono lo Zimbabwe al primo posto. Una cosa, però, è certa: sulle strade zimbabweane la vita è decisamente rischiosa. Basta salire sul camion di Langton Mutubuka e percorrere l’A1 per averne conferma.

Alle otto del mattino il veicolo è parcheggiato alla periferia di Harare, all’imbocco dell’autostrada. Prima di partire, Mutubuka fa sempre un ultimo controllo: ispeziona il camion in lungo e in largo, dà dei calci alle gomme, guarda sotto i due rimorchi e stringe tutti i nodi che chiudono i teloni intorno al carico. Quando ha finito, sale nella cabina di guida, si lascia cadere sul sedile e avvia il motore. Mutubuka ha 39 anni e il pizzetto. Il suo è un camion Volvo da 440 cavalli, sette assi, 26 pneumatici, e lungo 22 metri. Il contachilometri segna più di un milione di chilometri. Nel 2021, quando ha cominciato a guidarlo, erano 350mila: in tre anni ne hanno percorsi insieme 650mila.

In teoria il veicolo può trasportare al massimo 34 tonnellate e Mutubuka ha fatto in modo di sfruttarlo a pieno, caricando 1.360 casse di farina di mais da 25 chili l’una. La farina di mais è un ingrediente fondamentale della cucina di molti paesi africani. Cotta in acqua o nel latte, diventa una pappa abbastanza consistente che nel continente è chiamata con decine di nomi diversi, tra cui fufu, sadza, pap o bugali, come dicono nell’Rdc, la destinazione finale del viaggio di Mutubuka.

Il camionista è partito qualche giorno fa da Johannesburg, la città sudafricana dove ha sede l’azienda per cui lavora. Da lì ha raggiunto il confine tra Sudafrica e Zimbabwe, ed è incappato in una fila lunga chilometri: per due giorni ha dovuto ingannare il tempo insieme agli altri camionisti. Poi si è fermato ad Harare per altri due giorni a trovare la sua famiglia. Mutubuka è sposato e ha cinque figli, il più piccolo di un anno, il più grande di diciassette. Ha anche un cane pastore tedesco. Li vede pochissimo, solo quando si ferma da loro, due giorni all’andata e due al ritorno. Ma la vita del camionista è fatta così. Nella cabina di guida, dietro i sedili, c’è una cuccetta dove dorme, con degli scomparti in cui tiene una pentola, una padella, della pasta, delle cipolle e un fornelletto a gas. I pasti li prepara lì, tranne quando si trova nello Zambia, perché lì nelle aree di sosta hanno vietato i fornelli a gas dopo che un camionista, usandone uno, ha causato l’esplosione del suo mezzo.

La tappa successiva è a un’altra frontiera, quella tra Zimbabwe e Zambia. Lì lo aspetta un’altra lunga attesa, tra i due e i quattro giorni. Poi bisognerà attraversare lo Zambia fino a raggiungere l’ultima frontiera da superare, quella con la Rdc, e toccherà armarsi di pazienza. Una volta nell’Rdc, però, la meta sarà vicina: Kasumbalesa, la città dove Mutubuka deve consegnare il carico, è appena oltre il confine.

Totale dei chilometri percorsi da Johannesburg a Kasumbalesa: duemila. Durata del viaggio: da una a due settimane, a seconda di quanto bisogna aspettare alle frontiere. Paesi attraversati: quattro.

Un elefante sull’autostrada vicino a Hwange, Zimbabwe, 2022 (Zinyange Auntony, Afp/Getty)

Appena fuori Harare, l’A1 mostra il suo lato migliore: il manto stradale è perlopiù una superficie senza buche, a destra e a sinistra si vedono piccoli villaggi e vasti campi. In molti punti la strada è stata rattoppata alla meglio, ma le buche aperte sono pochissime e di solito Mutubuka comincia a rallentare prima ancora di arrivare. Evidentemente la conosce bene.

Sulla strada c’è un via vai di biciclette, moto, auto e soprattutto camion. Quelli diretti a sud trasportano il cobalto e il rame estratti nelle miniere di Zambia e Rdc verso i porti di Sudafrica e Mozambico. Quelli diretti a nord, invece, vanno proprio in quelle miniere, con carichi di acido solforico da usare per l’estrazione o di generi alimentari destinati ai lavoratori, come Mutubuka.

Ma i treni? Non ne esistono più. Una volta lo Zimbabwe aveva una delle migliori reti ferroviarie africane, che però è in rovina da quando il dittatore Robert Mugabe ha fatto sprofondare il paese in una crisi economica permanente: i treni arrugginiscono nelle stazioni e, sui binari che incrociano l’A1 a un’ora di strada da Harare, l’erba è alta fino alle ginocchia.

Fare il camionista è il lavoro dei sogni per Mutubuka: solo lui e la strada, niente pensieri, musica gospel e il vento dai finestrini. L’aria condizionata, purtroppo, è rotta. Con la mano destra posata sul volante, Mutubuka reclina un bel po’ lo schienale. Sembra che stia guardando la tv in poltrona.

Sulla strada c’è un via vai di bici, moto, auto e soprattutto camion. Quelli diretti a sud trasportano il cobalto e il rame estratti in Zambia e Rdc

Con i suoi due rimorchi, il camion di Mutubuka è uno dei più lunghi in circolazione sull’A1 e uno dei più veloci: può raggiungere gli ottanta chilometri orari, in discesa gli 85. E quando le condizioni della strada lo consentono, Mutubuka arriva effettivamente a quelle velocità. Gli altri camion non lo sorpassano mai. Lui invece li supera spesso.

Questione di millimetri

Quando lo fa, passa dalla posizione del telespettatore a quella del cocchiere: schiena dritta ed entrambe le mani sul volante. Sorpassare è una questione di millimetri: la strada è strettissima, più ci si allontana da Harare, più si restringe, mentre aumentano curve e buche. La linea che separa le carreggiate s’intuisce appena e solo a tratti, mentre quelle laterali sono sparite del tutto: dove finisce l’asfalto, inizia la ghiaia. In vari punti tra l’uno e l’altra c’è un fosso profondo mezzo pneumatico. Più ci si allontana da Harare, più la strada diventa pericolosa.

Nel 2024 la polizia ha registrato vari incidenti mortali lungo l’A1.

Ha assistito a molti incidenti sull’A1 ma non è mai stato coinvolto: perché è sempre concentrato e dà ascolto al suo camion

A 65 chilometri dalla capitale, il 28 febbraio, uno scontro tra un pullman e un pickup della polizia ha causato quattro morti. Non sono state fornite indicazioni sulle cause dell’incidente.

A 116 chilometri, il 28 febbraio la gomma di un camion si è staccata colpendo un pedone alla schiena. L’uomo, un medico di trent’anni, è morto sul colpo.

A 136 chilometri, il 31 dicembre un pick­up ha preso di striscio una station-wagon con tredici persone a bordo. Tre morti e dieci feriti.

A 143 chilometri, il 31 dicembre un pullman con 21 passeggeri si è ribaltato uscendo di strada: un morto e dieci feriti.

A 171 chilometri il 23 ottobre un suv lanciato a tutta velocità ha colpito frontalmente un’utilitaria con otto persone a bordo. Secondo la polizia, il conducente del suv stava cercando di sorpassare una moto. Due morti e nove feriti.

A 229 chilometri, il 9 dicembre un’auto ha sbandato ed è finita sull’altra carreggiata dove arrivava un camion, che nello scontro si è ribaltato e ha preso fuoco. Il conducente è morto.

Le cause degli incidenti stradali sono le stesse in tutto il mondo: eccesso di velocità, guida in stato di ebbrezza, distrazione del conducente, cinture slacciate, bambini senza seggiolino, motociclisti senza casco. In Africa le cose non vanno diversamente, ma per varie ragioni ci sono più incidenti mortali che altrove.

La prima è il tipo di veicoli che percorrono le strade africane. Più di un terzo delle auto usate vendute in tutto il mondo finisce in Africa. Spesso sono veicoli che hanno percorso centinaia di migliaia di chilometri e che in un paese come la Germania non passerebbero mai la revisione. In vari paesi africani – tra cui lo Zimbabwe – nessuno controlla veramente di che anno sono le auto importate né quali sono le loro condizioni. Per questo in giro ci sono un sacco di macchine a malapena idonee a circolare.

La seconda ragione è il codice della strada. Innanzitutto ci sono meno restrizioni: in Zimbabwe, per esempio, le cinture non sono obbligatorie sul sedile posteriore. Le poche regole spesso non vengono rispettate. Anche per gli zimbabweani valgono i limiti di velocità, l’obbligo del casco per i motociclisti, il divieto di guida in stato di ebbrezza, nonché quello di salire in tredici su un’auto da cinque posti. Sull’A1 c’è il divieto di sorpasso nei punti più pericolosi. Solo che i controlli scarseggiano e di conseguenza spesso non si rispettano le regole.

Morti sulle strade
Primi dieci paesi per numero di morti all’anno in incidenti stradali ogni centomila abitanti (Fonte: Organizzazione mondiale della sanità)

La terza sono le condizioni delle strade. Ed è quella principale, secondo Mutubuka. Lui prende l’A1 da quando ha cominciato a guidare: da sette anni fa il camionista, ma prima faceva il pendolare. È originario dei dintorni di Karoi, a metà strada tra Harare e il confine con lo Zambia. Vent’anni fa, racconta, la strada era in condizioni accettabili, ma da allora le cose sono peggiorate. Il manto stradale si sgretola: giorno dopo giorno migliaia di pneumatici consumano l’asfalto, sia al centro della strada, dove si aprono le buche, sia ai margini, causando il restringimento della carreggiata.

Promesse vuote

Da anni, racconta il camionista, il presidente Emmerson Mnangagwa, successore di Mugabe, promette di far partire i lavori sull’A1, ma non si muove mai niente. Come altre importanti autostrade zimbabweane, anche questa sta andando in rovina. Questo nonostante gli automobilisti debbano pagare un pedaggio di tre dollari statunitensi a due diversi caselli. A quanto pare, però, i soldi non sono investiti in lavori di manutenzione delle strade. Il governo non risponde alle domande in proposito e Mutubuka preferisce non fare ipotesi. Ma che in Zimbabwe le cose non vadano per il verso giusto, se ne rende conto ogni volta che viaggia. In Sudafrica, spiega, le strade sono in buone condizioni e in Zambia e in Rdc almeno l’autostrada è decente.

Centomila chilometri

◆ In Zimbabwe il trasporto di persone e merci avviene per l’80 per cento via terra, scrive il settimanale economico Zimbabwe Independent. Nel 2021 il governo di Harare ha dichiarato lo stato di calamità nazionale per le condizioni delle strade, lanciando un piano di ricostruzione che ha portato alcuni miglioramenti. Il paese ha quasi 97mila chilometri di strade, dei quali solo 18.481 chilometri sono asfaltati. La crescita demografica e l’urbanizzazione hanno fatto aumentare il numero di veicoli in circolazione: nella regione della capitale Harare ce ne sono 1,5 milioni su 2,4 milioni di abitanti. Per questo, sostiene il giornale, è ancora più urgente avere delle strade sicure.


Mutubuka ha assistito a molti incidenti sull’A1 ma lui non è mai stato coinvolto: perché è sempre concentrato e dà ascolto al suo camion, dice. E poi si è imposto di non guidare mai di notte. Già è difficile mantenere il controllo durante il giorno, di notte è praticamente impossibile. Non di rado c’è gente che guida a fari spenti o con un solo faro funzionante, perché le lampadine sono rotte, ma anche perché i conducenti non vogliono accenderle per risparmiare benzina. Secondo Mutubuka, “certi automobilisti sono proprio ottusi”.

Arrivato a Karoi, fa una pausa in un’area di sosta e controlla di nuovo nodi e gomme, poi tira giù alcuni sacchi da dare a un uomo su un pickup che si è fermato vicino al camion: è fertilizzante per i conoscenti della zona, spiega. Insomma, forse il carico iniziale non era esattamente di 34 tonnellate, ma qualcosa di più. A un chiosco Mutubuka compra uno shawarma di pollo con patatine fritte. Vorrebbe mangiarlo alla guida, ma almeno per un po’ non ne avrà modo. Dopo Karoi il paesaggio diventa più bello ma la strada peggiora, soprattutto quando s’inerpica sulle dolci colline dello Zimbabwe settentrionale. In alcuni tratti, l’asfalto è di nuovo sabbia e ghiaia e Mutubuka avanza a passo d’uomo in mezzo a una nuvola di polvere sollevata dai camion che lo precedono. Non può rilassarsi con il sedile reclinato e gustarsi in pace lo shawarma: sul parabrezza gli orsi e la tigre sono scatenati. L’unico aspetto positivo di questo tratto di strada è che le macchine procedono talmente piano che nessuno rischia la vita. Qui, dice Mutubuka, a rimetterci sono soprattutto gli specchietti laterali. Solo che quando finalmente il traffico ricomincia a scorrere, gli automobilisti frustrati si mettono a correre come matti.

La strada attraversa riserve naturali piene di licaoni, leoni ed elefanti. Non molto tempo fa, racconta Mutubuka, un camionista al crepuscolo si è schiantato contro un elefante, uccidendolo e danneggiando gravemente il camion. “Un altro buon motivo per non guidare di notte”, spiega.

Se tutto andrà come spera, presto Mutubuka smetterà di guidare nel suo paese. Vorrebbe trasferirsi in Europa, per la precisione in Polonia. Sembra che lì cerchino dei camionisti. Invece di strade potenzialmente letali e di 400 dollari al mese più premi, offrono salari decenti e buone condizioni di lavoro. O almeno così ha sentito dire. E, se non ha capito male, in Europa non bisogna aspettare giorni alle frontiere.

Un suo amico è già partito per il vecchio continente. Per duemila dollari un’agenzia gli ha procurato un posto di lavoro in Polonia e ha sbrigato per lui le pratiche burocratiche. Mutubuka sta mettendo da parte i suoi risparmi. Vorrebbe rimanere in Europa per un periodo di cinque-dieci anni, per poi tornare dalla famiglia in Zimbabwe. Difficilmente potrà portare con sé moglie e figli: servirebbero troppi soldi. Se partisse, non riuscirebbe più a vederli una volta alla settimana o una volta ogni due, ma al massimo una volta l’anno. Molto poco, ammette. Ma ormai è abituato a stare lontano dalla famiglia.

Finché non arriverà il momento di partire, però, Mutubuka continuerà a percorrere la A1, da sud a nord e da nord a sud, senza pensieri e con i finestrini abbassati. Maledirà le buche e gli anni di vita che gli costano. Con le 34 tonnellate e i 26 pneumatici del suo camion, giorno dopo giorno contribuirà a peggiorare le condizioni della strada. Finché qualcuno non si deciderà a fare qualcosa. ◆ sk

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1611 di Internazionale, a pagina 60. Compra questo numero | Abbonati